DIRITTO CIVILE. Se la cd. clausola claims made si limita a definire l’oggetto della copertura assicurativa non può applicarsi l’art. 1341, II comma, c.c.
La sentenza che ci si appresta ad annotare rappresenta – nell’attesa che le Sezioni Unite si pronunzino sul punto- la sede elettiva per affrontare la tematica, tanto discussa, della natura giuridica della cd. clausola claims made.
Tale clausola, che letteralmente significa a “richiesta fatta”, è di origine anglosassone e, a partire dagli anni ’90, ha trovato un’ampia diffusione nel mercato assicurativo, specie per quel che concerne la responsabilità civile dei professionisti (quali, ad esempio, medici e avvocati). Invero, la pronuncia in questione trae origine proprio da un caso di mala sanità per il quale la struttura ospedaliera, convenuta in giudizio dalla paziente danneggiata, chiede di chiamare in causa la propria compagnia assicurativa al fine di manlevarla dalle conseguenze dell’invocata responsabilità. Ospedale ed assicurazione avevano stipulato, giustappunto, una polizza assicurativa “a richiesta fatta”.
La clausola claims made deroga all’art. 1917, I comma, c.c. nella parte in cui stabilisce che l’obbligazione dell’assicuratore -consistente nel tenere indenne l’assicurato- sorge nell’ipotesi in cui la relativa richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato intervenga durante il periodo di copertura assicurativa anche per fatti che si siano verificati prima di questo momento. La garanzia assicurativa è, dunque, collegata non al fatto dell’illecito bensì alla successiva ed eventuale richiesta risarcitoria.
Ne consegue che la querelle sorta in materia è tutta incentrata sulla validità di suddetta clausola nonché sulla sua natura giuridica e sulla eventuale vessatorietà. Dottrina e giurisprudenza sono divise e non v’è unanimità sul punto. Alcuni ritengono tale clausola nulla (per contrasto con l’art. 1917, I comma, c.c. ovvero con l’art. 1895 c.c.); altri la ritengono perfettamente valida in quanto individuano il fatto accaduto di cui all’art. 1917 c.c. nella richiesta di risarcimento. Si dibatte, altresì, sul se essa sia una clausola limitativa della responsabilità ex art. 1341, II comma, c.c. o se, invece, sia una clausola delimitativa dell’oggetto contrattuale.
Una soluzione intermedia tra i due orientamenti testè citati è quella accolta dalla Corte di Cassazione. Secondo i Giudici di P.zza Cavour, sebbene l’art. 1917 c.c. si riferisca indubbiamente alla condotta illecita e non alla richiesta risarcitoria, ciò non conduce a ritenere per via di un automatismo la nullità di siffatta clausola. Invero, il primo comma dell’art. 1917 c.c. non è norma inderogabile -come erroneamente ritenuto- pertanto nulla vieta ai paciscienti nell’ambito dell’autonomia contrattuale loro riconosciuta di prevedere un diverso modello di garanzia. Ne discende che, non potendosi parlare aprioristicamente di contrarietà all’ordinamento, l’Interprete dovrà valutare, caso per caso, il significato della clausola nell’ambito della complessiva economia della polizza.
Ne consegue che, qualora il contratto assicurativo riconducibile all’articolo 1341 (o all’articolo 1342 c.c.) preveda la claims made nella parte del contratto, avente o meno la veste grafica di clausola, deputata in via esclusiva alla definizione dell’oggetto della copertura assicurativa, si deve ritenere che la limitazione di responsabilità sfugga all’articolo 1341 c.c., comma 2.
Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza 10-11-2015, n. 22891
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
p.1. (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione contro l’Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico – Azienda ospedaliera di rilievo nazionale e la (OMISSIS) s.p.a. avverso la sentenza del 21 febbraio 2011, con la quale la Corte d’Appello di Milano, provvedendo sugli appelli, separatamente proposti da essa ricorrente e dalla (OMISSIS) contro la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Milano nel maggio del 2006, l’ha parzialmente riformata, accogliendo parzialmente l’appello principale e rigettando quello incidentale.
p.2. La relativa controversia era stata introdotta nel 2004 dalla (OMISSIS) contro l’Ospedale per sentir dichiarare la sua responsabilità per i danni sofferti a causa di un’infezione da spondilodiscite contratta in occasione di due consecutivi interventi chirurgici eseguiti presso la struttura ospedaliera ed il convenuto, nel costituirsi in giudizio aveva chiesto ed ottenuto di chiamare in causa in garanzia la (OMISSIS) quale propria assicuratrice, per essere manlevata dalle conseguenze dell’invocata responsabilità.
p.3. Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda risarcitoria nei confronti della struttura ospedaliera, liquidando il danno in euro 28.002,00 e condannava la società assicuratrice alla manleva.
