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Diritto Penale. Non è sufficiente l’esistenza della condizione di disabilità per aversi violenza sessuale su persona disabile

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. Non è sufficiente l’esistenza della condizione di disabilità per aversi violenza sessuale su persona disabile

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18513 del 5/05/2015, ha modo di delineare alcuni punti fermi per individuare quando ricorre la fattispecie di cui all’art. 609 bis, co. 2 n.1.

Tale articolo punisce la condotta di colui che induce taluno a compiere o subire atti sessuali, abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica al momento del fatto.

Orbene, osserva la Corte che la consapevolezza dello stato di inferiorità psichica non esaurisce le condizioni che la norma prevede per la punibilità della condotta descritta dall’art. 609 bis c.p., comma 2, n. 1, essendo necessario che a tale consapevolezza si accompagni l’abuso della minorata condizione per indurre la persona offesa al compimento di atti sessuali frutto di un consenso viziato.

La norma, al pari di quella di cui al successivo n. 2, vuole tutelare la piena libertà dell’autodeterminazione all’atto sessuale e della scelta della persona con cui condividerlo, consenso che, quando non coartato od estorto con violenza o minaccia, deve essere scevro da condizionamenti di sorta derivanti da inganno personale o dall’abuso delle particolari condizioni in cui possa trovarsi la persona offesa al momento del fatto.

Ne consegue che trarre esclusivamente dalle modalità con cui è stato consumato l’atto sessuale la prova dell’induzione abusiva all’atto stesso sconta il rischio, che la stessa norma vuole evitare, che si possa identificare la condotta di induzione (mediante abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica) con l’atto sessuale che ne è il risultato, con la conseguenza di impoverire l’indagine in ordine alla minorata capacità del partner ad autodeterminarsi all’atto sessuale e di svalutare, in ultima analisi, ogni aspetto che possa concorrere a ricostruire in modo approfondito la dinamica che precede l’azione e a comprendere se davvero abuso v’è stato.

In conclusione, quindi, secondo la Cassazione, per aversi violenza sessuale ai sensi dell’art. 609 bis co.2 n. 1 cp è necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso all’atto sia viziato dalla condizione di inferiorità; 3) il vizio sia accertato caso per caso e non può essere presunto, nè desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona quando non sia di per sè tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento se necessario fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell’induzione; 5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedono.

Cass. pen. Sez. III, Sent., 05-05-2015, n. 18513

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TERESI Alfredo – Presidente –

Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere –

Dott. ACETO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Z.Z., nato a (OMISSIS);

avverso l’ordinanza del 05/08/2014 del Tribunale del riesame di Venezia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere Aldo Aceto;

udito il Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Dott. FIMIANI Pasquale, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio limitatamente all’adeguatezza della misura di custodia cautelare in carcere; rigetto nel resto.

 

Svolgimento del processo

 

  1. Con ordinanza del 23/07/2014 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova ha applicato nei confronti del sig. Z.Z. la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere perchè gravemente indiziato del reato di cui all’art. 609 bis c.p., comma 2, n. 1), per aver costretto la diciassettenne D. B.C. a subire atti sessuali (consistiti in palpeggiamenti e in una penetrazione vaginale, almeno parziale) abusando delle condizioni di inferiorità psichica della ragazza, affetta da disturbo della sfera emozionale e da ritardo mentale lieve.
  2. Con ordinanza del 05/08/2014, il Tribunale di Venezia, dopo aver precisato che non si è trattato di “costrizione”, bensì di “induzione” agli atti sessuali, ha respinto l’istanza di riesame proposta dalla persona sottoposta a indagini.

Per il suo annullamento ricorre personalmente lo Z. articolando, a sostegno, i seguenti motivi di ricorso.

