2. Il codice civile ed il provvedimento amministrativo
Se dunque in passato ci si rivolgeva al diritto civile per colmare le lacune del diritto amministrativo, pur senza utilizzare direttamente lo strumento analogico, si assiste oggi ad un trend in senso opposto, in cui la giurisprudenza nega che richiami, anche espliciti, a nozioni civilistiche diano luogo ad esportazioni tout court nel diritto amministrativo.
L’utilizzo delle categorie civilistiche è stato possibile a diversi livelli, costituenti altrettanti piani di indagine per gli interpreti1)I numerosi piani d’indagine e la rilevanza della questione sono ben dimostrati dalla circostanza che la traccia di diritto amministrativo del concorso a 45 posti di Referendario T.a.r., bandito con d.P.C.M. del 29/12/2014 . recava la seguente formulazione di ampio respiro: “Giudice Amministrativo e Diritto Privato”.
Già l’atto amministrativo, estrinsecazione del potere pubblico ed elemento fondante per l’attività della giustizia amministrativa, mostra tale allontanamento dal diritto civile.
L’assenza di una puntuale definizione legislativa aveva portato la dottrina e la giurisprudenza ad individuare anche nel provvedimento una natura negoziale; ciò anche al fine di comprendere quali siano gli elementi costitutivi che lo stesso deve presentare.
Come noto, il codice civile non ha accolto la teoretica del negozio in tutta la sua essenza ma ha fissato solo gli elementi costitutivi del negozio più importante per il diritto civile, ossia il contratto, all’art. 1325 c.c., individuandoli nella volontà, nella causa, nella forma ad substantiam e nell’oggetto determinato o determinabile; elementi che sono, però, propri e comuni a tutti i negozi giuridici (matrimonio, testamento, etc.) e che venivano estesi anche al provvedimento.
La teoria negoziale è stata, poi, superata da altra tesi (c.d. funzionale-procedimentale) che vede nel provvedimento lo sbocco di un procedimento, nelle more del quale emergono gli interessi secondari privati poi bilanciati al fine di meglio curare l’interesse pubblico.
Difetto fatale della tesi negoziale era, peraltro, l’impossibilità di assimilare del tutto i due fenomeni, sia in considerazione della radicale mancanza di libertà di scelta della p.a., dovendo essa perseguire in ogni caso l’interesse pubblico attribuitole, sia per l’utilizzo da parte della p.a. del potere autoritativo, che veniva a creare un rapporto verticale radicalmente diverso da quello paritetico negoziale.
Tuttavia, la teoria negoziale riveste ancora oggi una rilevante importanza in punto di vizi del provvedimento.
L’art. 21 septies l. n. 241 del 1990, infatti, nel disporre le ipotesi di nullità e con un chiaro riferimento normativo alla mancanza dei requisiti, di cui all’art. 1418, c. II c.c., vi include anche la mancanza di elementi essenziali (c.d. nullità strutturale).
Prima dell’introduzione dell’art. 21 septies, ad opera della l. n. 15 del 2005, la dottrina richiamata, rifacendosi all’art. 1325 c.c., immaginava quali ipotesi di nullità: la mancanza di volontà per effetto di violenza fisica, la mancanza di forma essenziale (omessa sottoscrizione), la mancanza dell’oggetto, perché inesistente, indeterminato o impossibile e, infine, la mancanza o assoluta incertezza del soggetto destinatario o della cosa incisa dal provvedimento.
La giurisprudenza e la dottrina dominante, pur dopo l’approvazione della l. n. 15 del 2005, non negano tout court tale assimilazione ma ne circoscrivono l’ambito: così v’è nullità per mancanza di forma solo se questa è prevista ad substantiam e nullità, ma per difetto di attribuzione, dell’atto emanato in carenza di investitura pubblica o in assenza di norma attributiva del potere (ipotesi, queste ultime due, precedentemente ricondotte rispettivamente alla mancanza di soggetto attivo e della causa).
In realtà, così formulata, tale nullità, anziché porsi come “strutturale”, per mancanza di un forma essenziale, andrebbe ricondotta più propriamente ad altrettante ipotesi di nullità testuale, visto che la disciplina che ruota intorno alla singola nullità formale può essere diversa o, comunque, fortemente derogatoria rispetto alle altre discipline ed a quella più generale di cui all’art 21 septies l. n. 241 del 1990.
La disciplina generale, invece, pare più che idonea a coprire i casi di assenza di volontà della p.a. per integrazione da parte del funzionario pubblico di un reato, come quello di abuso d’ufficio; la consumazione del reato, infatti, scindendo il rapporto di immedesimazione organica tra p.a. e funzionario, consente di ritenere come mai realmente formata la volontà della p.a. (cfr. Cons. stato, sez. V, 4 marzo 2008, n. 890).
Sotto il profilo pratico, poi, l’utilizzo della nullità strutturale, in luogo della prevalente tesi dell’annullabilità di tale atto, appare più consono in relazione alla tutela dell’interesse pubblico leso, tanto in via successiva (rendendo applicabile il più lungo termine decadenziale previsto dal c.p.a. per la nullità), quanto in via preventiva, permettendo solo il vizio della nullità la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice, quando un privato cerca di avvantaggiarsi dell’illecito.
Note
1. | ↑ | I numerosi piani d’indagine e la rilevanza della questione sono ben dimostrati dalla circostanza che la traccia di diritto amministrativo del concorso a 45 posti di Referendario T.a.r., bandito con d.P.C.M. del 29/12/2014 . recava la seguente formulazione di ampio respiro: “Giudice Amministrativo e Diritto Privato” |