L’appello della (OMISSIS) investiva sotto vari profili la sentenza di primo grado riguardo alla liquidazione del danno, mentre quello della (OMISSIS) contestava l’erroneo riconoscimento dell’operatività della copertura assicurativa e la quantificazione del danno.
p.4. Al ricorso della (OMISSIS) ha resistito con controricorso l’Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico.
p.5. Avverso la sentenza della Corte territoriale ha proposto separato ricorso principale la (OMISSIS) contro la (OMISSIS) e contro l’Ospedale.
A tale ricorso ha resistito l’Ospedale con controricorso.
p.6. L’Ospedale e la (OMISSIS) hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
p.1. Il ricorso della (OMISSIS) pur essendo stato proposto separatamente assume carattere oggettivamente incidentale rispetto a quello della (OMISSIS) e deve essere trattato congiuntamente ad esso.
Ancorché introdotto separatamente e non con controricorso come avrebbe dovuto essere, atteso che risulta notificato successivamente alla ricezione da parte della (OMISSIS) della notificazione del ricorso principale della (OMISSIS), il suddetto ricorso separato risulta comunque notificato nel termine che la medesima avrebbe dovuto osservare per la notifica di un controricorso. Ne deriva che l’inosservanza della forma prescritta di esercizio del diritto di impugnazione, che era quella incidentale, non ha determinato alcuna incidenza sul raggiungimento dello scopo del relativo atto in punto di osservanza del termine in cui avrebbe dovuto essere compiuto con la forma corretta.
p.2. In via preliminare va considerato che, come riconosce nella sua stessa memoria, la notificazione del controricorso dell’Ospedale non risulta perfezionata. Tuttavia, l’Ospedale ha evidenziato nella memoria che il mancato perfezionamento per la destinataria ricorrente principale è dipeso da fatto ad essa imputabile, atteso che la notificazione è stata indirizzata e tentata (tempestivamente dal punto di vista del notificante) all’Avvocato Renato Lioi, indicato nel ricorso ed anche nella procura dalla (OMISSIS) come domiciliatario, ma all’indirizzo indicato la notifica non si è perfezionata in quanto ivi risultava ubicato lo studio dell’Avvocato (OMISSIS) e sconosciuto l’Avvocato (OMISSIS).
Poichè l’impossibilità di perfezionamento della notificazione è derivata dall’indicazione da parte della stessa (OMISSIS) di un indirizzo non riferibile all’Avvocato indicato come domiciliatario, la (OMISSIS) risulta aver causato detta impossibilità e, pertanto, ai sensi dell’articolo 157 c.p.c., comma 3, non se ne può dolere, tenuto conto che l’Ospedale ha provveduto a depositare tempestivamente il controricorso, una volta conosciuto l’esito infruttuoso del tentativo di notificazione.
p.3. Con il primo motivo di ricorso principale la (OMISSIS) si duole del “mancato riconoscimento del danno patrimoniale da diminuzione della capacità lavorativa specifica – violazione dell’articolo 1223, 1226, 2727 e 2729 c.c., in relazione all’articolo 360, comma 1, nn. 3 e 5, per contraddittoria motivazione in ordine alla medesima voce di danno”.
Vi si censura la sentenza d’appello impugnata là dove ha negato il riconoscimento del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica escludendo che la relativa liquidazione si potesse fare alla stregua del criterio del riferimento al triplo della pensione sociale, in quanto si tratterebbe di criterio residuale e assumendo inoltre che non era stata fornita la relativa prova.
Si sostiene che la liquidazione avrebbe potuto farsi attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che sarebbe consentito “allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio” e si invocano i principi di diritto affermati da Cass. n. 1690 del 2008 e n. 21497 del 2005, sostenendo che l’applicazione del criterio presuntivo sarebbe stata giustificata in quanto è stata riconosciuto un’invalidità permanente del 33% e la stessa c.t.u. aveva concluso, dopo aver esaminato “anche la certificazione di idoneità fisica alla mansione specifica rilasciata dalla ASL su richiesta del datore di lavoro, per la sussistenza di un danno alla capacità lavorativa specifica pari al 15%”. Si adduce, poi, che la (OMISSIS) dovrebbe provvedere ad effettuare circa cinque autocateterismi al giorno, con perdita di urine durante lo sforzo ed avrebbe, inoltre, un’autonomia nel trattenere le mine di due o tre ore per notte con conseguente disturbo del sonno, soffrendo altresì continue infezioni per il ristagno di urine.