2.1. Con il primo eccepisce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), erronea applicazione dell’art. 609 bis c.p., comma 2, n. 1), e contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

Sulla premessa, in fatto, del compimento non contestato degli atti sessuali descritti nella rubrica provvisoria e, in diritto, della necessaria configurabilità, ai fini della sussistenza del delitto, di una condizione di inferiorità psichica effettivamente incidente sulla libertà sessuale della persona offesa e del suo consapevole sfruttamento da parte dell’autore di tale condizione, lamenta che, nel caso di specie, nell’ordinanza genetica difettava qualsiasi accertamento sulla effettiva incidenza della disabilità mentale della ragazza sulla sua capacità di autodeterminarsi all’atto sessuale (poichè l’accertamento era stato demandato ad una perizia da svolgersi in sede di incidente probatorio in data successiva all’ordinanza cautelare) e che gli argomenti spesi dal Tribunale per colmare questa evidente lacuna non sono razionalmente idonei a giustificare l’applicazione della misura.

Non è sufficiente, infatti, nemmeno a fini gravemente indiziari, la mera consapevolezza della disabilità altrui; non si può quindi sostenere, come il Tribunale fa, che “tanto basta”, sopratutto se la consapevolezza della disabilità poggia su basi incerte e contraddittorie visto che gli stessi sanitari che visitarono la ragazza subito dopo il fatto hanno certificato un ritardo mentale lieve, mentre la stessa è affetta da ritardo mentale medio. Ciò dimostra che anche il grado del ritardo – e la conseguente ampiezza dei limiti alla capacità di autodeterminazione – non erano chiari nemmeno a persone scientificamente attrezzate a valutarlo.

Il Tribunale ha inoltre svilito, con affermazioni manifestamente illogiche e contraddittorie, l’importanza dell’accertata pregressa deflorazione della ragazza che costituisce argomento idoneo a provare la sua capacità ad autodeterminarsi sessualmente.

Non diversamente, gli elementi valorizzati nell’ordinanza impugnata per ribadire, sul piano oggettivo, la sussistenza gravemente indiziaria della condotta di sfruttamento, si prestano ad una lettura non univoca e intimamente contraddittoria. L’iniziativa personale dello Z. e la mancanza di un minimo accenno a conversazioni o preliminari affettuosi, indici, secondo il Tribunale, dello sfruttamento della condizione di inferiorità psichica della vittima, riposa su dati di fatto dei quali il Tribunale stesso non dispone (certamente non ricavabili dalla mera osservazione esterna del comportamento dei due protagonisti) e che sono invece contraddetti da specifici elementi di prova dai quali risulta che egli passeggiò con la ragazza prima di chiudersi con lei nel garage e che la lasciò sola per il tempo necessario per andarle a comprare una lattina di Coca Cola dopo il fatto, benchè il luogo del commesso reato fosse non distante dall’abitazione dei nonni ove la stessa si stava recando.

L’iniziativa di avvicinare l’amministratore del condominio per manifestare il proprio dispiacere su quanto accaduto e sollecitarne l’intervento presso la famiglia della ragazza, è stata valorizzata dal Tribunale alla stregua di una confessione, ma tale giudizio non considera il contesto in cui tale iniziativa era stata assunta poichè, date le circostanze (l’indagato aveva già subito due perquisizioni personali e domiciliari con conseguente prelievo di tampone salivale), avrebbe dovuto essere interpretato come uno sfogo da parte di un uomo che aveva comunque avuto un’esperienza sessuale extraconiugale.

2.2. Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’esigenza cautelare special- preventiva di cui all’art. 274 c.p.p., lett. c).

I vizi di valutazione del fatto, deduce, inquinano, per proprietà transitiva, la valutazione delle esigenze cautelari perchè i Giudici del riesame ne deducono la sussistenza unicamente da esso, dalla sua dinamica, dalle modalità esecutive, con totale sovrapposizione della condotta alla fattispecie incriminatrice e contestuale, immotivata esclusione dei comportamenti tenuti prima e, soprattutto, dopo lo specifico episodio che, pur sottoposti al loro esame, avrebbero dovuto far propendere per la sua episodicità. Ci si riferisce, aggiunge, all’incensuratezza, al comportamento collaborativo tenuto nel corso delle indagini, all’assenza di comportamenti analoghi tenuti dal (OMISSIS) (giorno di consumazione del fatto) al (OMISSIS) (giorno di esecuzione della misura). Tali aspetti, pur sottoposti all’attenzione dei giudici del riesame con specifici motivi aggiunti, non sono stati minimamente valutati.

