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Sulle modalità di liquidazione del danno da perdita parentale

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CONDIVIDI
The mother is dead. Death in the family. The child and father remained and the mother died of illness or accident.

Nota a Corte di Cassazione, Sezione Sesta Civile, 01 luglio 2020, n. 13269

Abstract
For the purposes of the liquidation of parental damage, the Tables prepared by the Court of Milan set the minimum and maximum limits within which, however, the Magistrate can, freely and with appropriate motivation, establish the amount of compensation

Keywords
Parental damage, liquidation according to equity, Tables of Milan

Abstract
Ai fini della liquidazione del danno parentale, le Tabelle predisposte dal Tribunale di Milano fissano i limiti minimi e massimi all’interno dei quali, tuttavia, il Magistrato può, liberamente e con idonea motivazione, stabilire il quantum del risarcimento

Parole chiave
Danno parentale, liquidazione secondo equità, Tabelle di Milano

Danno parentale – modalità di liquidazione – Tabelle di Milano – criterio equitativo

Per la stima del danno non patrimoniale per la morte di un prossimo congiunto, in mancanza di criteri legali, la prassi giurisprudenziale ha concepito criteri standard per rendere omogenee e prevedibili le decisioni, tra i quali i criteri del tribunale di Milano che hanno avuto ampia diffusione e che prevedono, per ogni vincolo di parentela, una misura massima ed una minima in modo da lasciare al giudice la valutazione equitativa. Tuttavia una forbice molto ampia comporta in sostanza un sistema di liquidazione secondo “equità pura” con la conseguenza che la decisione sul quantum, non può essere oggetto di gravame in Cassazione se non supera i limiti minimi e massimi, creando così una restrizione impropria del mezzo impugnatorio.

 

Corte di Cassazione, Sezione Sesta Civile, 01 luglio 2020, n. 13269

Pres. Scoditti, Rel. Rossetti

(Omissis)

 

FATTI DI CAUSA

  1. L’11 marzo 2003 nel territorio del comune di (OMISSIS) perse la vita in conseguenza di un sinistro stradale B.E.

In data che il ricorso non indica la madre ( C.I.) ed i fratelli della vittima ( B.F. e B.C.) convennero dinanzi al Tribunale di Cosenza il proprietario ( P.S., che decederà nelle more del giudizio, e rispetto alla quale la domanda sarà coltivata nei confronti degli eredi S.F., S.L., S.M., S.S. e S.V.) e l’assicuratore della r.c.a. del veicolo che, secondo la prospettazione attorea, aveva provocato il sinistro (Unione Assicurazioni s.p.a., che in seguito muterà ragione sociale in TUA Assicurazioni s.p.a.; d’ora in avanti, “la TUA”), chiedendone la condanna al risarcimento del danno.

  1. Con sentenza 31.1.2013 n. 172 il Tribunale di C. accolse la domanda, e condannò l’assicuratore a pagare alla madre della vittima la somma di Euro 260.000, e a ciascuno dei fratelli la somma di Euro 134.000.

La sentenza venne appellata dalla Duomo Unione Assicurazioni in via principale, e dai congiunti di B.E. in via incidentale.

  1. Con sentenza 5 ottobre 2017 n. 1712 la Corte d’appello di Catanzaro:

-) rigettò il gravame incidentale nella parte tendente a ricostruire la dinamica del sinistro, confermando la responsabilità esclusiva dei convenuti;

-) elevò a Euro 275.000 il risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla madre della vittima, per tenere conto dell’invalidità psichica patita dalla donna in conseguenza della morte del figlio;

-) ritenne che il Tribunale avesse erroneamente eseguito l’operazione di detrazione, dal credito risarcitorio spettante ai fratelli della vittima, degli acconti pagati dall’assicuratore della responsabile; effettuati gli opportuni conteggi, la Corte d’appello determinò tale credito nella somma di Euro 120.140,14, oltre interessi compensativi;

-) escluse che la morte di B.E. avesse causato ai congiunti un danno patrimoniale consistente nel venir meno d’un apporto economico del defunto in favore della famiglia;

-) escluse che i danneggiati potessero pretendere tre diverse voci di danno non patrimoniale (danno esistenziale, danno biologico e danno morale);

-) negò il diritto al risarcimento del danno consistito negli esborsi sostenute per le spese funerarie, ritenendo che tali spese non fossero state dimostrate tempestivamente;

-) negò il diritto al risarcimento del danno consistito negli esborsi sostenuti per la costituzione di parte civile, perchè tali spese erano state già liquidate dal giudice penale.

