Le Sezioni Unite sulla compatibilità dell’impresa familiare con la disciplina societaria di qualunque tipo
L’impresa familiare è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. Il principio è stato enunciato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte che hanno in tal modo composto un contrasto giurisprudenziale insorto sulla specifica questione. Muovendo dalla primazia da accordare al criterio letterale nell’analisi dei canoni ermeneutici legali, ciò che davvero si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria, osserva il giudice di legittimità, è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell’impresa: e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. E se è appropriato parlare di un diritto agli utili del socio di società di persone, (art. 2262 c.c., che però ammette il patto contrario) -mentre solo una mera aspettativa compete al socio di società di capitali, in cui la distribuzione di utili dipende da una delibera assembleare o da una decisione dei soci (artt. 2433 e 2479, comma 2, n. 1, c.c.)- nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali “durante societate“. Ancor più confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare, prosegue la Cassazione, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio: tale, da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario -integrato con la presenza dei familiari dei soci- nelle decisioni concernenti l’impiego degli utili, degli incrementi e altresì la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi; e financo la cessazione dell’impresa stessa: disciplina, in insanabile contrasto con le relative modalità di assunzione all’interno di una società, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste -il più delle volte da norme inderogabili- in funzione del tipo societario, ma univoche nell’esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale.
Siffatta conclusione, precisa ancora la sentenza in epigrafe, appare confortata anche dalla verifica della “mens legis” (criterio teleologico). Infatti, è comune l’opinione che l’istituto dell’impresa familiare, introdotto dalla riforma del diritto di famiglia, in chiusura di regolamentazione del regime patrimoniale della famiglia, abbia natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile: come si evince dallo stesso “incipit” dell’art. 230-bis c.c. (“salvo che sia configurabile un diverso rapporto”). Appare quindi coerente la conclusione che la disciplina sussidiaria dell’impresa familiare sia da intendere recessiva, nel sistema di tutele approntato, allorché non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente. Né vi è ragione di limitare il criterio della residualità al solo rapporto individuale tra imprenditore e familiare: e cioè quando sia ravvisabile, in concreto, un vero e proprio contratto associativo (eventualmente, nella forma della società occulta) o di scambio (associazione in partecipazione, lavoro subordinato, opera intellettuale); dovendosi altresì escludere la configurabilità stessa dell’istituto, in ragione della sua ricordata residualità, quando già “in limine” l’esercizio dell’impresa rivesta forma societaria. Non per questo, conclude la Corte, dall’eventuale inconfigurabilità di un rapporto contrattuale tipico deriverebbe un assoluto vuoto di tutela del lavoro prestato dal familiare del socio (quando non connotato da mera “affectionis vel benevolentiae causa”), in contrasto con l’intenzione del legislatore ed in sospetto di incostituzionalità: restando applicabile, in ultima analisi, il rimedio sussidiario, di chiusura, dell’arricchimento senza causa (art. 2041 c.c.).
a Suprema Corte Nel caso di specie, ha ritenuto incensurabile la pronuncia impugnata con la quale la corte territoriale, riformando la sentenza di primo grado, aveva rigettato le domande di pagamento a diverso titolo –mantenimento, quota del valore degli incrementi e percentuale di partecipazione agli utili– avanzate dall’attore nei confronti dei soci di una s.a.s. sul presupposto della sussistenza nella compagine societaria dei requisiti di un’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 06-11-2014, n. 23676
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. RORDORF Renato – Presidente di Sez. –
Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –
Dott. BERNABAI Renato – rel. Consigliere –
Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –
Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –
Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 26139/2010 proposto da:
********************************************************************;
– ricorrente –
contro
************************************************************;
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 3 maggio 2006 il sig. S.P. conveniva dinanzi al Tribunale di Torino i sigg. B.L. e B.A., figli della propria sorella – in proprio, e la prima anche nella qualità di socia accomandataria della Bali s.a.s.
di Bagnulo Luana & C. – esponendo – che la predetta società, avente ad oggetto la gestione di un bar, era stata costituita formalmente dai soli convenuti, nelle rispettive vesti di accomandataria ed accomandante, per poter fruire degli incentivi per la giovane imprenditoria femminile;
– che peraltro egli aveva provveduto alla ristrutturazione dei locali, ai rapporti con i fornitori e prestato quotidianamente la propria opera nella conduzione del bar, fino al 31 ottobre 2002, data in cui aveva cessato la collaborazione, stante l’altrui rifiuto di consentirgli l’ingresso nella società.
