L’accertamento fondato sul consumo unitario dei tovaglioli utilizzati al ristorante
In tema di accertamento presuntivo del reddito di impresa, a norma dell’art. 39D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati.
L’accertamento con metodo analitico-induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600 del 1973, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e della fedeltà della contabilità esaminata, sicché essa possa essere considerata, nel suo complesso, inattendibile.
La Suprema Corte, rigettando il ricorso dei contribuenti, ha ritenuto non censurabile la sentenza impugnata con la quale il giudice tributario aveva ritenuto corretto l’accertamento induttivo effettuato dall’ufficio finanziario a carico di una società di persone esercente l’attività di ristorazione e relativo a ben quindici avvisi di accertamento emessi ai fini delle imposte dirette ed indirette volti al recupero a tassazione di maggiori redditi di impresa e di partecipazione non dichiarati e fondati sul numero dei pasti –desumibile dal consumo dei tovaglioli di carta, ridotto di una percentuale di errore (cd. sfrido), e di stoffa adoperati– maggiore di quelli risultanti dalle fatture e ricevute fiscali emesse negli anni oggetto di contestazione.
In tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa ai sensi del citato art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600 del 1973, osserva ancora la Corte, in conformità ad un indirizzo costante, è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati –risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto e per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia– costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto idoneo, anche di per sé solo, a lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati. Tuttavia, conclude la Cassazione, è evidente che si deve, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale una certa percentuale di tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri, le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto ad utilizzare più tovaglioli (cd. sfrido).
Cass. civ. Sez. V, Sent., 24 settembre 2014, n. 20060
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BIELLI Stefano – Presidente –
Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
1. A seguito di processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di Finanza in data 29.5.01, venivano notificati alla società Ristorante Al Mulino s.n.c. di Perin Maria Grazia & C, nonchè ai soci P.M.G., M.R., M.S. e M.E., quindici separati avvisi di accertamento, emessi ai fini IRPEG, IRPEF, IRAP ed IVA, per gli anni 1998, 1999 e 2000. Con tali atti l’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione i maggiori redditi di impresa e di partecipazione non dichiarati, sulla base del numero dei pasti – desumibile dal consumo dei tovaglioli di carta, ridotto di una percentuale di errore del 25% (c.d. sfrido) e di stoffa adoperati – maggiore di quelli risultanti dalle fatture e ricevute fiscali emesse negli anni in contestazione.
L’Ufficio riteneva, altresì, che tale differenza numerica non potesse che corrispondere a somministrazioni di pasti rese senza l’emissione di alcun documento fiscale, per cui provvedeva a recuperare a tassazione anche l’IVA non versata in relazione a tali operazioni.
2. Gli atti impositivi venivano impugnati dalla società e dai soci dinanzi alla CT di primo grado di Trento, che accoglieva parzialmente il ricorso, dichiarando legittimo l’accertamento induttivo operato dall’Ufficio, ma aumentando la percentuale di sfrido al 40%, con conseguente abbattimento dei ricavi accertati.
3. L’appello principale avverso tale pronuncia proposto dall’Agenzia delle Entrate veniva accolto dalla Commissione di secondo grado di Trento, con sentenza n. 81/06, depositata il 18.12.06, con la quale veniva, invece, disatteso l’appello incidentale proposto dai contribuenti. Il giudice di secondo cure riteneva, infatti, corretto l’accertamento induttivo effettuato dall’Ufficio, a fronte delle irregolarità contabili riscontrate, nonchè adeguata la percentuale di sfrido del 25%, considerando del tutto immotivata, invece, quella del 40% applicata dal giudice di prima istanza.
4. Per la cassazione della sentenza n. 81/06 hanno, quindi, proposto ricorso la società Ristorante Al Mulino s.n.c. di Perin Maria Grazia & C, P.M.G., M.R., M.S. e M.E., affidato a quattro motivi, illustrati, altresì, con memoria ex art. 378 c.p.c.. L’Agenzia delle Entrate ha replicato con controricorso.
1. Con il primo motivo di ricorso, la società Ristorante Al Mulino s.n.c. di Perin Maria Grazia & C, P.M.G., M. R., M.S. e M.E. denunciano la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e D.L. n. 33 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, convertito in L. n. 427 del 1993, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
1.1. Avrebbe, invero errato la CTR – a parere dei ricorrenti – nel ritenere legittimi gli accertamenti induttivi operati, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), sulla base di rilievi formali di modesta entità, in presenza di una contabilità complessivamente regolare, e nei confronti di soggetti i cui ricavi e corrispettivi dichiarati, nel triennio in contestazione (1998-2000), erano stati sempre coerenti con quelli previsti dagli specifici studi di settore.