Il mancato riconoscimento del “danno patrimoniale” avrebbe determinato una violazione dell’articolo 1223, essendo esso una conseguenza immediata e diretta del fatto dannoso, nonché dell’articolo 1226 c.c., dato che sarebbe stata possibile una liquidazione equitativa in mancanza della possibilità di provarne il preciso ammontare e ciò ai sensi degli articoli 2727 e 2729 c.c., poiché sarebbe stato evidente che la menomazione subita “anche in relazione alla giovane età della ricorrente, non potrà che avere gravi ripercussioni sulla vita lavorativa” della ricorrente. Vengono, poi, citati i principi di diritto di ci a Cass. n. 16896 del 2010 e n. 6658 del 2009.
p.3.1. Il motivo non può trovare accoglimento.
La sua articolazione si presenta del tutto carente quanto all’indicazione della deduzione nel processo di merito degli elementi che avrebbero dovuto indurre la Corte territoriale a liquidare il danno in via presuntiva. Essa si concreta nella evocazione dei principi di diritto di cui alle sentenze richiamate, ma si astiene dall’indicare qual era la situazione delle allegazioni prospettate nel giudizio di merito idonea a sottoporre alla Corte territoriale gli elementi sulla base dei quali avrebbe dovuto procedere a desumere per presunzione la verificazione del danno, sicché manca del tutto l’attività assertiva evidenziatrice del fatto che sussistevano in atti, per essere stati allegati e dimostrati, gli elementi idonei a fondare il ragionamento presuntivo che si imputa alla Corte territoriale di non avere svolto e che l’avrebbe portata alle denunciate violazioni di norme di diritto.
Nella illustrazione si fa, poi, è vero, riferimento e, quindi, si fonda il motivo sulla c.t.u. e su una certificazione di idoneità dell’ASL, ma ci si astiene dal riprodurre direttamente o indirettamente (indicando la parte cui l’indiretta riproduzione corrisponderebbe) il contenuto di detti atti per la parte che evidenzierebbe quanto allegato ed inoltre si omette di indicare, quanto al secondo atto, se e dove esso sarebbe esaminabile, in quanto prodotto, in questo giudizio di legittimità: in tal modo risulta violato l’articolo 366 c.p.c., n. 6, relativo all’onere di indicazione specifica degli atti su cui si fonda il ricorso per cassazione e la Corte non è messa in grado di conoscere gli atti la cui considerazione il motivo sollecita.
In fine, nell’illustrazione si allude ad una circostanza, quella dell’effettuazione di cinque auto cateterismi, della quale non si precisa se e dove essa risultasse nel giudizio di merito: pertanto, non è dato sapere se tale circostanza fosse stata palesata e come alla Corte territoriale e, dunque, se Essa dovesse terne conto.
Tutto il motivo si caratterizza per un’assoluta carenza di individuazione sia del modo in cui la richiesta di riconoscimento del danno di cui trattasi era stata prospettata alla Corte territoriale, sia di precisazioni sulle ragioni che avevano indotto il c.t.u. a ritenere un danno alla capacità lavorativa specifica pari al 15%. e fra esse di quelle correlabili al contenuto della certificazione dell’ASL.
Si rileva, d’altro canto, che, peraltro, se fosse superabile la valutazione di inammissibilità del motivo per la parte che si fonda sul contenuto del c.t.u. in quanto non lo si riprodotto né direttamente né indirettamente, come s’è già detto, e fosse possibile – in ipotesi denegata – sopperire a tale lacuna tramite la sentenza impugnata (il che non è consentito dall’essere il requisito dell’articolo 366, n. 6, previsto a pena di inammissibilità collegata al ricorso e dunque al suo contenuto), si dovrebbe rilevare che, sebbene la stessa sentenza impugnata dia atto che il c.t.u. aveva individuato una perdita della capacità lavorativa specifica stimandola nel 15% (pag. 11), tuttavia, nel passo riportato tale individuazione appare effettuata dal c.t.u. con il rilievo che una valutazione che egli giustifica come equa sulla base del contenuto della certificazione dell’ASL, che resta ignoto.
Ne segue che, sebbene la sentenza impugnata, nel motivare che “nessuna prova viene fornita circa il danno alla capacità lavorativa specifica”, omettendo di considerare l’affermazione della c.t.u. pur riportata alla pagina predente, resta impossibile valutare se tale omissione sia stata decisiva, perché – restando ignoto il contenuto della certificazione dell’ASL – non è dato sapere su che cosa si fosse appoggiata la valutazione del c.t.u. e dunque se meritasse una considerazione specifica da parte della Corte milanese.
Era onere della ricorrente argomentare la decisività dell’omissione di considerazione.