Tutto ciò premesso, ritenuta la sussistenza dei requisiti dell’impresa familiare ex art. 230 bis cod. civ., chiedeva la condanna dei convenuti al pagamento della somma di Euro 11.362,00 a titolo di mantenimento e di Euro 71.233,00 quale quota del valore degli incrementi a lui spettante; oltre alla percentuale degli utili, da accertare in corso di giudizio.
Nel costituirsi ritualmente, i sigg. B.L. e A. eccepivano l’insussistenza dell’impresa familiare, incompatibile con la struttura societaria, e contestavano nei merito le avverse allegazioni sullo svolgimento concreto del rapporto.
Dopo l’assunzione di prova testimoniale e l’espletamento di consulenza tecnica d’ufficio contabile, il Tribunale di Torino con sentenza 14 novembre 2008 accertava la sussistenza di un’impresa familiare dal 2 novembre 1999 al 31 ottobre 2002 e per l’effetto condannava la sig.ra B.L. al pagamento della somma di Euro 22.356,43 a titolo di partecipazione agli utili e di Euro 47.500,00 quale incremento di valore dell’azienda; oltre interessi, rivalutazione e rifusione delle spese di giudizio.
Rigettava, invece, la domanda nei confronti di B.A., con compensazione delle spese di lite.
In accoglimento del successivo gravame, la Corte d’appello di Torino, con sentenza 5 novembre 2009, rigettava le domande; compensando per intero le spese dei due gradi di giudizio, in considerazione del contrasto giurisprudenziale vigente in ordine alla compatibilità dell’impresa familiare con la forma societaria.
Motivava.
– che meritava adesione l’indirizzo negativo sulla predetta questione di diritto, dal momento che solo nell’impresa individuale era configurabile la collaborazione lavorativa svolta da un familiare del titolare, oggetto di tutela legale; laddove il medesimo apporto, in ragione del vincolo di parentela, non era certo ipotizzabile in favore di una società, ma solo, eventualmente, di un singolo socio:
cui non poteva però riconoscersi la qualità di imprenditore, presupposta dalla norma;
– che tale incompatibilità logica emergeva dalla stessa sentenza di primo grado, che aveva condannato al pagamento della quota degli utili e dell’incremento di valore dell’azienda la sola socia accomandataria: in tal modo, implicitamente negando la configurabilità del rapporto obbligatorio nei confronti di un imprenditore collettivo.
Avverso la sentenza, non notificata, il S. proponeva ricorso per cassazione in unico motivo, notificato il 4 novembre 2010 ed ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Deduceva la violazione dell’art. 230 bis cod. civ. in una fattispecie di società personale costituita solo da soggetti legati da un rapporto di parentela: per la quale sussisteva, quindi, l’eadem ratio della tutela legale del lavoro, prevista nell’ambito di un’attività commerciale svolta da un aggregato familiare.
Resistevano con controricorso la sig.ra B.L., in proprio e quale socia accomandataria e legale rappresentante della BALI s.a.s.
di Bagnulo e C, nonchè il sig. B.A..
La sezione lavoro della Corte di Cassazione, cui il ricorso era stata assegnato, lo rimetteva alle sezioni unite, ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla compatibilità dell’impresa familiare con la forma societaria.
All’udienza del 16 settembre 2014 il Procuratore generale ed il difensore del ricorrente precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
Motivi della decisione
Le incertezze ermeneutiche rivelate dal contrasto giurisprudenziale traggono origine dalla mancata previsione testuale, nell’art. 230 bis cod. civ., dell’esercizio in forma societaria di un’impresa familiare: nel cui ambito possa trovare, del pari, applicazione la tutela speciale del lavoro innovativamente introdotta dalla riforma del diritto di famiglia: senza dubbio modulata, prima facie, sulla figura dell’imprenditore individuale.
Il silenzio della norma sulla forma alternativa dell’imprenditore collettivo si palesa di non univoca lettura, dando luogo, oggettivamente, al dubbio se esso corrisponda ad una deliberata mens legis, o non sia piuttosto il portato di un’enunciazione sintetica, applicativa del principio di economicità (ipotesi del legislatore non ridondante), secondo cui la ripetizione logora la forza persuasiva dei messaggi e si giustifica solo se aggiunga un novum, non contenuto implicitamente nella proposizione principale: tecnica normativa di non infrequente riscontro, che lascia spazio all’integrazione della fattispecie in via ermeneutica.