2. Il motivo è infondato.
2.1. Va, difatti, osservato – al riguardo – che l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata; sicchè essa possa essere considerata, nel suo complesso, inattendibile (Cass. 20857/07;
26341/09; 5731/12).
2.2. Orbene nel caso concreto, dall’esame dell’impugnata sentenza e degli atti del presente giudizio, si evince che i rilievi di carattere formale, mossi ai contribuenti, consistevano: a) nella mancata conservazione ed esibizione ai verbalizzanti, in sede di verifica fiscale, di un inventario delle merci in giacenza al 31 dicembre di ogni anno; b) nella mancata conservazione di 40 ricevute fiscali; c) nella mancata corrispondenza dei corrispettivi annotati negli appositi registri IVA con quello risultanti dai documenti fiscali emessi; d) nella inattendibilità dei redditi dichiarati per sole L. 55.197.000 nel 1998, a fronte di un volume di affari di ben L. 659.793.000, di L. 82.351.000 nel 1999, a fronte di un volume di affari di L. 679.082.000, e di L. 159.063.000 nel 2000, a fronte di un volume di affari di L. 693.681.000. Ebbene, non può revocarsi in dubbio che la complessiva inattendibilità della contabilità aziendale, seppure regolarmente tenuta sul piano formale, desumibile dai rilievi suesposti – tutt’altro che di scarsa entità, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti – sia idonea a legittimare l’accertamento induttivo, correttamente espletato dall’Ufficio sulla base del riscontro relativo al consumo dei tovaglioli utilizzati.
2.3. Ed invero, questa Corte ha più volte avuto modo di affermare, in materia, che in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati (risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto, e per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia), costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto idoneo, anche di per sè solo, a lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati. E tuttavia, è evidente che devesi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale una certa percentuale di tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri, le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto ad utilizzare più tovaglioli, ecc. (c.d.
percentuale di sfrido) (cfr. Cass. 9884/02; 15808/06; 13068/11).
Per il che, contrariamente all’assunto dei ricorrenti, il metodo di ricostruzione del reddito societario, utilizzato dall’Ufficio, nel caso di specie, deve ritenersi del tutto legittimo.
2.4. Non può – per vero – neppure condividersi l’ulteriore assunto dei contribuenti, secondo i quali l’accertamento induttivo operato nel caso di specie sarebbe inficiato dalla conformità dei ricavi aziendali agli studi di settore in materia, dei quali l’Ufficio non avrebbe tenuto alcun conto.
2.4.1. Va osservato, invero, in proposito, che gli studi di settore costituiscono, come si evince dal D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, convertito nella L. n. 427 del 1993, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva – in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile – il reddito reale del contribuente.
Siffatto accertamento, infatti, ben può essere condotto anche sulla base del riscontro – nella specie operato alla stregua degli elementi presuntivi suesposti – di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta.
2.4.2. Sicchè, anche a prescindere dagli studi di settore, è ben possibile all’Amministrazione fare uso di tali incongruenze a fini accertativi, essendo le stesse di per sè suscettibili di evidenziare che lo stato economico della ditta presenta caratteristiche di stranezza, di singolarità e di contrasto con elementari regole economiche, tali da renderlo immediatamente percepibile come inattendibile secondo la comune esperienza (Cass. 26341/09). E non può revocarsi in dubbio che le anomalie gestionali riscontrate, nel caso concreto, in sede di verifiche fossero, di per sè, tali da giustificare il ricorso all’accertamento induttivo, mediante gli indici parametrici suindicati, a prescindere dalle risultanze degli specifici studi di settore.
2.5. Per tali ragioni, pertanto, la censura in esame va rigettata.
3. Con il secondo motivo di ricorso, la società Ristorante Al Mulino s.n.c. di Perin Maria Grazia & C, P.M.G., M. R., M.S. e M.E. denunciano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
3.1. Sarebbe, invero, incorsa nel denunciato vizio motivazionale la sentenza di seconde cure, laddove avrebbe confuso l’abbattimento della ricostruzione dei ricavi, operato dal giudice di primo grado in misura del 40%, con la percentuale di sfrido, che l’Ufficio avrebbe prudenzialmente indicato in misura del 25%, in luogo di quella del 40% determinata dalla CT di primo grado, ed apparsa immotivata ed arbitraria alla CT di 2^ grado. Tale confusione nell’accertamento dei fatti avrebbe dato, pertanto, luogo, ad avviso degli istanti, ad inadeguatezza ed illogicità del percorso motivazionale dell’impugnata sentenza.