2.3.Con il terzo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), mancanza di motivazione in relazione al giudizio di adeguatezza della misura cautelare custodiale a fronte di specifici elementi pur allegati e risultanti dagli atti idonei a comprovare l’idoneità di una misura meno afflittiva.

La custodia cautelare era stata scelta come unico mezzo in grado di garantire una effettiva distanza tra la persona offesa e l’autore del reato. Sennonchè, rileva il ricorrente, la persona offesa vive in un Comune ((OMISSIS)) diverso da quello di residenza propria ((OMISSIS)), ove il fatto si è consumato.

Il GIP aveva inizialmente ritenuto di identificare il luogo di consumazione del reato con quello di residenza della persona offesa e questo aveva sicuramente condizionato, afferma il ricorrente, la scelta della misura ritenuta più idonea. Benchè l’errore fosse stato emendato dal Tribunale (che ha escluso che tale luogo si identificasse con la residenza della vittima), le conclusioni, in termini di persistente adeguatezza della misura, sono rimaste le stesse perchè i Giudici del riesame hanno evidenziato che il luogo di consumazione del reato è comunque situato nei pressi dell’abitazione dei nonni materni della ragazza.

Così facendo però essi da un lato hanno valutato lo stesso fatto reato (pur con i suoi vizi sostanziali già illustrati) ai fini di sussistenza dell’esigenza cautelare e delle modalità con cui farvi fronte, senza spiegare perchè l’assenza di precedenti e la condotta tenuta dopo il fatto non potessero essere comunque valutati ai fini di una più attenuata forma di tutela delle esigenze cautelari;

dall’altro non hanno indicato i motivo per cui, tenuto conto delle ragioni indicate nell’originaria ordinanza cautelare, gli arresti domiciliari non dovrebbero essere sufficienti allo scopo.

 

Motivi della decisione

 

  1. Il ricorso è fondato.
  2. La vicenda riguarda il rapporto sessuale che il ricorrente aveva avuto il pomeriggio del (OMISSIS) con la D.B. (descritta nella provvisoria rubrica come persona affetta da “disturbo della sfera emozionale” e “ritardo mentale medio”) all’interno del garage di proprietà del primo.

6.1. La consumazione del rapporto non è contestata dal ricorrente che concentra, in via principale, le proprie doglianze su due aspetti sostanziali della vicenda: a) l’effettivo abuso delle incontestate condizioni di inferiorità psichica della ragazza; b) la propria consapevolezza della sussistenza e del grado di tali condizioni.

6.2. L’ordinanza affronta questi temi fornendo risposte che il Collegio reputa per un verso non corrette, per un altro non soddisfacenti.

6.3. Il Tribunale premette, richiamando giurisprudenza di questa Corte, che il consenso al rapporto sessuale di un soggetto affetto da minorazione psichica deve essere escluso quando la malattia abbia comunque impedito a questi di resistere all’altrui prevaricazione e che l’abuso consiste nel doloso sfruttamento della menomazione della vittima e si verifica quando le condizioni di inferiorità siano strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in uno stato di difficoltà, viene ridotta ad un mezzo per l’altrui soddisfacimento personale. Non necessariamente la condotta, prosegue il Tribunale, si deve identificare soltanto nella attività di persuasione esercitata sulla persona offesa per convincerla a prestare il proprio consenso all’atto sessuale, ben potendo consistere anche in ogni forma di sopraffazione posta in essere senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima che, non essendo in grado di opporsi a causa della propria inferiorità, soggiace al volere dell’autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest’ultimo.

6.4. Fatte queste premesse, i giudici del riesame sostengono che nel caso di specie, ferma restando sul piano della sussistenza dell’inferiorità psichica l’irrilevanza del grado del ritardo mentale da cui è affetta la vittima (ritenuto “lieve” dai medici del pronto soccorso ove era stata condotta il (OMISSIS), “medio” dalla commissione sanitaria che aveva certificato due anni prima il ritardo mentale), non può esservi alcun dubbio che la stessa sia stata “ridotta ad un mezzo per l’altrui soddisfacimento sessuale dallo Z. (…) ponendo mente alla dinamica della stessa raccontata dapprima succintamente ai congiunti, mimando l’atto, nell’immediatezza dei fatti, nonchè con maggiori dettagli nell’incidente probatorio del (OMISSIS)”.

