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I presupposti per la rinnovazione dell’istruttoria in appello e riqualificazione giuridica del fatto

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

I presupposti per la rinnovazione dell’istruttoria in appello e riqualificazione giuridica del fatto

La Corte di Cassazione, su una vicenda nella quale un soggetto era stato condannato in primo grado per il reato di cui all’art. 642 c.p., reato derubricato in appello in quello di truffa, ha affermato che il principio che il giudice di appello può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto nel rispetto del giusto processo previsto dall’art. 6 CEDU, anche senza disporre una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria dibattimentale, sempre che sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell’accusa inizialmente formulata, che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e che questa non comporti una modifica “in peius” del trattamento sanzionatorio e del computo della prescrizione.

Il tema oggetto di esame riguarda la violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza per la diversa qualificazione giuridica del fatto effettuata dal giudice di merito. Il principio di diritto di regola affermato dalla Cassazione è nel senso che in tema di obbligo di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, il giudice può dare al fatto una diversa qualificazione giuridica solo a condizione che il fatto storico addebitato rimanga identico, in riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico dell’autore (Cass. Pen., Sez. III, n. 19118 del 18 marzo 2008 – dep. 12 maggio 2008, D. S., in CED Cass., n. 239873). Invero, quello che rileva è che il fatto contestato rimanga lo stesso e che l’imputato abbia avuto la concreta possibilità di difendersi. Dunque, la violazione dell’art. 521 c.p.p. è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia trovato nella condizione concreta di difendersi in ordine al fatto ritenuto in sentenza (v., da ultimo: Cass. Pen., Sez. Unite, n. 36551 del 15 luglio 2010 – dep. 13 ottobre 2010, Carelli, in CED Cass., n. 248051).

Da tutto ciò consegue che quando nel capo di imputazione originario siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizione di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, non sussiste violazione del principio di doverosa correlazione tra accusa e sentenza.

Si deve, inoltre, ricordare che in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.

Nel caso in esame, l’imputato era stato condannato in primo grado per il reato di fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona (art. 642 c.p.), reato che era stato derubricato in appello in quello di truffa. L’imputato, ricorrendo in Cassazione, lamentava la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza per la diversa qualificazione giuridica del fatto, in quanto dall’originaria contestazione di violazione dell’art. 642 c.p. si è passati al reato di cui all’art. 640 del c.p.

La Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come nel caso di specie la condotta dell’imputato era stata ben delineata nel capo di imputazione e tutti gli elementi probatori raccolti confermavano essere stata posta in essere proprio dal medesimo. Questi, dunque, non ha subito alcuna lesione del suo diritto di difesa avendo ricevuto integrale contestazione dell’addebito formulato nei suoi confronti e avendo esercitato con pienezza, con riferimento allo stesso, i suoi diritti difensivi. In proposito, ha osservato che il reato originariamente contestato, art. 642 del c.p., costituisce un’ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di truffa di cui all’art. 640 c.p.: nel primo, infatti, sono presenti tutti gli elementi della condotta caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento specializzante, il fine di tutela del patrimonio dell’assicuratore.

Infine, elemento centrale nel caso esaminato, è stata ritenuta incensurabile e in perfetta linea con i principi di diritto della Cassazione la qualificazione giuridica del fatto effettuata dalla Corte di appello. Infatti, questa Corte ha affermato che in tema di reato di frode in assicurazione (art. 642 c.p.), l’integrale falsificazione della polizza e del contrassegno assicurativo, siccome impedisce l’instaurazione del rapporto tra l’autore della condotta tipica e la compagnia di assicurazione, rende l’azione inidonea a ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice, potendosi però configurare, in ordine a tale condotta, il delitto di falsità in scrittura privata e, qualora il fatto sia commesso dall’agente assicurativo, anche quello di truffa ai danni del cliente e della compagnia assicuratrice (Cass. Pen., Sez. II, n. 22906 del 16 maggio 2012 – dep. 12 giugno 2012, B., in CED Cass., n. 252997). Orbene, nel caso in esame, con gli artifizi e raggiri posti in essere l’imputato ha truffato la compagnia di assicurazione, che ha risarcito un danno cagionato dal medesimo, seppure questi non aveva instaurato alcun rapporto con la compagnia assicuratrice. Quindi, nessuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza si era verificata a seguito della riqualificazione giuridica del fatto.