Un primo indirizzo, partendo dal riconoscimento della natura eccezionale della norma, ne esclude l’applicazione all’impresa in forma societaria sul presupposto che sarebbe il frutto di una non consentita interpretazione analogica, e non solo estensiva, nell’ambito di una lacuna c.d. impropria, significativa dell’inequivoca volontà del legislatore ad excludendum, in omaggio al noto broccardo “ubi lex dixit voluti…” (art. 14 disp. gen.). Il principio di diritto, pur affermato da questa Corte in ordine al diverso problema del riconoscimento di un’impresa familiare all’interno di una famiglia di fatto (Cass., sez. 2, 29 novembre 2004 n. 22405; Cass., sez. lavoro, 2 maggio 1994 n.4204), riuscirebbe risolutivo, in astratto, anche del problema in esame, dal momento che la dizione dell’art. 230 bis cod. civ., incentrata sulla nozione soggettiva dei familiari dell’imprenditore (identificati entro precisi gradi di parentela ed affinità), non potrebbe applicarsi al familiare del socio, a copertura di un oggettivo vuoto di disciplina legale, se non in virtù di analogia legis.
Ma la tesi della natura eccezionale non appare convincente.
Al riguardo, si osserva come siffatta qualificazione discenda, in sede concettuale, dal contrasto con principi e valori generali accolti nell’ordinamento, la cui deroga sia giustificata solo entro gli stretti limiti letterali dell’enunciato.
In questo senso, il connotato dell’eccezionalità, genericamente definito dall’art. 14 disp. gen. (“leggi che fanno eccezioni alla regola generale o ad altre leggi”), trovava una più puntuale configurazione nel precedente storico dell’art. 4 preleggi al c.c. 1865 (“leggi che restringono il libero esercizio dei diritti”); ed in tale accezione non si confa, con tutta evidenza, alla fattispecie in esame, in cui si riconoscono diritti patrimoniali a chi abbia erogato prestazioni utili all’imprenditore.
Appare quindi corretto parlare, piuttosto, di un istituto autonomo – cui si può riconoscere natura speciale, ma non eccezionale – creato ex novo nell’ambito della riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151) con una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali.
La medesima opinione negativa sull’applicabilità dell’art. 230 bis cod. civ. all’impresa societaria è svolta, con iter argomentativo diverso, da Cass., sez. lavoro, 6 agosto 2003 n. 11.881 (alla quale aderisce espressamente la Corte d’appello di Torino nella sentenza impugnata), la cui ratio decidendi valorizza il presupposto sostanziale della fattispecie astratta, costituito dal rapporto di parentela (o affinità) con l’imprenditore – qualifica, spettante solo alla società, e non pure al socio – in cui favore il familiare presti la sua attività di lavoro: tanto più se questa sia erogata all’interno del nucleo familiare, e dunque senz’alcun collegamento diretto con l’impresa. Esito finale di tale ricostruzione esegetica è l’esclusione di una compresenza di rapporti: l’uno fondato sul contratto di società tra il debitore e terzi soci; e l’altro derivante dal vincolo di subordinazione al primo di un suo familiare.
Ad essa si contrappone il diverso indirizzo giurisprudenziale, sostenuto da parte della dottrina, che, ravvisando più o meno esplicitamente nell’impresa familiare dei tratti associativi, ne riconosce in linea di principio estensibile la disciplina anche ad attività continuative di lavoro svolte dal parente o affine del soggetto beneficiario, partecipe di una società, pur se con terzi estranei all’aggregato familiare: con i riflessi patrimoniali previsti dall’art. 230 bis cod. civ., pur se limitati, naturalmente, alla quota di partecipazione (Cass., sez. lavoro, 23 settembre 2004 n. 19116; Cass., sez. lavoro, 19 ottobre 2000 n. 13861).
La suddetta tesi interpretativa si articola, poi, in un ampio spettro di variazioni dottrinarie, in funzione del tipo di società e della posizione, più o meno preminente al suo interno, del socio tenuto alle prestazioni economiche in favore del familiare.
