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Diritto Penale. Caso Ruby/Berlusconi: nel giudizio di legittimità la Corte non assolve né condanna l'imputato, ma è la decisione impugnata ad essere "imputata".

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. Caso Ruby/Berlusconi: nel giudizio di legittimità la Corte non assolve né condanna l’imputato, ma è la decisione impugnata ad essere “imputata”.

La sentenza n. 22526, depositata il 28 maggio 2015 dalla VI Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, in relazione al noto Caso Ruby/Berlusconi, si segnala più che per i profili relativi alle fattispecie di concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità venute in rilievo -avendo rispetto ad esse I giudici deciso in maniera conforme ai principi di diritto sanciti dalle Sez. Un. n. 12228/13- quanto per l’avvertita esigenza di riaffermare i “basilari principi che presiedono lo svolgimento del giudizio di legittimità” e la valutazione della c.d doppia difforme.

Sottolinea infatti la Suprema Corte che, se il primo dovere del giudice è quello di rendere giustificazione della decisione assunta, pur trattandosi di principi noti e scontati, alcune puntualizzazioni sono indispensabili per evitare erronee, se non distorte, valutazioni della pronuncia.

L’esito positivo di tale verifica ha come epilogo la dichiarazione di infondatezza del ricorso proposto dal PG territoriale e conseguentemente il suo rigetto; quindi, la conferma della sentenza di secondo grado.

È affermazione corrente tra gli operatori del diritto, si legge nella sentenza, che nel giudizio di cassazione è la decisione ad essere “imputata”. Tale icastica definizione risulta del tutto appropriata, poiché <<è la pronuncia impugnata ad essere oggetto di diretta verifica da parte del giudice di legittimità>>. La Corte di Cassazione, difatti, <<è giudice della sentenza e non del processo, ed ha il compito di controllare la corretta interpretazione della legge e la logicità dell’iter argomentativo poste a base del giudizio espresso in sede di merito: il sindacato di legittimità rimane circoscritto alla sentenza e al percorso giustificativo su cui essa riposa, il che impedisce – di norma – l’accesso agli atti processuali, a meno che il motivo di ricorso dedotto, per la sua specificità e decisività, non denunci un travisamento della prova>>.

La Suprema Corte “non condanna nè assolve l’imputato”, “a farlo è il giudice di merito in grado di appello o in primo grado”, a seconda delle modalità di presentazione del ricorso.

Compito precipuo della Corte di Cassazione – continuano i giudici di legittimità – è pertanto soltanto quello di controllare l’osservanza e la corretta applicazione della legge penale, delle norme giuridiche extrapenali integratici e di quelle processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza e di verificare la presenza, la non contraddittorietà e la “tenuta logica” della motivazione, eventualmente anche sotto il profilo della mancata assunzione della prova.

L’intervento della Corte di Cassazione, in conclusione, non può che essere relazionato alla natura e alla qualità dell’atto di ricorso e alla sentenza cui esso si riferisce, per rappresentarne la patologia sia sul piano formale (errores in procedendo) che su quello sostanziale (errores in iudicando).

Orbene, per i casi in cui le decisioni intervenute nei due gradi di giudizio di merito siano tra loro divergenti, come nel caso in esame, la giurisprudenza ha elaborato particolari regole del giudizio, imponendo precisi accorgimenti.

Nell’ipotesi di assoluzione in primo grado e condanna in secondo grado, ai giudici del secondo grado, è imposto un obbligo di motivazione c.d. rafforzata per giustificare il differente apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, sulla base di elementi di prova diversi o diversamente valutati, a confutazione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie del primo giudizio. Ciò anche in considerazione del fatto che l’imputato – che, poiché assolto, non ha presentato appello – non ha più la possibilità di confutare il nuovo apprezzamento di merito, se non nel limitato ambito dell’impugnazione della motivazione ai sensi dell’art. 606, comma1, lettera e), c.p.p..

Nell’ipotesi di condanna in primo grado e assoluzione in secondo grado, di converso, ai giudici di secondo grado – come ribadito dalla Corte – è imposto di riesaminare, in maniera sintetica ma incisiva, l’intero materiale probatorio vagliato dal primo giudice, quello sfuggito alla valutazione del medesimo e quello ulteriore eventualmente acquisito, per dare, riguardo alle parti non condivise della prima sentenza, una differente struttura della motivazione che dia ragione delle difformi conclusioni assunte.

Dal canto suo, la Suprema Corte di Cassazione, in presenza della c.d. “doppia difforme”, per comprendere pienamente le ragioni della difformità, deve analizzare due sentenze e stabilire se quella impugnata resiste o meno alle censure sollevate in sede di ricorso.