Cass. pen. Sez. II, Sent., 17 settembre 2014, n. 38049

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Antonio – Presidente –

Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere –

Dott. CAMMINO Matilde – Consigliere –

Dott. IASILLO Adriano – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 19/03/2009, il Tribunale di Cosenza dichiarò D. V.F. responsabile del reato di cui all’art. 642 c.p. e lo condannò alla pena di mesi 6 di reclusione, oltre al risarcimento dei danni – da liquidarsi in separato giudizio – in favore della costituita Parte Civile.

Avverso tale pronunzia l’imputata propose gravame. La Corte di appello di Catanzaro, con sentenza del 21/12/2012, in riforma dell’impugnata sentenza dichiarò il non doversi procedere nei confronti di D.V.F. per essere il reato di truffa – così diversamente qualificato il reato di cui all’art. 642 originariamente ascrittogli – estinto per intervenuta prescrizione. Confermò le statuizioni civili e il resto della sentenza.

Ricorre per Cassazione il difensore di D.V.F. deducendo che la Corte di appello si è limitata a dichiarare la prescrizione del reato senza motivare perchè non ha ritenuto applicabile l’art. 129 c.p.p., comma 2. Inoltre rileva che il riconoscimento dell’imputato effettuato in udienza dalla P.O. non fornisce affatto la prova della responsabilità del ricorrente perchè tale riconoscimento è stato incerto. Il difensore dell’imputato censura, poi, la motivazione con la quale è stata rigettata la richiesta di assunzione di prove decisive (espletamento di perizia grafologica ed escussione della persona che l’imputato ha indicato come conducente della autovettura coinvolta nel sinistro stradale). Lamenta, infine, la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza per la diversa qualificazione giuridica del fatto (dall’originaria contestazione di violazione dell’art. 642 si è passati al reato di cui all’art. 640 c.p.), tra l’altro, effettuata con una motivazione “contraddittorìa e contrastante con la legge”.

Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento dell’impugnata sentenza.

 

Motivi della decisione

 

Manifestamente infondata è la generica doglianza sulla violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza per la diversa qualificazione giuridica del fatto effettuata dalla Corte di merito. Invero lo stesso difensore del ricorrente a pagina 17 del ricorso evoca un principio di diritto di questa Corte secondo il quale in tema di obbligo di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, il giudice può dare al fatto una diversa qualificazione giuridica solo a condizione che il fatto storico addebitato rimanga identico, in riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico dell’autore (Sez. 3, Sentenza n. 19118 del 18/03/2008 Ud. – dep. 12/05/2008 – Rv. 239873).

Orbene nel caso di specie la condotta dell’imputato è stata ben delineata nel capo di imputazione e tutti gli elementi probatori raccolti confermano essere stata posta in essere proprio dal D. V.. Il ricorrente non ha, quindi, subito alcuna lesione del suo diritto di difesa avendo ricevuto integrale contestazione dell’addebito formulato nei suoi confronti e avendo esercitato con pienezza, con riferimento allo stesso, i suoi diritti difensivi.

Invero quello che rileva è che il fatto contestato rimanga lo stesso e che l’imputato abbia avuto la concreta possibilità di difendersi.

Limite perfettamente osservato nel caso di specie; circostanza, questa, neppure specificatamente contestata nel ricorso. Dunque la violazione dell’art. 521 c.p.p. è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia trovato nella condizione concreta di difendersi in ordine al fatto ritenuto in sentenza (si vedano: Sez. U, Sentenza n. 16 del 19/06/1996 Cc. – dep. 22/10/1996 Rv. 205619; Sez. U, Sentenza n. 36551 del 15/07/2010 Ud. – dep. 13/10/2010 – Rv. 248051; Sez. 2, Sentenza n. 5329 del 15/03/2000 Ud. – dep. 05/05/2000 – Rv. 215903; si vedano anche Sez. 6, Sentenza n. 33077 del 11/06/2003 Ud. – dep. 05/08/2003 – Rv. 226532; Sez. 6, Sentenza n. 20118 del 26/02/2010 Ud. – dep. 26/05/2010 – Rv. 247330;

Sez. 5, Sentenza n. 3161 del 13/12/2007 Ud. – dep. 21/01/2008 – Rv.