Il motivo è, pertanto, rigettato.
p.4. Con un secondo motivo si prospetta “mancato riconoscimento del danno patrimoniale – mancata prova – motivazione omessa e contraddittoria in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.
Vi si sostiene che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe palesemente contraddittoria perché, pur avendo dato atto che la c.t.u. aveva riconosciuto un danno alla capacità lavorativa specifica pari al 15%, avrebbe rifiutato di applicare ai fini della liquidazione sia il criterio indicato dalla ricorrente cioè quello del 15% del triplo della pensione sociale, sia di individuarne altro equitativo e lo avrebbe fatto apoditticamente, perché non avrebbe tenuto conto “di una serie di elementi, quale la giovane età della signora (OMISSIS) ed i postumi residuati che inevitabilmente condizionano e condizioneranno la vita lavorativa della ricorrente”.
Si adduce, poi, che “nelle more” la (OMISSIS), a causa di un peggioramento dello stato di salute avrebbe perduto il proprio lavoro part time che svolgeva come cassiera presso un negozio della grande distribuzione.
In fine si prospetta che, essendo stata accertata una lesione maggiore di una c.d. micropermanente si sarebbe dovuta presumere per ciò solo la lesione della futura capacità di guadagno.
p.4.1. Il motivo, quanto alla denuncia della contraddittorietà della motivazione con riferimento alla mancata considerazione delle risultanze della c.t.u. nuovamente impinge nell’inosservanza del requisito di cui all’articolo 366 c.p.c., n. 6, non diversamente da quanto si è detto a proposito del motivo precedente.
Ove, poi, sempre per assurdo, fosse sperabile il rilievo di inammissibilità procedendo alla lettura della sentenza, resterebbe ferma la mancata dimostrazione della decisività della mancata considerazione dell’affermazione del c.t.u. pur riportata dalla sentenza impugnata, siccome s’è già detto a proposito del precedente motivo.
Per quanto concerne la mancata considerazione di una serie di elementi, quale la giovane età della signora (OMISSIS) ed i postumi residuati che inevitabilmente condizionano e condizioneranno la vita lavorativa della ricorrente si tratta di prospettazione non solo del tutto generica, ma che omette qualsiasi indicazione del se e dove essi erano stati palesati alla Corte territoriale, sì da poter incrinare la motivazione con cui essa – sebbene lapidariamente – ha rilevato “che nessuna prova viene fornita circa il danno alla capacità lavorativa”.
La deduzione del fatto sopravvenuto della perdita del lavoro di cassiera, pur trattandosi di fatto che, in ipotesi, non avrebbe potuto introdursi nel giudizio di merito e rispetto al quale non varrebbe la censura di novità prospettata dall’Ospedale, non solo non viene dimostrata tramite opportuna documentazione (che non avrebbe sofferto la preclusione dell’articolo 372 c.p.c.), ma nella descritta cornice complessiva della carente struttura del motivo risulta anche del tutto priva di decisività, tenuto conto, tra l’altro, dell’assoluta insussistenza anche di allegazione dell’origine del peggioramento dello stato di salute.
In fine l’ultima deduzione, evocativa della giurisprudenza di questa Corte che, in presenza di lesioni eccedenti quelle c.d. micropermanenti è incline a riconoscere in via tendenziale una situazione che rende configurabile una perdita della capacità lavorativa specifica del danneggiato, da liquidarsi in via equitativa e secondo presunzioni, è del tutto generica e sconta sempre la circostanza che nella specie il motivo, come del resto quello precedente, presenta le segnalate carenze argomentative sulla decisività, per cui non è dimostrato che la Corte territoriale si sia rifiutata di riconoscere un danno che aveva gli elementi per liquidare equitativamente.
Il motivo è rigettato.
p.5. Consegue, dunque, il rigetto del ricorso principale.
p.6. Con l’unico motivo di ricorso incidentale la (OMISSIS) deduce “violazione e falsa applicazione dell’articolo 1917 c.c., articoli 1322 e 1341 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5”.
Vi viene criticata la motivazione con cui la Corte territoriale ha disatteso il motivo di appello con cui la (OMISSIS) si era doluta che, nell’accogliere la domanda di garanzia dell’Ospedale Fatebenefratelli il Tribunale aveva ritenuto che la copertura assicurativa di cui alla polizza stipulata fra le parti fosse operativa ancorché la richiesta di indennizzo fosse stata fatta fuori del periodo di durata del contratto.