6.5. La dinamica, cui fa riferimento il Tribunale, è quella sin da subito raccontata dalla ragazza alla prozia (cui aveva riferito che lo Z. le aveva fatto togliere la maglietta ed il reggiseno, i pantaloni e le mutandine, le aveva fatto dei massaggi e si era seduto su di lei mentre era seduta sulla sedia a gambe divaricate), alla madre (cui aveva riferito anche che l’uomo le aveva mostrato il pene, chiamato dalla ragazza: “il ciccio”, dal quale era uscita dell’acqua, e che le aveva anche baciato il seno) e poi confermata in sede di incidente probatorio allorquando, abbandonate “le reticenze che avevano connotato la precedente audizione protetta del (OMISSIS)” (nel corso della quale negò persino qualsiasi approccio dell’uomo, benchè tale approccio fosse documentato dalla acquisizione effettuata lo stesso giorno, non è chiaro se prima o dopo l’audizione, delle registrazioni effettuate da un impianto di videosorveglianza situato nei pressi), ha riferito che lo Z. l’aveva invitata a entrare nel garage, l’aveva spogliata, le aveva leccato il seno, e quindi, dopo averla presa e messa su un tavolo con le gambe divaricate, l’aveva penetrata “con il ciccio nella cicciotta e dopo è uscito un pò di acqua”.

6.6. Tanto premesso, osserva preliminarmente la Corte che la consapevolezza dello stato di inferiorità psichica non esaurisce le condizioni che la norma prevede per la punibilità della condotta descritta dall’art. 609 bis c.p., comma 2, n. 1, essendo necessario che a tale consapevolezza si accompagni l’abuso della minorata condizione per indurre la persona offesa al compimento di atti sessuali frutto di un consenso viziato.

6.7. La norma, al pari di quella di cui al successivo n. 2, vuole tutelare la piena libertà dell’autodeterminazione all’atto sessuale e della scelta della persona con cui condividerlo, consenso che, quando non coartato od estorto con violenza o minaccia, deve essere scevro da condizionamenti di sorta derivanti da inganno personale o dall’abuso delle particolari condizioni in cui possa trovarsi la persona offesa al momento del fatto.

6.8. L’abuso è strumento per indurre e dunque precede l’atto sessuale, non si può identificare con esso.

6.9. Ne consegue che trarre esclusivamente dalle modalità con cui è stato consumato l’atto sessuale la prova dell’induzione abusiva all’atto stesso sconta il rischio, che la stessa norma vuole evitare, che si possa identificare la condotta di induzione (mediante abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica) con l’atto sessuale che ne è il risultato, con la conseguenza di impoverire l’indagine in ordine alla minorata capacità del partner ad autodeterminarsi all’atto sessuale e di svalutare, in ultima analisi, ogni aspetto che possa concorrere a ricostruire in modo approfondito la dinamica che precede l’azione e a comprendere se davvero abuso v’è stato.

6.10. Si tratta di un terreno di indagine naturalmente scivoloso, irto di ostacoli, un vero e proprio campo minato, difficile da percorrere dal punto di vista investigativo e privo di certezze rassicuranti, che non ammette scorciatoie probatorie, e tuttavia è imposto da una scelta “copernicana” ben precisa del legislatore che, abbandonate le arcaiche presunzioni di incapacità che, secondo l’abrogato art. 519 c.p., comma 1, n. 3), rendevano punibile la condotta di chiunque si fosse congiunto carnalmente (o avesse compiuto atti di libidine) con una persona “malata di mente” o non in grado resistere “a cagione delle proprie condizioni d’inferiorità psichica o fisica”, ha costruito la nuova fattispecie riconoscendo che la libertà all’autodeterminazione sessuale concorre al pieno sviluppo della persona in quanto tale e che anche chi si trova in condizione di inferiorità fisica e psichica è libero di autodeterminarsi sessualmente, eliminando del tutto la presunzione di incapacità ad autodeterminarsi da parte di si trovi in tali condizioni (anche dei precedenti “malati di mente” oggi scomparsi dalla fattispecie), ma pretendendo contestualmente che la condizione di inferiorità debba sussistere al momento del fatto e imponendo a tutti, in adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale di cui all’art. 2, Cost., il riconoscimento e, sopratutto, il rispetto di questa libertà che non può trasformarsi da strumento di valorizzazione della persona in condizione di inferiorità, in tutti i contesti sociali in cui essa si svolge, in strumento di umiliazione e di mero soddisfacimento della libido altrui.