  1. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dai congiunti della vittima, con ricorso fondato su cinque motivi.

Ha resistito la TUA con controricorso.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Col primo motivo i ricorrenti prospettano il vizio di omesso esame di un fatto decisivo art. 360 c.p.c., n. 5.

Nella illustrazione del motivo si sostiene che il “fatto decisivo” che la Corte d’appello non avrebbe esaminato è rappresentato dalle conclusioni precisate dagli odierni ricorrenti nel grado di appello, all’udienza di precisazione delle conclusioni del 21 dicembre 2016.

Sostengono i ricorrenti che la Corte d’appello, nel trascrivere in sentenza le conclusioni contenute nella comparsa di costituzione risposta contenente l’appello incidentale, avrebbe trascurato di prendere in esame le “nuove voci di danno prima mai menzionate” contenute nelle conclusioni rassegnate in udienza.

1.1. Il motivo sarebbe inammissibile per plurime ragioni, la più evidente delle quali è la carenza di interesse a proporlo.

I ricorrenti, infatti, si dolgono che non sia stata esaminata una domanda che essi stessi dichiarano di avere proposto tardivamente, e che in quanto tale si sarebbe comunque dovuta dichiarare inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c., quand’anche fosse stata esaminata.

  1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano, formalmente richiamando l’art. 360 c.p.c., n. 5, che la Corte d’appello avrebbe liquidato il danno non patrimoniale applicando le tabelle milanesi “vigenti” al momento del verificarsi del danno, invece che al momento della liquidazione.

Deducono che, se la Corte d’appello avesse applicato le tabelle diffuse dal Tribunale di Milano nell’anno 2014 (le ultime disponibili al momento della decisione d’appello), i danneggiati avrebbero “avuto diritto” ad una liquidazione maggiore, dal momento che quelle tabelle prevedevano quale massimo ristoro a favore della madre della vittima la somma di Euro 327.900, ed a favore dei fratelli la somma di Euro 142420, ben maggiori di quelle liquidate dal Corte d’appello.,

2.1. Il motivo è inammissibile.

La tesi che i ricorrenti vorrebbero sostenere può così riassumersi: per stabilire se la liquidazione del danno non patrimoniale derivante dall’uccisione di un prossimo congiunto sia stata equa od iniqua occorre avere riguardo non già al quantum concretamente liquidato dal giudice di merito, ma alla c.d. “tabella” da cui l’ha ricavato. Per cui, mutata la tabella nelle more del giudizio, qualsiasi importo accordato sulla base della tabelle meno recente sarebbe, per ciò solo, erroneo.

Si tratta, tuttavia, d’una tesi erronea.

Per la stima del danno non patrimoniale da uccisione d’un prossimo congiunto, in mancanza di criteri legali, da molti anni gli uffici giudiziari di merito hanno concepito criteri standard, al fine di rendere omogenee e prevedibili le decisioni.

Tra questi criteri, larga diffusione ha avuto quello adottato dal Tribunale di Milano. Questo criterio consiste nello stabilire ex ante la misura del risarcimento in base alla natura del vincolo che legava la vittima ed il congiunto superstite (coniugio, filiazione, maternità, ecc.). Per ciascun tipo di vincolo parentale è prevista una somma variabile tra un minimo ed un massimo, molto divaricati tra loro. La scelta del risarcimento concretamente dovuto nel caso specifico è rimessa alla valutazione equitativa del giudice.

2.2. Questa Corte, con la sentenza Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, Rv. 618048 – 01, stabilì che la tabella diffusa dal Tribunale di Milano sin dal 2009 e denominata “Criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante (…) dalla perdita o grave lesione del rapporto parentale” dovesse costituire “d’ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi “equo”, e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l’entità” (Cass. 12408/11, cit., p. 3.2.5 dei “Motivi della decisione”).

Vero è che in seguito si sono registrate talune decisioni dissonanti (ed in particolare Sez. 3 -, Sentenza n. 29495 del 14/11/2019, Rv. 655831 – 01, secondo cui “nella liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale (…) le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano non costituiscono concretizzazione paritaria dell’equità su tutto il territorio nazionale”).

Nella presente sede tuttavia, ed al fine di decidere il secondo motivo del ricorso, non è necessario stabilire quale delle due dissenzienti opinioni sia preferibile.