In particolare, il motivo censura la decisione della Corte milanese là dove – con riferimento alla circostanza che nella specie la richiesta di risarcimento del danno era pervenuta all’ospedale assicurato dopo la cessazione del periodo di efficacia del contratto assicurativo – ha ritenuto, nel disattendere l’appello: a) la vessatorietà e, quindi, l’inefficacia ai sensi dell’articolo 1341 c.c., della clausola – invocata dalla (OMISSIS) – di cui all’articolo 23 della polizza di assicurazione per la responsabilità civile verso terzi o prestatori d’opera stipulata fra le parti, là dove essa prevedeva (nel comma 1) che “la garanzia esplica la sua operatività per tutte le richieste di risarcimento presentate all’Assicurato per la prima volta durante il periodo di efficacia della presente assicurazione”; b) la conseguente operatività della copertura assicurativa originante dalla polizza alla stregua dell’articolo 1917 c.c., cioè per “tutti i sinistri verificatisi nel periodo di sua vigenza anche se le relative richieste di risarcimento pervengano successivamente alla sua scadenza”.
p.6.1. La critica alla motivazione della sentenza impugnata si articola con una prima censura nei termini seguenti:
- aa) si riportano due passi di detta motivazione, il primo relativo alla conclusione raggiunta nel senso dell’inefficacia della clausola di cui all’articolo 23, e della operatività della polizza secondo l’articolo 1917 c.c.;
- bb) il secondo del seguente tenore: “In primo luogo, con riguardo al contenuto della clausola (rubricata inizio e termine della garanzia), occorre avere presente che la prima parte della stessa prevede che la garanzia esplica la sua operatività per tutte le richieste di risarcimento presentate all’Assicurato per la prima volta durante il periodo di efficacia della presente assicurazione. Nessun dubbio sorge, a tale riguardo, sul contenuto e sugli effetti della clausola in esame, la quale prevede un’evidente limitazione temporale della garanzia assicurativa con conseguente limitazione della responsabilità a favore di (OMISSIS), in deroga a quanto previsto dall’articolo 1917 c.c., ed è, per tale motivo, da considerarsi vessatoria (contrariamente a quanto affermato da (OMISSIS), che, tra l’altro per dare sostegno alla propria tesi, ha richiamato come se fosse il decisum della Corte del 2005, quello che era soltanto un passo della sentenza della Cassazione, dove era riportato un argomento della parte ricorrente). Ciò detto, in merito al contenuto della clausola in esame, va ricordato che, in via generale, il secondo comma dell’articolo 1341 c.c., prevede, per la validità della di tali clausole (che, come detto, danno luogo a una limitazione di responsabilità), una particolare forma di tutela del contraente più debole (di regola l’assicurato, vista l’asimmetria informativa ed economica esistente tra le due parti). In particolare, viene previsto doli ‘articolo succitato, l’obbligo di specifica approvazione per iscritto delle stesse, in modo da consentire al contraente più debole di essere pienamente consapevole della limitazione contrattuale. Orbene, nel caso di specie, non vi è, nella polizza assicurativa predisposta per l’Ospedale Fatebenefratelli, alcuna specifica sottoscrizione della clausola. Alla luce, di tali considerazioni, la clausola di cui all’articolo 23, della polizza non ha effetto e, tra le parti, la questione dei limiti temporali della polizza è regolata dalle disposizioni comuni di cui all’articolo 1917 c.c., ferma restando in operatività della polizza assicurativa, la quale coprirà tutti i sinistri verificatisi nel periodo di sua vigenza, anche se le relative richieste di risarcimento pervengano successivamente alla sua scadenza”.
- cc) in relazione alla motivazione riportata sub bb) si sostiene: cc1) che la Corte territoriale sarebbe incorsa in errore e in contraddizione, perché”di fronte ad una pattuizione contrattuale avente contenuto affermativo … ha ritenuto di individuare una inesistente limitazione temporale della garanzia assicurativa .., giacché la formulazione della pattuizione contrattuale non consente di individuare né una limitazione temporale della garanzia assicurativa né tanto meno una evidente limitazione”; cc2) che “il testo della clausola contrattuale offre un incontestabile ed evidente significato positivo diretto a evidenziare l’inizio del termine della garanzia prestata mediante la polizza, nè può in alcun modo ricavarsi dal chiaro significato delle parole usate una qualsivoglia limitazione temporale della garanzia stessa”; cc3) che apparirebbe “così evidente in tutta la sua portata il vizio di motivazione che contrassegna la statuizione e che esso in maniera altrettanto evidente attiene al punto decisivo della controversia insorta tra l’Azienda Ospedaliera e (OMISSIS) idonea a giustificare la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano”; cc4) che risulterebbero “così presenti i presupposti più volte enunciati da questa Corte ecc.ma per i quali di fronte ad una motivazione inesatta o comunque carente essa deve essere cassata per violazione o falsa applicazione di norme giuridiche indipendentemente dalla motivazione che della decisione errata abbia dato il giudice di merito”; cc5) che altrettale mancanza di motivazione sussisterebbe quanto all’affermazione di vessatorietà della clausola dell’articolo 23, perché la relativa affermazione sarebbe del tutto apodittica ed immotivata, in quanto la clausola non recherebbe alcuna limitazione della responsabilità alla stregua del principio di diritto di cui a Cass. n. 5390 del 1997, che viene espressamente evocato; cc6) che, d’altro canto, in quella che viene definita – esattamente con riferimento al momento del ricorso – l’unica decisione emessa da questa Corte “sul problema della clausola claims made”, cioè Cass. n. 5624 del 2005 non aveva affrontato il problema della individuazione della vessatorietà, ravvisandovi “un tipico giudizio di merito che si sottrae al sindacato di legittimità in quanto immune dai vizi denunciati”.