A tal fine, s’impone alla Corte una duplice verifica: in primis, l’analisi della sentenza di primo grado per individuare l’eventuale errore di diritto e/o l’errore logico e/o eventualmente informativo, e, successivamente, l’analisi della sentenza d’appello, al fine di accertare se sia stata fatta corretta applicazione della legge e se sia stato esaminato e valutato, senza evidenti incrinature logiche, tutto il compendio probatorio disponibile a supporto della diversa conclusione raggiunta.

Tanto premesso, i giudici di legittimità sulla nota vicenda che ha coinvolto l’ex Premier italiano, accusato di concussione per aver indebitamente fatto pressioni su un funzionario di polizia, affinché una minore (falsamente indicata come la nipote di un noto politico egiziano) fosse affidata al consigliere regionale Nicole Minetti, nel respingere la tesi della Pubblica Accusa che aveva fatto ricorso per cassazione contro la sentenza assolutoria, hanno chiarito i presupposti di sussistenza del delitto di concussione e ne hanno tracciato il discrimen rispetto alla fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità.

Conformemente al decisum delle Sezioni Unite del 24.10.2013, n. 12228 (Pres. Santacroce, Rel. Milo, ric. Maldera), nella sentenza si legge che la concussione non è un <<reato di posizione>>: non è la mera posizione sovraordinata e di supremazia, sempre connaturata alla qualifica di pubblico ufficiale in ragione della qualità rivestita o della funzione svolta, a integrare il delitto de quo, soltanto perché la controparte, per motivazioni a se’ interne, venga comunque ad avvertire uno stato di soggezione; ciò perché, ai fini dell’integrazione di tale illecito, è necessario che <<la condotta abusiva del pubblico ufficiale divenga positivamente concreta, nel senso che la vittima deve essere posta nella condizione di percepirne l’effettiva portata intimidatoria e costrittiva, idonea a ingenerare in lei il timore di un danno contra ius, in caso di mancata adesione alla richiesta d’indebito che gli viene rivolta>>. A tal fine, occorre dimostrare che il pubblico ufficiale ha abusato della sua qualità o dei suoi poteri, esteriorizzando concretamente un atteggiamento idoneo a intimidire la vittima, tanto da incidere negativamente sulla sua integrità psichica e sulla sua libertà di autodeterminazione.

La Corte respinge altresì il tentativo della Pubblica Accusa di ricondurre la condotta dell’imputato nell’alveo della fattispecie prevista e punita ex art. 319-quater c.p., rilevando che, in seguito all’entrata in vigore della l. 190/12, è stato chiarito il concetto base di abuso induttivo nel senso che <<la condotta di induzione dell’agente pubblico, seppur a forma libera, deve essere sempre orientata con efficienza causale a convincere l’interlocutore alla dazione o alla promessa dell’indebito>> . Nella fattispecie criminosa in esame, in particolare, l’extraneus, pure di fronte ad un’ampia libertà decisionale, finisce col cedere alla richiesta dell’intraneus, non perchè coartato o vittima del metus nella sua espressione più forte, ma perchè si lascia convincere nella prospettiva di realizzare un indebito vantaggio per se’, inserendosi così in una dinamica intersoggettiva, sia pure asimmetrica, di carattere negoziale. <<Il vantaggio indebito, pertanto, assurge a rango di criterio d’essenza della fattispecie ex art. 319-quater c.p.>>.

Un ultimo passaggio rilevante dell’iter motivazionale tracciato dai giudici di legittimità, attiene alla qualifica soggettiva del destinatario dell’abuso costrittivo e di quello induttivo. Se il legislatore nell’indicare il destinatario delle condotte di cui agli artt. 317 e 319-quater c.p. utilizza il termine <<taluno>>, ciò significa che la qualifica soggettiva è di regola indifferente ai fini della configurazione di tali fattispecie o, detto altrimenti, che tra le possibili vittime della concussione e tra i correi dell’induzione possono annoverarsi, oltre ai privati, anche soggetti che rivestono la qualifica di pubblici ufficiali.

Anzi, a ben vedere, tale situazione incide in maniera rilevante sulle modalità con cui le condotte, costrittiva e induttiva, devono atteggiarsi: se, come nel caso attenzionato dalla Corte, destinatario della pressione abusiva è un altro pubblico ufficiale, non può essere sottovalutato il particolare obbligo di resistenza da questi esigibile, sicché l’effetto coartante o induttivo sul soggetto rivestito della qualifica pubblicistica deve essere apprezzato con particolare prudenza, avendo riguardo anche e soprattutto alle ipotesi in cui lo stesso è tenuto a disattendere un ordine, pur se proveniente da un’autorità sovraordinata.

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