238345; Sez. 2, Sentenza n. 38889 del 16/09/2008 Ud. – dep. 15/10/2008 -Rv. 241446). Da tutto ciò consegue che quando nel capo di imputazione originario siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizione di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, non sussiste violazione del principio di doverosa correlazione tra accusa e sentenza. In proposito si deve, anche, tener conto che il reato originariamente contestato, art. 642 c.p., costituisce un’ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di truffa di cui all’art. 640 c.p.: nel primo, infatti, sono presenti tutti gli elementi della condotta caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento specializzante, il fine di tutela del patrimonio dell’assicuratore (Sez. 6, Sentenza n. 2506 del 13/11/2003 Ud. – dep. 24/01/2004 – Rv. 227890; Sez. 2, Sentenza n. 24340 del 18/05/2010 Ud.

– dep. 25/06/2010 – Rv. 247934). Tale principio è stato più volte confermato e da ultimo nella parte motiva della sentenza n. 1856 del 2013 di questa Corte si è affermato che “quanto ai rapporti fra l’art. 642 c.p. e l’art. 640 c.p. (o artt. 56 e 640 c.p.), deve ribadirsi il tradizionale citato orientamento giurisprudenziale: fra le due norme vi è un rapporto di specialità, in quanto l’art. 642 c.p., a ben vedere, ha la stessa struttura dell’art. 640 c.p., in cui, però, gli interessi tutelati (patrimonio dell’assicuratore:

Cass. 12210/2007 Rv. 236132; Cass. 22906/2012 Rv. 252997), il soggetto attivo (perle ipotesi che presuppongono la stipula di un contratto e, quindi, la qualifica di soggetto assicurato), e l’elemento materiale dei raggiri e degli artifizi, sono costituiti da elementi speciali rispetto a quelli generici previsti per il reato di truffa. In particolare, le condotte previste dall’art. 642 c.p., vanno ritenute null’altro che particolari artifizi e raggiri previsti espressamente dal legislatore e che, quindi, caratterizzano e differenziano il suddetto reato da quello della truffa” (Sez. 2, Sentenza n. 1856 del 17/12/2013 Ud. – dep. 17/01/2014 – Rv. 258012).

Si deve, inoltre, ricordare che in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l”‘iter” del processo, sia venuto – come nel caso di specie – a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, Sentenza n. 36551 del 15/07/2010 Ud. – dep. 13/10/2010 – Rv. 248051).

Si deve, poi, ricordare sul punto un datato, ma condiviso principio di questa Corte secondo il quale in tema di contestazione del fatto, mentre la immutazione del fatto deve essere contestata all’imputato a pena di nullità (in forza dell’art. 521 c.p.p., comma 2, in relazione all’art. 522 c.p.p.), la erronea qualificazione giuridica del fatto deve, invece, sempre essere corretta dal giudice che è tenuto a dare al fatto contestato la esatta “definizione giuridica” (in virtù dell’art. 521 c.p.p., comma 1, per il giudizio di primo grado, e dell’art. 597 c.p.p., comma 3, per l’appello; Sez. 1, Sentenza n. 11107 del 10/11/1997 Ud. – dep. 03/12/1997 – Rv. 209165).

Infine, si deve sottolineare che questa Corte ha più volte affermato il principio che il giudice di appello può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, anche senza disporre una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria dibattimentale, sempre che – come nel caso di specie, visto anche il rapporto di specialità fra l’art. 642 c.p. e art. 640 c.p. – sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell’accusa inizialmente formulata (tra l’altro la stessa difesa dell’imputato aveva sostenuto che non era ravvisarle il reato di cui all’art. 642 poichè il D.V. non era assicurato; si veda pagina 3 dell’impugnata sentenza) che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e che questa non comporti una modifica “in peius” del trattamento sanzionatorio e del computo della prescrizione (Sez. 6, Sentenza n. 7195 del 08/02/2013 Ud. – dep. 13/02/2013 – Rv. 254720).