Infatti un sistema che lascia al giudice la facoltà di scegliere il risarcimento ritenuto equo tra un minimo ed un massimo molto distanti tra loro è, nella sostanza, un sistema equitativo puro, con l’unico temperamento del divieto di scendere al di sotto, o salire al disopra delle soglie tabellari.

2.3. In un sistema equitativo puro, lo stabilire se la misura del risarcimento più adatta a ristorare il danno nel caso concreto sia quella minima, quella media o quella massima prevista dalla “tabella” è una valutazione di puro fatto, riservata al giudice di merito ed insindacabile in questa sede.

Così, nel caso di specie, la “tabella” della cui mancata applicazione i ricorrenti si dolgono (diffusa dal Tribunale di Milano nell’anno 2014) prevedeva, quale risarcimento dovuto al genitore per l’uccisione d’un figlio, una somma variabile da un minimo di Euro 163.990 ad un massimo di Euro 327.990.

La Corte d’appello ha tuttavia liquidato a C.I., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale patito in conseguenza della perdita prematura del figlio, la somma di Euro 260.000.

Il giudice di merito, dunque:

  1. a) non ha violato l’art. 1226 c.c., così come interpretato da questa Corte nella ricordata sentenza n. 12408/11, perchè ha fatto correttamente riferimento, per la liquidazione del danno non patrimoniale, alla tabella diffusa dal Tribunale di Milano;
  2. b) non ha violato il principio per cui, nella liquidazione del danno non patrimoniale, occorre fare riferimento alla tabella più recente in uso al momento della decisione, perchè l’importo liquidato è compreso nel range previsto dalla tabella in uso al momento della decisione.

Nè è consentito a questa Corte sindacare se, per le peculiarità del caso concreto, quell’importo sarebbe dovuto attestarsi sulla misura massima, su quella media o su quella minima prevista dalla tabella.

  1. Col terzo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1226,2056 e 2059 c.c. Il motivo contiene due censure.

Con una prima censura i ricorrenti si dolgono del fatto che il danno non patrimoniale patito dalla madre della vittima sia stato liquidato nella misura media rispetto agli standard previsti dalle tabelle, mentre quello accordata ai fratelli sia stato liquidato nella misura massima. Deducono che tale ragionamento sarebbe “irrazionale ed antinomico”.

Con una seconda censura i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello avrebbe erroneamente “inglobato il danno biologico iure proprio riportato dalla ricorrente C.I. nell’ambito di un’unica voce di danno riconosciuta e genericamente ed unitariamente denominata danno parentale”.

3.1. La prima delle suesposte censure è inammissibile.

In primo luogo è inammissibile perchè investe una tipica valutazione di fatto riservata al giudice di merito.

In secondo luogo è inammissibile perchè si fonda su un assioma: e cioè che il dolore morale sofferto dai fratelli di persona tragicamente deceduta non potrebbe non essere di intensità inferiore a quello sofferto dalla madre. Ma una regola di questo tipo non è costituisce affatto una massima di comune esperienza, nè una legge scientifica: non tutte le madri sono Medea, e non tutti i fratelli sono Castore e Polluce. E’, per contro, potere-dovere del giudice di merito, secondo quanto le parti hanno allegato e provato, accertare con gli strumenti a sua disposizione quale sia stata la reale entità del danno nel caso concreto. Ma lo stabilire se tale accertamento sia stato corretto rispetto alle prove offerte, come già detto, è questione che esula dal perimetro del giudizio di legittimità.

3.2. Anche la seconda delle censure contenute nel terzo motivo odi ricorso è inammissibile.

Il giudice di primo grado liquidò il danno patito dalla madre della vittima nella misura di Euro 260.000.

Il giudice di secondo grado riformò tale statuizione, elevando tale importo a Euro 275.000, per tenere conto “delle conseguenze lesive dell’evento luttuoso sul piano dell’integrità psicofisica del congiunto superstite”, reputando che la morte del fio avesse causato ad C.I. una malattia psichica guarita con postumi permanenti pari al 15%.

Il danno biologico è stato dunque concretamente liquidato dalla Corte d’appello ed ovviamente nulla rileva, sul piano della correttezza giuridica della decisione, se la liquidazione sia avvenuta a parte o in una unica cifra. Nè i ricorrenti prospettano che l’importo liquidato a titolo di ristoro della lesione della salute sia erroneo sotto altro profilo, o sottostimato.