Sotto il primo profilo, appare diffusa l’esclusione delle società di capitali dal perimetro applicativo dell’art. 230 bis cod. civ. – non senza aperture possibiliste, peraltro, in tema di s.p.a. ed s.r.l.
unipersonali; ed anzi, riguardo alle s.r.l., financo se plurisoggettive, in virtù della connotazione personale più accentuata acquisita con la riforma del diritto societario (D.Lgs. n. 6 del 2003), che le renderebbe configurabili, secondo una diffusa opinione, ad una società di persone a responsabilità limitata.
Per altro verso, la tesi in esame, pur ristretta entro i confini delle società di persone, palesa poi ulteriori divergenze interpretative nell’identificazione del socio obbligato:
alternativamente identificato nel titolare dell’effettivo potere di gestione – e dunque nell’amministratore: con esclusione, ad es., del socio accomandante – o invece in ciascun socio, indipendentemente dal suo peso e ruolo, nei limiti della quota di spettanza.
Ai fini della soluzione del problema in scrutinio, vanno altresì ricordati ulteriori precedenti giurisprudenziali, che hanno lumeggiato aspetti dell’impresa familiare rilevanti sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie: quali, la natura individuale dell’impresa familiare (Cass., sez. lavoro, 18 gennaio 2005 n. 874;
Cass., sez. lavoro, 15 aprile 2004 n. 7223; Cass., sez. lavoro 6 marzo 1999 n. 1917) ed il regime fiscale dei reddito dei familiari collaboratori (definito di lavoro, e non assimilabile quindi ad un reddito di impresa: Cass., sez. 5, 2 dicembre 2008 n. 28.558).
Così riassunto, nei suoi lineamenti essenziali, il pregresso contrasto esegetico, ritiene questo collegio di aderire alla tesi dell’incompatibilità dell’impresa familiare con la disciplina delle società di qualunque tipo.
Al riguardo, occorre premettere, in sede metodologica, la primazia, tra i canoni ermeneutici legali, del criterio letterale: emergente dallo stesso ordine prioritario di enunciazione seguito nell’art. 12 disp. gen. e riconosciuta dalla giurisprudenza di gran lunga prevalente di questa Corte (Cass., sez. 3, 21 maggio 2004 n.9700 ;
Cass., sez. lavoro, 13 aprile 1996 n. 3495; Cass., sez. lavoro, 17 novembre 1993, n. 11359; Cass. sez. lavoro 26 febbraio 1983 n. 1482).
Nel contesto letterale della disposizione in esame, la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma “impresa”, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che far riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sè neutra, lasciando adito alla possibile inclusione anche dell’impresa collettiva, esercitata in forma societaria: pur se già la rilevanza riconosciuta contestualmente al lavoro svolto nella famiglia fornisce un primo elemento semantico plausibilmente riferibile ad un imprenditore- persona fisica.
Ma ciò che davvero si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonchè agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell’impresa: e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. E se è appropriato parlare di un diritto agli utili del socio di società di persone, (art. 2262 cod. civ., che però ammette il patto contrario) – mentre, solo una mera aspettativa compete al socio di società di capitali, in cui la distribuzione di utili dipende da una delibera assembleare o da una decisione dei soci (art. 2433 c.c. e art. 2479 c.c., comma 2, n. 1) – nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, “durante societate”.
Ancor più confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare, poi, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio: tale, da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario – integrato con la presenza dei familiari dei soci – nelle decisioni concernenti l’impiego degli utili, degli incrementi e altresì la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi; e financo la cessazione dell’impresa stessa: disciplina, in insanabile contrasto con le relative modalità di assunzione all’interno di una società, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste (il più delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell’esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale.
Siffatta conclusione appare confortata anche dalla verifica della mens legis (criterio teleologico).
Al riguardo, è comune l’opinione che l’istituto dell’impresa familiare, introdotto con la riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 89), in chiusura di regolamentazione del regime patrimoniale della famiglia, abbia natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile: come si evince dallo stesso incipit dell’art. 230 bis cod. civ. a norma (“salvo che sia configurabile un diverso rapporto”). Appare quindi coerente la conclusione che la disciplina sussidiaria dell’impresa familiare sia da intendere recessiva, nel sistema di tutele approntato, allorchè non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente.
Nè vi è ragione di limitare il criterio della residualità al solo rapporto individuale tra imprenditore e familiare: e cioè quando sia ravvisabile, in concreto, un vero e proprio contratto associativo (eventualmente, nella forma della società occulta) o di scambio (associazione in partecipazione, lavoro subordinato, opera intellettuale ecc); dovendosi altresì escludere la configurabilità stessa dell’istituto, in ragione della sua ricordata residuante, quando già in limine l’esercizio dell’impresa rivesta forma societaria.