p.6.2. La censura, al contrario di quanto ipotizza l’intestazione evocando anche l’articolo 360 c.p.c., n. 5, non prospetta in alcun modo anche un vizio relativo alla ricostruzione della quaestio facti, come dovrebbe essere secondo quel paradigma, bensì solo la quaestio iuris, relativa alla corretta individuazione dei termini giuridici giustificativi della sussunzione della clausola contrattuale di cui all’articolo 23, sotto la norma dell’articolo 1341 c.c., senza un’adeguata motivazione in iure: ciò esclude ogni validità del rilievo di inammissibilità svolto dall’Ospedale Fatebenefratelli sotto il profilo della promiscuità di articolazione di un vizio ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, e ciò senza che si debba indulgere ad individuare se ed in che limiti effettivamente una simile promiscuità possa comportare inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione.
p.6.2.1. Tanto rilevato, il Collegio osserva che il ragionamento seguito in iure dalla Corte milanese per ritenere inefficace la clausola dell’articolo 23, ai sensi dell’articolo 1341 c.c., e ricondurre l’ambito dell’operatività della polizza sotto la norma dell’articolo 1917 c.c., non è corretto, ma ciò non può comportare la cassazione della sentenza impugnata, in quanto la conclusione in ordine alla vessatorietà appare corretta sulla base dell’esatto diritto applicabile ai fini del giudizio di sussunzione sotto la disciplina giuridica dell’articolo1341 c.c., comma 2. Giudizio che, come si dirà, questa Corte è in grado di compiere sulla base delle stesse allegazioni del motivo e comunque dell’esame della polizza, che è stata correttamente indicata ai sensi dell’articolo 366, n. 6, dalla ricorrente come presente nel suo fascicolo di merito e vi si rinviene.
Queste le ragioni.
p.6.2.2. Va premesso che alla parte di motivazione evocata dalla ricorrente la Corte milanese ha premesso il richiamo al principio di diritto affermato da Cass. n. 5624 del 2005, cui si era già riportato il primo giudice.
Esso, com’è noto, si concretò nell’affermazione che “Il contratto di assicurazione della responsabilità civile con clausola cosiddetto a richiesta fatta (claims made) non rientra nella fattispecie tipica prevista dall’articolo 1917 c.c., ma costituisce un contratto atipico, generalmente lecito ex articolo 1322 c.c., giacché, del suindicato articoli 1917 e 1932 c.c., prevede l’inderogabilità – se non in senso più favorevole all’assicurato – del terzo e del quarto comma, ma non anche del primo, in base al quale l’assicuratore assume l’obbligo di tenere indenne l’assicurato di quanto questi deve pagare ad un terzo in conseguenza di tutti i fatti (o sinistri) accaduti durante il tempo dell’assicurazione di cui il medesimo deve rispondere civilmente, per i quali la connessa richiesta di risarcimento del danno da parte del danneggiato sia fatta in un momento anche successivo al tempo di efficacia del contratto, e non solo nel periodo di efficacia cronologica del medesimo, come si desume da un’interpretazione sistematica che tenga conto anche del tenore degli articoli 1917, 1913 e 1914 c.c., i quali individuano l’insorgenza della responsabilità civile nel fatto accaduto”.
La Corte meneghina, dopo avere richiamato tale principio di diritto ed aver condiviso l’affermazione che la clausola claims made non è da considerarsi automaticamente contraria all’ordinamento, ha dichiarato doversi verificare “se la stessa prevede limitazioni di responsabilità a favore di chi l’ha predisposta se, nella specie, siano state adottate quelle forme di tutela previste dall’articolo 1341 c.c., comma 2, garanzia della sua conoscenza da parte del contraente debole”.