  1. Col quarto motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1226,2043,2056,2059 c.c..

Si dolgono del fatto che la Corte d’appello abbia rigettato la domanda di risarcimento del danno esistenziale.

4.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., avendo le SS.UU. di questa Corte stabilito ormai da dodici anni che “di danno esistenziale nel nostro ordinamento non mette conto discorrere” (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008).

Col quinto motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1223,1226,2043 c.c.; nonchè dell’art. 115 c.p.c..

Si dolgono del rigetto della domanda di risarcimento delle tre voci di danno patrimoniale da essi dedotte: il rimborso delle spese funerarie; il rimborso delle spese di costituzione di parte civile; il ristoro del lucro cessante derivante dalla perdita dell’apporto economico che la vittima avrebbe dato alla famiglia. Deducono che, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d’appello, le prove documentali degli esborsi sostenuti per le prime due voci erano “in atti”. quanto alla terza voce di danno, deducono che gli studi compiuti dalla vittima (in una scuola alberghiera), la sua verosimile realizzazione lavorativa futura, e i bassi redditi della madre e dei fratelli, dovevano indurre la Corte d’appello a ritenere altamente probabile una contribuzione economica della vittima in favore della famiglia, se non fosse prematuramente scomparsa.

5.1. Nella parte in cui censura il rigetto della domanda di risarcimento del danno per spese funerarie, il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Il ricorrente, infatti, sostiene che la Corte d’appello avrebbe ritenuto non presenti in atti documenti che invece vi erano, ma non deduce nè dove si trovino tali documenti, nè quando siano stati prodotti, nè quale ne fosse il contenuto.

Nella parte in cui censura il rigetto della domanda di risarcimento delle spese di costituzione di parte civile il motivo è inammissibile, perchè estraneo alla ratio decidendi.

Tale domanda è stata infatti rigettata dalla Corte d’appello sul presupposto che quelle spese fossero già state liquidate dal giudice penale, valutazione che non viene nemmeno sfiorata dal ricorso.

Nella parte restante, infine, il motivo è inammissibile, perchè ancora una volta censura un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito.

  1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(Omissis)

 

Nota a sentenza

 

Sommario

Premessa. La vicenda processuale – 1. Il danno da perdita del rapporto parentale – 2. La liquidazione del danno e le Tabelle di Milano e Roma – 3. La decisione ed i velati dubbi sulle Tabelle di Milano

 

Premessa. La vicenda processuale

Il giudizio ha ad oggetto la richiesta di risarcimento avanzata dai congiunti (madre e fratelli) di un soggetto, vittima di un incidente stradale, in seguito al quale perse la vita.

In primo grado, accertata le responsabilità nel sinistro, il giudice condannava i convenuti in giudizio a risarcire alla madre della vittima la somma di € 250.000,00 a titolo di danno parentale, ed ai fratelli, per le stesse causali, la somma di € 134.000,00 ciascuno. La Corte d’Appello, investita della questione, rigettò il gravame incidentale nella parte tendente a ricostruire la dinamica del sinistro, confermando la responsabilità esclusiva dei convenuti; elevò a Euro 275.000 il risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla madre della vittima, per tenere conto dell’invalidità psichica patita dalla donna in conseguenza della morte del figlio; ritenne infine che il Tribunale avesse erroneamente eseguito l’operazione di detrazione, dal credito risarcitorio spettante ai fratelli della vittima, degli acconti pagati dall’assicuratore della responsabile; effettuati gli opportuni conteggi, la Corte d’appello determinò tale credito nella somma di Euro 120.140,14, oltre interessi compensativi.

Gl’istanti ricorrevano in Cassazione essenzialmente censurando il fatto che la Corte d’Appello non avesse utilizzato la versione più aggiornata delle Tabelle di Milano e che vi fosse stata una irragionevole differenza nella liquidazione del danno tra la madre della vittima (per cui venivano utilizzati i valori medi di dette tabelle) ed i fratelli della vittima (per i quali invece venivano utilizzati i valori minimi).

  1. Il danno da perdita del rapporto parentale

La scomparsa di un parente costituisce un evento doloroso dal quale scaturisce spesso un vuoto esistenziale incolmabile, che si ripercuote nella vita quotidiana e genera un vero e proprio mutamento delle proprie abitudini vitali.

Per questa ragione, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato la figura del c.d. “danno da perdita del rapporto parentale”, annoverabile tra le categorie di danno non patrimoniale previsto ex art. 2059 c.c. e risarcibile nei confronti dei familiari di un soggetto defunto a causa dell’illecito altrui.