6.11. Si tratta di un accertamento che va condotto caso per caso, tenendo conto del contesto che precede l’azione, delle condizioni (non necessariamente dovute a patologia mentale) in cui si trovi la persona offesa, della percezione che ne abbia l’autore del fatto, dell’abuso, infine, che ne abbia quest’ultimo fatto per indurre l’altra/a all’atto sessuale.

6.12. In questo contesto, l’abuso consiste nello sfruttamento della condizione di inferiorità fisica o psichica (di cui l’agente sia naturalmente consapevole) in cui versi la vittima indotta al compimento di atti sessuali in base ad un consenso ottenuto a cagione proprio della condizione in cui si trova. Occorre dunque che via sia stretta correlazione tra tale condizione, il vizio del consenso che l’esprime e l’induzione che ne è causa.

6.13. Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata, come detto, trae la prova della sussistenza del reato, ancorchè in via gravemente indiziaria, dalla descrizione delle modalità dell’atto sessuale (oggetto di esasperata ed analitica ricostruzione) dalle quali si dovrebbe desume la strumentalizzazione della vittima a fini di personale soddisfacimento delle voglie sessuali dell’agente e la totale assenza di un fisiologico consenso all’atto stesso.

6.14. Gli ulteriori indizi che il Tribunale valorizza per affermare, sia pure a livello cautelare, l’assenza, non solo di un valido consenso all’atto, ma della stessa capacità della D.B. di esprimerlo, oltre che dal reiterato richiamo alla dinamica dell’atto che, per come descritta (“la persona offesa è stata fatta stendere su di un tavolo a gambe divaricate ed utilizzata quale strumento di soddisfacimento delle pulsioni dell’agente”), non appare certamente diversa da un qualsiasi altro rapporto sessuale, sono costituiti dalla natura del disturbo mentale della D.B. (ritardo medio, tiene a precisare l’ordinanza, e non lieve), dalla terminologia usata dalla ragazza per descrivere l’eiaculazione (fuoriuscita di un pò di acqua, frase ritenuta dal Tribunale espressione del suo totale disorientamento), dal frasario assai semplice con cui la stessa si era espressa nel corso delle due audizioni (descritto come tipico di una ragazzina assai più piccola) e dall’incontro con lo Z. che l’ha preceduto, definito dai giudici del riesame sbrigativo, senza effusioni e dunque privo di condivisione.

6.15. Osserva la Corte che la valorizzazione di tali elementi prova l’errata impostazione metodologica seguita dal Tribunale nell’indagine sul fatto, che muove da presupposti non coerenti con gli insegnamenti di questa Corte di cassazione come pure ampiamente riportati nell’impugnata ordinanza.

6.16. Il Tribunale sembra infatti mettere in dubbio la stessa capacità della D.B. ad esprimere un valido consenso all’atto sessuale, come la puntualizzazione del grado del ritardo mentale da cui è affetta la ragazza e il richiamo alla semplicità del linguaggio e alla terminologia utilizzata per descrivere l’eiaculazione sembrano dimostrare (anche se a quest’ultima viene ricondotta la prova dello stato emotivo in cui si trovava).