Dopo tali enunciazioni, tuttavia, nel passo motivazionale successivo, ricordato dalla ricorrente, ha condotto l’una e l’altra delle analisi preannunciate in modo erroneo, limitandosi a compiere il giudizio di sussunzione della clausola dell’articolo 23, sotto la previsione dell’articolo 1341 c.c., sulla base di una diretta assunzione, come termine di riferimento della limitazione di responsabilità scaturente dalla clausola stessa, della previsione del contratto tipico regolato dall’articolo 1917 c.c.: lo palesa l’espresso riferimento alla deroga operata dalla clausola a detta norma.
In tal modo la Corte territoriale ha proceduto ad un giudizio in iure erroneo che si pone in contrasto proprio con il principio di diritto affermato da Cass. n. 5624 del 2005 (e richiamato più di recente da Cass. n. 7273 del 2014).
Infatti, avendo essa affermato che di per sé una polizza con clausola claims made non è illegittima ma lecita, stante il carattere non inderogabile del modello previsto dall’articolo1917 c.c., là dove prevede come oggetto di garanzia i fatti dannosi verificatisi durante la vigenza della polizza e potendo dunque l’autonomia contrattuale prevedere il diverso modello di oggetto di garanzia rappresentato dalla c.d. “richiesta fatta”, cioè dalla correlazione alla formulazione nei confronti dell’assicurato della richiesta risarcitoria, è palese che, se si vuole restare nell’ambito del criterio indicato dalla citata sentenza, la sola constatazione della presenza di una clausola contrattuale di claims made non può giustificare la valutazione di vessatorietà per il solo fatto che essa deroga all’articolo 1917 c.c., comma 1.
Un simile modo di ragionare, che è quello seguito dalla Corte d’Appello di Milano, si pone, in effetti, in manifesta contraddizione proprio con la ritenuta liceità della clausola di claims made siccome idoneo a dar luogo a contratto atipico meritevole ai sensi dell’articolo 1322 c.c..
Non a caso, del resto, Cass. n. 5624 del 2005, dopo avere fatto le affermazioni che diedero luogo all’enunciazione del sopra ricordato principio di diritto, scrutinò espressamente il motivo di ricorso che poneva la questione della vessatorietà della clausola con riferimento al contratto di cui trattavasi e procedette al controllo della decisione di merito sul punto (limitando l’osservazione che si trattava di “tipico giudizio di merito” sottratto al sindacato di legittimità al solo ragionamento ricostruttivo concreto del giudice di merito).
p.6.2.3. In realtà, per procedere al controllo della vessatorietà la Corte milanese avrebbe dovuto, invece, esaminare il significato della clausola nell’economia complessiva della polizza e non già limitarsi a constatare, come ha fatto, che essa segnava deroga all’articolo 1917 c.c., comma 1, e rispetto al suo paradigma determinava una limitazione della responsabilità (ma, nel contempo, è da dire anche un allargamento, dato che le richieste fatte durante il periodo di efficacia del contratto per fatti anteriori accaduti entro un certo periodo risultavano coperte, come si dirà).
Un simile modo di procedere è imposto proprio dalla condivisione, che il Collego intende ribadire, del principio di diritto di cui alla sentenza del 2005 (a sua volta già seguita da quella del 2013 pure citata).
È infatti, palese che, se si considera un contatto assicurativo che preveda una clausola claims made come contratto atipico non vietato dall’articolo 1917 c.c., comma 1, e dalle altre norme sulla disciplina delle assicurazioni evocate da quella decisione, il referente per il successivo giudizio di vessatorietà della clausola in quanto limitativa della responsabilità, cui si debba procedere per essersi in presenza di contratto riconducibile alle norme degli articoli 1341 e 1342 c.c., non può essere espresso semplicemente rilevando che la clausola segna una deroga all’articolo 1917, comma 1, cioè non risponde al modello legale tipico da esso previsto e ciò perché quel modello non è imperativo.
Il parametro di valutazione della vessatorietà, non potendo essere quella norma deve essere rappresentato necessariamente da altra norma oppure dev’essere desunto dalla valutazione complessiva del contratto e, quindi, dal modo in cui la clausola claims made è prevista ed eventualmente dal rapporto di essa con altre clausole contrattuali.
Lo aveva, del resto, sottolineato proprio la sentenza del 2005, là dove aveva evocato (pag. 27 – 28) il principio di diritto di cui a Cass. n. 5390 del 1997, che, si rileva, è il seguente: “Una clausola contrattuale può essere ricompresa tra quelle che stabiliscono limitazioni di responsabilità a favore di colui che l’ha predisposta a condizione che essa restringa l’ambito obiettivo di responsabilità così come fissato, con più ampia estensione, da precetti normativi o da altre clausole generali: non possono, pertanto, qualificarsi vessatorie quelle clausole che abbiano, per contenuto, una mera determinazione della effettiva estensione delle reciproche prestazioni dedotte in obbligazione”.
