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Diritto Penale. Diffusione di materiale pedopornografico: non basta l'uso di programmi di file-sharing.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. Diffusione di materiale pedopornografico: non basta l’uso di programmi di file-sharing.

Con la sentenza che si annota, la terza sezione della Corte di Cassazione è tornata sul tema dell’elemento soggettivo del reato di cui al 3° co. dell’art. 600 ter c.p. che punisce chiunque, non essendo autore del delitto di sfruttamento di minori a fini pornografici, nè di quello di commercio di materiale pornografico, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma con qualsiasi mezzo, anche telematico.

Questo il principio di diritto affermato, peraltro confermando un orientamento già seguito in altre pronunce: “l’elemento soggettivo del reato di divulgazione o diffusione di materiale pedopornografico presuppone che sia provato che il soggetto abbia avuto non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici ed ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing“.

Ne deriva che non può configurarsi il reato di diffusione di materiale pedopornografico esclusivamente in considerazione del tipo di software utilizzato, ma un tale percorso argomentativo deve essere completato dandosi conto dei necessari accertamenti tesi a verificare se la condotta e volontà dell’imputato siano di semplice approvvigionamento o piuttosto quelle di diffondere o divulgare a terzi il materiale pedopornografico che in precedenza il soggetto, con autonomo comportamento, si sia procurato o abbia creato.

Il giudizio origina dal ricorso proposto da R.G. avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva confermato la sua colpevolezza in ordine al reato di diffusione continuata di materiale pedopornografico aggravato dall’ingente quantità, motivando la sua decisione in considerazione dei meccanismi di funzionamento del programma Emule e del fatto che le immagini scaricate erano state lasciate nelle cartelle Emule/incoming destinate alla condivisione.

La Corte di Cassazione, annullando la sentenza impugnata, nel suo percorso motivazionale si sofferma sulla delicatezza della questione interpretativa che si pone nei singoli casi concreti, sostenendo la necessità che il sistema dovrebbe essere razionalmente ricostruito giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi del genere da parte della massa degli utenti e che, nello stesso tempo, si orientino nel senso di una capillare repressione di qualunque attività di diffusione di materiale pornografico che abbia per protagonisti minorenni; in questa ottica, indagini adeguate dovrebbero consentire non solo di soddisfare la manifestate esigenze, ma altresì quella di evitare di coinvolgere soggetti che possono essere in piena buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale illecito, soltanto perchè stanno utilizzando questi (e non altri) programmi di condivisione.

Una diversa interpretazione – concludono i giudici di legittimità – secondo cui la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo Emule o simili, implicherebbe, di per se stessa e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente anche la volontà di diffonderlo (solo in considerazione delle modalità di funzionamento del programma e del fatto che questo permette l’upload anche senza alcun intervento di un soggetto che concretamente metta il file in condivisione), porterebbe a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi.

Cass. pen. Sez. III, Sent., 15-07-2015, n. 30465 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere –

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.G. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 1346/2010 CORTE APPELLO di MILANO, del 10/11/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/05/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Alberto Cardino, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore Avv. Bonotto Marceello (sost. process.).

Svolgimento del processo

  1. Con sentenza 10.11.2014 la Corte d’Appello di Milano ha confermato la colpevolezza di R.G. in ordine al reato di diffusione continuata di materiale pedopornografico aggravato dall’ingente quantità di cui all’art. 81 c.p., comma 2, e art. 600 ter c.p., commi 3 e 5v, motivando la sua decisione in considerazione dei meccanismi di funzionamento del programma Emule e del fatto che le immagini scaricate erano state lasciate nelle cartelle Emule/incoming destinate alla condivisione. Secondo la Corte d’Appello l’imputato era ben consapevole che il materiale scaricato entrava in condivisione con altri e per questo ha escluso la diversa ipotesi della detenzione. La Corte ha poi disatteso le ragioni addotte dall’imputato a giustificazione della sua condotta e, quanto al trattamento sanzionatorio, ha negato la prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante contestata.
  2. Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato denunziando quattro motivi.

2.1. Col primo motivo, denunziando ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione di legge sull’elemento materiale del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 3, e il vizio di motivazione sull’individuazione dei criteri di diffusione e divulgazione nonchè la carenza di motivazione sull’elemento materiale del reato, il ricorrente rileva che nel caso di specie al più vi sarebbero gli elementi della fattispecie di cui all’art. 600 quater, peraltro inizialmente contestata insieme a quella di cui oggi si discute (distribuzione e divulgazione) mancando del tutto la prova della destinazione del materiale alla divulgazione.