3.2. La censura è infondata.
3.2.1. Ed infatti, dall’esame della motivazione della decisione di primo grado (trascritta a p. 7 del ricorso), si evince in maniera chiara ed inequivocabile, che la riduzione della ricostruzione dei ricavi, da parte dei giudice di prime cure, è stata operata in conseguenza dell’aumento dello sfrido dal 25% al 40%; sicchè tale ultimo dato numerico deve intendersi riferito, non all’abbattimento dei ricavi come dedotto dai ricorrenti, bensì alla percentuale di sfrido ritenuta congrua dalla CT di 1^ grado. Il che si desume, con tutta evidenza, proprio dall’espressione “anzichè del 25%”- che, invece, secondo i ricorrenti sarebbe stata una “mera svista nella redazione della sentenza” – dal momento che tale indicazione numerica era riferita specificamente alla percentuale di sfrido che l’Amministrazione aveva inteso operare, e che – per contro – la CT di 1^ grado aveva ritenuto di elevare al 40%.
3.2.2. Nessuna incongruenza o illogicità nella motivazione dell’impugnata sentenza di secondo grado è dato, pertanto, rilevare sul punto, a giudizio della Corte.
3.3. Il motivo va, di conseguenza, rigettato.
4. Con il terzo motivo di ricorso, la società Ristorante Al Mulino s.n.c. di Perin Maria Grazia & C, P.M.G., M. R., M.S. e M.E. denunciano, del pari, denunciano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
4.1. Nella determinazione del reddito di impresa, secondo i ricorrenti, la CT di 2^ grado non avrebbe tenuto conto, infatti, dei notevoli investimenti effettuati dalla società negli anni in contestazione, per ampliamento ed ammodernamento dell’azienda, e che avrebbero comportato – come i contribuenti avrebbero dedotto nei giudizi di merito – una inevitabile contrazione del reddito.
4.2. Il motivo è inammissibile.
4.2.1. La denuncia di difetto di motivazione che investa la mancata ammissione o l’omessa valutazione di prove costituende o di documenti prodotti in causa, o ancora – come nel caso di specie – l’omessa o insufficiente valutazione di risultanze probatorie o processuali – come questa Corte ha più volte avuto modo di precisare – comporta che il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato, o erroneamente interpretato dal giudice di appello, ovvero il contenuto delle difese articolate nei giudizi di merito, provvedendo alla loro trascrizione. Quest’ultima è, infatti, finalizzata a consentire alla Corte – in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso – il controllo della decisività dei fatti da provare, nonchè delle prove o difese non prese in esame, o non adeguatamente valutate dal giudice di appello (v., tra le tante, Cass. 17915/10; 4201/10; 13677/12).
4.2.2. Ebbene, nel caso concreto, i ricorrenti non hanno riprodotto, e neppure indicato, l’atto del giudizio di appello nel quale la questione relativa alla riduzione del reddito di impresa, per effetto degli investimenti operati per l’ampliamento e l’ammodernamento dell’esercizio, sia stata proposta.
4.3. Il motivo va, pertanto, dichiarato inammissibile.
5. Con il quarto motivo di ricorso, la società Ristorante Al Mulino s.n.c. di Perin Maria Grazia & C, P.M.G., M. R., M.S. e M.E. denunciano, del pari, denunciano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
5.1. La CT di 2^ grado sarebbe, invero, incorsa nel denunciato vizio motivazionale poichè, sebbene nelle precedenti difese dei ricorrenti fossero stati esposti – a loro dire – ulteriori, rilevanti, elementi di valutazione (utilizzo dei tovaglioli nelle oliere, nei cestini del pane, per il consumo di panini, toast, ecc.) che avrebbero dovuto indurre l’organo giudicante ad aumentare la percentuale di sfrido, incongruamente determinata dall’Ufficio in misura del 25%, di tali elementi la CT di 2^ grado non avrebbe tenuto alcun modo conto.
5.2. Anche il motivo in esame deve essere dichiarato inammissibile, al pari del precedente, per difetto di autosufficienza, non avendo gli istanti neppure indicato in quale atto del giudizio di secondo grado i suesposti elementi di valutazione circa un maggiore impiego dei tovaglioli, e che si assumono pretermessi dalla CTR, sarebbero stati dedotti.
5.3. La censura, di conseguenza, va dichiarata inammissibile.
6. Per tutte le tali ragioni che precedono, dunque, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti, rimasti soccombenti, alle spese del presente giudizio di legittimità, nella misura di cui in dispositivo.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.500,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 10 febbraio 2014.
Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2014