6.17. Il Tribunale, in realtà, non fa altro che valorizzare manifestazioni tipiche del ritardo mentale da cui è affetta la D. B., finendo di fatto per sovrapporre la patologia con l’assenza del valido consenso, benchè non vi sia evidenza alcuna che il ritardo mentale, sia pure di grado medio, inibisca di per sè un valido consenso all’atto sessuale.

6.18. Così facendo i giudici del riesame hanno completamente svalutato il fatto che la D.B. avesse già avuto in passato rapporti sessuali completi, argomento difensivo liquidato con la considerazione che si sconoscono totalmente le condizioni in cui la pregressa deflorazione, accertata dai medici del pronto soccorso, aveva avuto luogo. In questo modo, però, essi sanciscono, a danno del ricorrente, l’inutilità di un argomento di prova (i pregressi rapporti sessuali della D.B.) che invece è rilevante e avrebbe dovuto essere ulteriormente approfondito. Ma ciò, come detto, è frutto della eccessiva polarizzazione dell’attenzione verso l’atto sessuale in sè, che impedisce al Tribunale di avere una visione più ampia della vicenda e di collocarla in un contesto in cui è certo che la ragazza aveva comunque avuto pregressi rapporti sessuali, circostanza che se di per sè non svaluta la tesi accusatoria, certamente non può essere utilizzata per liquidare il tema difensivo sulla libertà di autodeterminazione della ragazza, sopratutto se la sua negazione si fonda sugli argomenti già indicati e sul fatto che nulla si conosce di tali rapporti (considerazione che, semmai, dovrebbe spingere ad un approfondimento dell’argomento).

6.19. Altro tema difensivo, non valorizzato affatto dal Tribunale del riesame se non negli errati termini sopra indicati, è l’entità del ritardo mentale che i medici del pronto soccorso definiscono “lieve”.

6.20. E’ certamente vero che la valutazione espressa due anni prima dalla commissione medica è più severa (anche se non definitiva);

tuttavia non può non considerarsi che i medici del pronto soccorso visitarono la ragazza subito dopo il fatto e constatarono, appunto, quel che a loro apparve un ritardo mentale lieve.

6.21. Ciò, come detto, non incide sullo stato di inferiorità psichica della D.B., che non è oggettivamente messo in discussione dal ricorrente, ma sulla effettiva latitudine della limitazione della sua capacità di autodeterminarsi e sul conseguente consapevole sfruttamento che ne avrebbe fatto lo Z.; sono due facce della medesima medaglia.

6.22. L’argomento difensivo, perciò, avrebbe dovuto essere valutato anche e sopratutto sotto questo ulteriore profilo, tanto più che la certificazione medica rilasciata a fini scolastici il (OMISSIS) dalla competente commissione della ASL aveva una durata triennale e non si comprende dove poggi l’apodittica affermazione del Tribunale secondo il quale la malattia si era stabilizzata.

6.23. Il primo motivo di ricorso è dunque fondato e merita accoglimento. Restano assorbiti gli altri due.

6.24. Ne consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Padova che in sede di nuovo esame dovrà attenersi al seguente principio di diritto: “In tema di atti sessuali commessi con persona in stato di inferiorità fisica o psichica, perchè sussista il reato di cui all’art. 609 c.p., comma 2, n. 1, è necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso all’atto sia viziato dalla condizione di inferiorità; 3) il vizio sia accertato caso per caso e non può essere presunto, nè desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona quando non sia di per sè tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento se necessario fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell’induzione; 5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedono”.

 

P.Q.M.

 

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Padova.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2015

 

 

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Elisa Asprone
Elisa Asprone, nata a Napoli il 22/09/1986 Laurea in Giurisprudenza conseguita a 24 anni presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II", con votazione 110/110, con una tesi in diritto commerciale dal titolo "Violazione dell'obbligo di OPA e risarcimento del danno". Pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato. Diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Master di I livello in diritto dell'Unione europea, conseguito presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e breve esperienza formativa presso la Corte di Giustizia a Lussemburgo. Conseguimento titolo di Avvocato il 10/09/2013. Relatrice di convegni formativi presso l'ordine degli avvocati di Nola inerenti al diritto dell'immigrazione. Magistrato ordinario presso il tribunale di Napoli .