Non per questo, dall’eventuale inconfigurabilità di un rapporto contrattuale tipico deriverebbe un assoluto vuoto di tutela del lavoro prestato dal familiare del socio (quando non connotato da mera affectionis vel benevolentiae causa), in contrasto con l’intenzione del legislatore ed in sospetto di incostituzionalità: restando applicabile, in ultima analisi, il rimedio sussidiano, di chiusura, dell’arricchimento senza causa (art. 2041 cod. civ.).
Alla luce dei rilievi suesposti, non può neppure condividersi la lettura correttiva della norma, sostenuta da una parte della dottrina e riflessa nei precedenti giurisprudenziali difformi, volta a salvare la coerenza del sistema mediante un’applicazione selettiva delle regole dettate per l’impresa familiare: e cioè, operando una destrutturazione della norma, sul discrimine tra un suo nucleo essenziale ed indefettibile, di applicazione necessaria, costituito dal diritto al mantenimento – riconoscibile anche in un rapporto tra familiare e socio – e il restante complesso di poteri (implicitamente, di riconosciuta incompatibilità con le regole societarie), che verrebbe ad assumere natura accessoria ed eventuale, nell’esclusivo ambito di un’impresa individuale.
Più che di una forzatura ortopedica, si tratterebbe di un’amputazione della norma nella parte in cui si riveli inconciliabile con il sottosistema societario, al fine di preservarne l’applicazione in parte qua in favore del familiare del socio. A questa stregua, la portata della tutela, anzichè posterius del precetto normativo, verrebbe ad assurgere al rango di valore sovraordinato ed incondizionato, cui piegare il dato letterale. Con una forzatura ermeneutica che traligna in sostanziale infedeltà al testo.
Anche se è venuto meno l’argomento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese nel contesto familiare – costantemente affermata prima della riforma del 1975 – deve restare fermo, infatti, il principio che l’estensione della tutela non può essere stabilita a priori, bensì vada ricostruita per via interpretativa nel rigoroso rispetto della norma positiva, nell’integrante del suo enunciato, senza arbitrarie manipolazioni.
Si aggiunga, per completezza di analisi, che l’assimilazione, in tal modo implicitamente presupposta, tra imprenditore e socio, appare altresì in contrasto con la distinzione consolidata tra le due figure; che nella prevalente giurisprudenza (Cass., sez. 1^ 6 novembre 2006 n. 23669) e dottrina restano, per contro, ben distinte.
E’ tralatizia, infatti, la tesi che attribuisce alla società di persone, dotata di autonoma soggettività (artt. 2266, 2659 e 2839 cod. civ.), la qualifica di imprenditore. E sotto questo profilo, neppure la società di fatto si caratterizza per l’attenuazione della titolarità di situazioni giuridiche, pur sempre autonoma rispetto a quella dei soci, non dipendendo dalla formalizzazione del rapporto;
mentre, viene esclusa, simmetricamente, la qualità di imprenditore commerciale in capo al socio: in particolare, ai fini della dichiarazione del fallimento in estensione, laddove prevista in ragione della sua istituzionale responsabilità illimitata (L. Fall., art. 147, comma 1), che non presuppone affatto l’autonoma insolvenza personale (Cass., sez. 1, 19 maggio 2000, n. 6541; Cass., sez. 1^ 11 dicembre 2000 n. 15596) e che resta, per contro, esclusa per il socio di una società di capitali unipersonale, ove pure l’assimilazione con la figura dell’imprenditore potrebbe apparire non arbitraria (Cass., sez. 1^, 14 marzo 2014 n. 6028).
Nè maggiore valore persuasivo, da ultimo, rivela il riferimento al pencolo di elusione della tutela del lavoro del familiare tramite l’adozione maliziosa di uno schermo societario. L’argomento prova troppo, giacchè la creazione di un diaframma, più o meno impermeabile, tra società e socio nei rapporti obbligatori, lungi dall’essere un fenomeno patologico, costituisce l’in sè della forma societaria di gestione di un’impresa.
Alla luce dei predetti rilievi, il ricorso del S. è dunque infondato e va respinto.
Il contrasto giurisprudenziale pregresso giustifica l’integrale compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese di giudizio.
Così deciso in Roma, il 16 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2014