In particolare la Corte di Cassazione ha definito il danno da perdita del rapporto parentale come consistente<<nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti>>.[1], e più di recente <<nella perdita di un prossimo congiunto da cui consegue normalmente una condizione di vuoto esistenziale da parte dei familiari, determinato dal fatto di non poter più godere della sua presenza e di non poter più sperimentare tutte quelle relazioni fatte di affettività, condivisione, solidarietà che caratterizzano un sistema di vita che viene irreversibilmente stravolto>>.[2]

Il danno parentale consiste, dunque, nella privazione di un valore non economico, ma personale che va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare. Viene valutato il vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti.

  1. La liquidazione del danno e le Tabelle di Milano e Roma

L’esatta liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale costituisce uno dei profili più problematici della fattispecie in esame in quanto, trattandosi di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali insuscettibili di conversione economica, la liquidazione del danno in parola avviene principalmente attraverso un criterio equitativo (artt. 1226 e 2056 cod. civ.).

Il giudicante, tuttavia, a differenza del danno all’integrità psico-fisica per il quale si può ancorare ad un elemento comunque oggettivo come la percentuale dell’invalidità permanente, nel danno parentale deve considerare tutte soggettive variabili (intensità del vincolo familiare, situazione di convivenza, l’età della vittima primaria e dei danneggiati secondari), al fine di addivenire ad una liquidazione del risarcimento che sia effettivamente commisurata alle conseguenze negative che l’evento lesivo ha prodotto ai congiunti della vittima.

Invero, come accaduto per il danno biologico, nei vari uffici giudiziari si è da sempre sentita l’esigenza di omogeneizzare la quantificazione del danno da perdita del congiunto, nell’intento di limitare la discrezionalità del singolo giudice ed evitare ingiuste differenze nelle liquidazioni, allineandole così su tutto il territorio nazionale.

I tribunali più attivi su questo versante sono stati da sempre il Tribunale di Roma ed il Tribunale di Milano che hanno elaborato delle specifiche tabelle di quantificazione del danno da perdita parentale. Del resto il sistema tabellare è stato da sempre utilizzato dagli uffici giudiziari e dagli Osservatori per offrire agli operatori un contributo utile a rendere più equa e prevedibile la liquidazione del danno non patrimoniale. Tuttavia, se da un lato le tabelle romane si sono sempre fondate sull’individuazione di somme specifiche utilizzando criteri prestabiliti, di contro le tabelle milanesi, nelle varie edizioni, per il ristoro del danno parentale hanno sempre previsto per ogni grado di parentela un range, ovvero una somma minima ed una massima liquidabile al danneggiato, entro cui il giudice può liberamente muoversi.

Entrambe le Tabelle, per diversi anni, hanno trovato applicazione nei diversi fori, almeno fino a quando la Cassazione, in occasione della nota sentenza n. 12408/2011, stabilì che le Tabelle predisposte dall’Osservatorio presso il Tribunale di Milano dovessero costituire<<d’ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi “equo”, e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l’entità>>. In particolare, secondo la Suprema Corte <<l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale – e al quale la S.C., in applicazione dell’art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono>>[3]. Tale principio è stato poi più volte ribadito dalla Suprema Corte[4] nonché recepito dalla quasi totalità delle corti di merito tanto che, nel 2017, è stata la stessa Corte di Appello di Roma a ribadire che << l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale ¬ e al quale la S.C., in applicazione dell’art. 3 Cost. riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. >>[5]