Infine è incensurabile e in perfetta linea con i principi di diritto questa Corte la qualificazione giuridica del fatto effettuata dalla Corte di appello. Infatti, questa Corte ha affermato che in tema di reato di frode in assicurazione (art. 642 c.p.), l’integrale falsificazione della polizza e del contrassegno assicurativo, siccome impedisce l’instaurazione del rapporto tra l’autore della condotta tipica e la compagnia di assicurazione, rende l’azione inidonea a ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice, potendosi però configurare, in ordine a tale condotta, il delitto di falsità in scrittura privata e, qualora il fatto sia commesso dall’agente assicurativo, anche quello di truffa ai danni del cliente e della compagnia assicuratrice (Sez. 2, Sentenza n. 22906 del 16/05/2012 Ud.

– dep. 12/06/2012 – Rv. 252997). Nel nostro caso con gli artifizi e raggiri posti in essere – ben evidenziati nelle sentenze di merito – l’imputato ha truffato la compagnia di assicurazione, che ha risarcito un danno cagionato dal D.V. seppure questi non aveva instaurato alcun rapporto con la compagnia assicuratrice.

Il resto del ricorso è manifestamente infondato e va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Il difensore del ricorrente non considera, infatti, che è stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione dopo una condanna in primo grado. Si deve a tal proposito ricordare la decisione delle Sezioni Unite del 2009 n.35490. In tale sentenza si è affermato che il giudice, in presenza di una causa di estinzione del reato – così come nella specie – può pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito solo quando l’evidenza della innocenza sia lampante così che la valutazione che deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a quello di “apprezzamento”, ovverosia quando sia da escludere qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento, incompatibili col concetto di mera constatazione. Le Sezioni Unite hanno ulteriormente precisato che qualora – come nella specie – in sede di appello sopravvenga una causa di estinzione del reato, il proscioglimento nel merito in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, nel senso che il giudice non è tenuto a svolgere un esame compiuto e approfondito delle risultanze probatorie già assunte ma deve dichiarare l’estinzione del reato. Infine, le Sezioni Unite hanno ribadito il concetto più volte affermato anche da altra precedente sentenza delle Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 1653 del 21/10/1992 Ud. – dep. 22/02/1993 – Rv. 192471) secondo cui in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata (Sez. U, Sentenza n. 35490 del 28/05/2009 Ud. – dep. 15/09/2009 – Rv. 244273 – 74 -75).

Dall’esame anche superficiale della sentenza di appello – esame che sarà ripreso in modo più approfondito successivamente – ci si avvede che il materiale probatorio raccolto non poteva portare sicuramente a una assoluzione con formula ampia sia perchè la prova della innocenza era tutt’altro che evidente, sia perchè a una tale assoluzione non si sarebbe potuti addivenire neanche se si fosse ravvisata una situazione di carenza o contraddittorietà della prova, che, nel caso, non poteva neppure ritenersi totalmente mancante, con la conseguenza che la Corte di merito non poteva che applicare la causa estintiva di cui all’art. 129 c.p.p., comma 1. Nè incide negativamente su quanto sopra evidenziato il fatto che, nella specie, vi fosse la presenza della parte civile in giudizio ed avendo la stessa sentenza delle Sezioni Unite, sopra richiamata, anche affermato che le anzidette regole di giudizio non sarebbero operanti se, pur sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili: con la conseguenza che sarebbe stata comunque necessaria una “piena cognitio” (che si chiede ora alla Corte di Cassazione attraverso un inevitabile annullamento con rinvio) del processo, che sarebbe dovuto pervenire a un accertamento completo e approfondito sulla responsabilità penale: di tal che la sentenza della Corte d’appello avrebbe dovuto valutare la vicenda con pienezza e completezza di motivazione (che si assume ora mancante o manifestamente illogica) onde sarebbe ancora pienamente sindacabile sotto il profilo della adeguatezza del suo iter argomentativo. Invero, non ritiene questa Corte che nel caso di specie ricorra una siffatta ipotesi. La cognizione piena e approfondita del processo ai fini della responsabilità penale quando sia presente la parte civile, con la conseguenza che il giudice di appello sia chiamato a valutare, per la presenza di tale parte, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, è necessaria solo a seguito di una espressa domanda in tal senso da parte di chi persegua una decisione sulle statuizioni civili, previa incidentale valutazione della responsabilità penale. Una tale situazione non si è verificata nel caso di specie. L’imputato era stato condannato al risarcimento dei danni nel giudizio di primo grado a seguito di piena cognizione agli effetti penali. Nella fattispecie, l’impugnazione è stata proposta dall’imputato D.V.F. che aveva chiesto una decisione (assolutoria) sulla responsabilità e ai soli effetti penali. Nessuna decisione doveva essere assunta agli effetti civili che non fosse quella automatica e strettamente consequenziale alla conferma di una condanna penale e al risarcimento dei danni già intervenuta in primo grado e ribadita in appello.