2.2. Con un secondo motivo denunzia ai sensi degli artt. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l’erronea valutazione dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 3. Dopo aver premesso una sintetica descrizione delle funzionalità del programma Emule, il ricorrente critica la Corte d’Appello laddove ha ravvisato la volontà di condivisione dalla presenza dei file scaricati nella cartella Emule/incoming, trattandosi di una cartella di default, deputata a collettore dei file scaricati dalla rete, e tale affermazione si giustifica ancor di più se si considera che l’imputato era un utente inesperto. Richiama la giurisprudenza di legittimità intervenuta sull’argomento e rileva, a riprova dell’assenza di volontà di divulgazione, l’esistenza sul suo computer, di un programma per l’eliminazione dei file, del tutto incompatibile con l’attività di divulgazione.

2.3 Col terzo motivo denunzia il vizio di motivazione sul riconoscimento dell’aggravante dell’ingente quantità del materiale rilevando che solo parte dei file sequestrati aveva contenuto pornografico.

2.4 Col quarto ed ultimo motivo, infine, lamenta violazione di legge (art. 63 c.p.) e vizio di motivazione dolendosi dell’omessa applicazione del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante dell’ingente quantità.

Motivi della decisione

La seconda censura è fondata.

Il tema dell’elemento soggettivo del reato di divulgazione o diffusione di materiale pedopornografico non è nuovo.

Come già evidenziato da una serie di pronunce di questa Corte, affinchè sussista il dolo del reato di cui all’art. 603 ter c.p., comma 3, occorre provare che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing (cfr. tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 47820 del 29/10/2013 Ud. dep. 2/12/2013; Sez. 3, Sentenza n. 11082 del 12/01/2010 Ud. dep. 23/03/2010 Rv. 246596; Sez. 3, Sentenza n. 33157 del 11/12/2012 Ud. dep. 31/07/2013 Rv. 257257;

Sez. 3, Sentenza n. 11082 del 12/01/2010 Ud. dep. 23/03/2010 Rv.

246596).

Infatti, l’art. 600 ter c.p., comma 3, punisce, tra l’altro, chiunque “con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza” il materiale pedopornografico. Si tratta, nei singoli casi concreti, di questione interpretativa abbastanza delicata, perchè il sistema dovrebbe essere razionalmente ricostruito giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi del genere da parte della massa degli utenti e che, nello stesso tempo, soddisfino l’esigenza di contrastare efficacemente una assai grave e pericolosa attività illecita, quale la diffusione di materiale pornografico minorile, cercando però di evitare di coinvolgere soggetti che possono essere in piena buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale illecito soltanto perchè stanno utilizzando questi (e non altri) programmi di condivisione, e cercando altresì di evitare che si determini di fatto la scomparsa di programmi del genere. Del resto, le due suddette esigenze ben possono essere entrambe soddisfatte perchè, con indagini adeguate, è possibile accertare chi stia davvero agendo col dolo di diffondere e non solo con quello di acquisire e con la consapevolezza del vero contenuto dei file detenuti.

Una diversa interpretazione, secondo cui la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo Emule o simili, implicherebbe, di per se stessa e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente anche la volontà di diffonderlo (solo in considerazione delle modalità di funzionamento del programma e del fatto che questo permette l’upload anche senza alcun intervento di un soggetto che concretamente metta il file in condivisione), porterebbe a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi (cfr. Sez. 3, 12 gennaio 2010, n. 11082; Sez. 3, 7 novembre 2008, n. 11169).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto provata la sussistenza del reato di diffusione di materiale pedopornografico esclusivamente in considerazione del tipo di software utilizzato, ma un tale percorso argomentativo, che appare fondato esclusivamente sul dato quantitativo dei file scaricati e sull’utilizzo dello specifico programma di file sharing denominato Emule non appare corretto nè esauriente, perchè avrebbe dovuto essere completato dandosi conto dei necessari accertamenti tesi a verificare se la condotta e volontà dell’imputato fossero di semplice approvvigionamento o piuttosto quelle di diffondere o divulgare a terzi il materiale pedopornografico che in precedenza il soggetto, con autonomo comportamento, si era procurato o aveva creato (ad esempio, non limitandosi a lasciarli nella cartella iniziale di arrivo (“incoming”), ma selezionando i file scaricati e copiandoli in apposita cartella di condivisione personalizzata: cfr. Sez. F, Sentenza n. 46305 del 07/08/2014 Ud. dep. 10/11/2014 Rv. 261045).

La sentenza deve pertanto essere annullata per nuovo giudizio nel quale il giudice del rinvio, tenuto conto dei suddetti principi, completerà l’accertamento del fatto traendone le debite conclusioni.

Le esposte considerazioni assorbono logicamente l’esame delle altre censure.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2015