La Tabella romana – Edizione 2018, tuttavia, si è proposta nuovamente come contro altare alle tabelle milanesi, in aperto contrasto con la richiamata Sentenza della Cassazione n. 12408/2011 (c.d. “sentenza Amatucci”), come si evince sin dalla stessa relazione illustrativa. Secondo i giudici capitolini la Tabella milanese non sarebbe conforme alla legge n. 24/2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”) ed agli artt. 138 e 139 d. lgs. 7 settembre 2005 n. 209, come novellati dalla legge n. 124/2017 (c.d. “Legge Concorrenza”). In particolare, per quanto attiene poi alla liquidazione del danno parentale, le Tabelle romane prevedono il meccanismo del “valore punto”, come analiticamente spiegato nei par. 58 e ss. della Relazione alle Tabelle romane – Edizione 2019, basato sulla attribuzione al danno di un punteggio numerico a seconda della sua presumibile entità e nella moltiplicazione di tale punteggio per una somma di denaro, che costituisce il valore ideale di ogni punto. Tale sistema muove dalla enucleazione – pur consapevole della molteplicità dei fattori che devono essere considerati nella determinazione del danno da morte – di una serie di fattori presenti in tutti i casi. Più precisamente sono individuati cinque fattori di influenza del risarcimento – una volta ritenuta provata la esistenza di una seria relazione affettiva, vale a dire: a. il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, potendosi presumere che il danno sia maggiore quanto più stretto il rapporto; b. l’età del congiunto: il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite; c. l’età della vittima: anche in questo caso è ragionevole ritenere che il danno sia inversamente proporzionale all’età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita; d. la convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite; e. presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi); (fino al 4°, inclusi, quindi, i cugini): infatti il danno derivante dalla perdita è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi. La asserita “forza” delle Tabelle romane viene individuata, quindi, dagli stessi autori, nella maggiore prevedibilità della decisione.

Del vero di recente, l’impostazione del sistema “romano”, da tempo ai margini ed ormai caduto in disuso, sembra aver avuto un implicito avallo dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione che, in una pronuncia del novembre 2019, ha così affermato <<Nella liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale – diversamente da quanto statuito per il pregiudizio arrecato all’integrità psico-fisica – le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano non costituiscono concretizzazione paritaria dell’equità su tutto il territorio nazionale>>[6]. La Suprema Corte con questa pronuncia, inaspettatamente, ha nei fatti ridimensionato il ruolo di “faro” delle tabelle milanesi ai fini della realizzazione dell’equità delle liquidazioni sul territorio nazionale, quantomeno per il danno parentale. Con tale arresto, difatti, viene posto in evidenzia come, a differenza delle tabelle per le macrolesioni, l’assenza di parametri oggettivi (tranne che per il grado di parentela) e l’estrema ampiezza della forbice delle liquidazioni, diano una tale discrezionalità al Giudice da non potersi realizzare l’auspicata uniformità delle liquidazioni nei diversi fori. 

  1. La decisione ed i velati dubbi sulle Tabelle di Milano

Proprio in relazione al richiamato precedente dello scorso novembre, l’annotata sentenza presenta profili di particolare interesse velando non pochi dubbi sul valore e sulla tenuta delle tabelle di Milano per il danno parentale. Difatti se gli Ermellini ricordano l’orientamento consolidatosi dal 2011, ci tengono a ricordare l’esistenza dell’indirizzo «dissonante» (individuato nella pronuncia Cass. civ., Sez. III, 14 novembre 2019, n. 29495) per poi concludere sul punto che <<Nella presente sede […] non è necessario stabilire quale delle due dissenzienti opinioni sia preferibile>>. Tale affermazione va però messa in correlazione con un successivo passaggio in cui si legge che la “tabella milanese”, per i casi di danni da perdita del congiunto, sarebbe eccessivamente indeterminata ed in definitiva si risolverebbe in un “sistema equitativo puro” e, dunque, implicitamente ritenuto inidoneo a realizzare l’equità di trattamenti ovvero a favorire la liquidazione di somme quanto più omogenee in casi simili.

Detto questo la Corte di Cassazione, dando comunque per scontato l’applicazione nel caso di specie delle Tabelle di Milano, afferma il principio per cui un sistema che lascia al giudice la facoltà di scegliere il risarcimento ritenuto equo tra un minimo ed un massimo, molto distanti tra loro, è, nella sostanza, un sistema equitativo puro, con l’unico temperamento del divieto di scendere al di sotto, o salire al disopra delle soglie tabellari e lo stabilire se la misura del risarcimento più adatta a ristorare il danno nel caso concreto sia quella minima, quella media o quella massima prevista dalla “tabella” è una valutazione di puro fatto, riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, con la conseguente implicita compromissione del mezzo di gravame.

[1] Cass. Civ., sez. III, 09 maggio 2011, n. 10107; cfr. Cass. Civ., sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546

[2] Cass. Civ. 20 ottobre 2016, n° 21230

[3] Cass. Civ., Sez. III, 7 giugno 2011, n. 12408

[4] Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015 n. 10263

[5] Corte Appello di Roma, Sezione terza civile, 21 dicembre 2016, n. 7200

[6] Cassazione civile sez. III, 14/11/2019, n.29495