Non è quindi operante l’eccezione individuata dalle Sezioni Unite alla regola della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato con prevalenza sulla formula assolutoria in mancanza di evidenza della innocenza o in presenza di carenza o contraddittorietà della prova. Inoltre, se anche in ipotesi si volesse prescindere da quanto sopra, questa Corte si troverebbe, pur sempre, di fronte a uno sbarramento assoluto in quanto dovrebbe, in presenza di deduzione di vizi di motivazione, disporre un annullamento con rinvio ad altro giudice, tenuto conto della già intervenuta causa estintiva della prescrizione. Annullamento non consentito per la impossibilità di far proseguire il processo quando il reato sia stato dichiarato estinto per prescrizione (si vedano, su tutto quanto sopra esposto, le seguenti sentenze: Sez. 6, Sentenza n. 4855 del 07/01/2010 Ud. – dep. 04/02/2010 – Rv. 246138; Sez. 1, Sentenza n. 6593 del 28/01/2010 Ud. – dep. 18/02/2010 -Rv. 246568;

Sez. 2, Sentenza n. 23627 del 10/05/2011 Ud. – dep. 13/06/2011 -Rv.

250255).

Si deve, infine, evidenziare che comunque – contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso – dalla motivazione dell’impugnata sentenza si evince chiaramente che secondo la Corte di appello non ricorreva l’ipotesi di cui all’art. 530 c.p.p., comma 2, e che la sentenza di condanna di primo grado si sarebbe dovuta confermare se non fosse intervenuta la prescrizione. Così come – sempre tenendo presente quanto sopra esposto in diritto – non vi è il denunciato “vizio di motivazione lampante”. A ben vedere, infatti, la motivazione della Corte di appello – che legittimamente richiama quella di primo grado – espone sinteticamente tutti gli elementi probatori a carico dell’imputato. Elementi probatori contestati nell’atto di appello con censure – riproposte nell’odierno ricorso -manifestamente infondate.

E’ allora appena il caso di ricordare che questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio che in tema di ricorso per cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame – che nel caso di specie seppur sinteticamente, invece, vi è stato – di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato (Sez. 4, Sentenza n. 24973 del 17/04/2009 Ud. – dep. 16/06/2009 – Rv. 244227); inoltre che in tema di motivazione della sentenza di appello, è consentita quella “per relationem”, con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contengano, come nel caso di specie, elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi dallo stesso: il giudice del gravame non è, infatti, tenuto a riesaminare una questione formulata genericamente nei motivi di appello che sia stata già risolta dal giudice di primo grado con argomentazioni corrette ed immuni da vizi logici (Sez. 6, Sentenza n. 31080 del 14/06/2004 Cc. – dep. 15/07/2004 – Rv. 229299; Sez. 2, Sentenza n. 16716 del 11/02/2005 Ud.

-dep. 16/05/2006 – Rv. 234409).

A conferma della bontà della motivazione effettuata dalla Corte di merito si vedano le pagine 2 e 3 dell’impugnata sentenza ove, tra l’altro, si evidenzia: la validità del riconoscimento dell’imputato effettuato dal teste in udienza; quanto accertato in ordine alla proprietà dell’autovettura dell’imputato; l’assoluta illogicità del racconto dell’imputato che, tra l’altro, indica cessioni dell’autovettura, coinvolta nell’incidente, senza fornirne alcuna prova; il perchè non sia necessaria la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione delle causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 1.000,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. Inoltre, il ricorrente deve essere condannato anche alla rifusione in favore della P.C. “Zurich Insurance PLC” delle spese dalla stessa sostenute liquidate in complessivi Euro 1.900,00 oltre accessori di legge.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende, nonchè alla rifusione in favore della P.C. “Zurich Insurance PLC delle spese dalla stessa sostenute liquidate in complessivi Euro 1.000,00 oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 18 luglio 2014.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2014