Il principio si riporta nella massima ufficiale ma escludendo volutamente l’inserimento fra parentesi delle parole sottolineate, fatto dall’Ufficio del Ruolo e del Massimario, atteso che esso non era presente nella motivazione della sentenza.
p.6.2.4. Ebbene, il principio di diritto in questione, cui questa Corte intende dare continuità, quando allude a clausole generali sottende che la clausola limitativa si debba considerare vessatoria se esplichi la sua efficacia appunto limitativa rispetto a quella della previsione di altra clausola contrattuale generale, cioè di altra clausola contenuta nelle condizioni generali o contenuta nel modulo o formulario.
Ne segue che, qualora il contratto assicurativo riconducibile all’articolo 1341 (o all’articolo 1342 c.c.) preveda la claims made nella parte del contratto, avente o meno la veste grafica di clausola, deputata in via esclusiva alla definizione dell’oggetto della copertura assicurativa, si deve ritenere che la limitazione di responsabilità sfugga all’articolo 1341 c.c., comma 2, giacché la funzione limitatrice della claims made si estrinseca in una previsione o clausola contrattuale unitariamente deputata all’individuazione dell’oggetto del contratto e, quindi, opera all’interno della stessa previsione di tale oggetto e non in aggiunta ed all’esterno di essa. L’accordo delle parti su tale previsione si forma come accordo diretto a delimitare l’oggetto stesso del contratto e la limitazione di responsabilità fa parte ed è espressione di tale delimitazione e, dunque, vede stemperata ogni sua autonomia, sicché non assume il valore di “condizione”di per sé ed autonomamente rilevante, che necessiti del consenso qualificato.
Se si ritenesse altrimenti la stessa configurabilità come contratto atipico della negoziazione claims made si dovrebbe considerare impossibile in uno schema contrattuale riconducibile alle norme degli articoli 1341 e 1342 c.c., ma ciò contraddirebbe la stessa logica della tutela sottesa a tali norme, che non è quella di vietare l’autonomia privata ammessa dall’articolo 1322 c.c., bensì di esigere talune modalità di attuazione, quando essa si concreti in “condizioni generali” aventi lo specifico oggetto supposto dal secondo comma dell’articolo 1341.
Quando invece la clausola claims made si inserisce in un contratto riconducibile alle norme degli articoli 1341 e 1342 c.c., come una specifica clausola, “condizione”, che limiti la garanzia assicurativa e, dunque, l’oggetto del contratto siccome definito e comunque percepibile da altra clausola deputata alla sua individuazione, è allora che ricorre la fattispecie della vessatorietà, perché la formale previsione della clausola dopo altra idonea a definire in modo più ampio la garanzia, l’oggetto del contratto assicurativo, non appartiene più nell’economia del contratto all’individuazione dell’oggetto del contratto, ma svolge, dopo una previsione a ciò diretta, almeno finché essa sola si legga, una funzione chiarificatrice ulteriore che assume carattere limitativo di ciò che nella precedente previsione era più ampio.
La Corte milanese avrebbe dovuto procedere all’esegesi della polizza assicurativa in questi termini e, pertanto, la sua motivazione è erronea in iure sia per avere assunto la normativa giuridica regolatrice della controversia in modo erroneo, sia sul piano della conseguente sussunzione dalla fattispecie concreta sotto di essa.
p.6.3. Tuttavia, la sentenza impugnata – come s’è già anticipato – non può essere cassata in quanto sussistono le condizioni per rimediare all’errore di diritto della corte di merito con una mera correzione della sua motivazione, che è possibile senza che occorrano accertamenti di fatto, cioè come s’è preannunciato, sulla base delle stesse allegazioni della società assicuratrice e della lettura della polizza in atti (lettura che non costituisce accertamento di fatto, ma mero esercizio dei poteri di valutazione in iure di questa Corte, per il quale non è necessario rinviare al giudice di merito).
Rileva all’uopo il Collegio che la stessa ricorrente ha evocato la clausola dell’articolo 22, il cui contenuto risulta – sotto la rubrica “responsabilità civile verso terzi (r.c.t.) e verso dipendenti” – del seguente tenore: “La società si obbliga a tenere indenne l’Assicurato di quanto sia tenuto a pagare, a titolo di risarcimento (capitale, interessi e spese), quale civilmente responsabile, per danni involontariamente cagionati a Terzi per morte, lesioni personali, danni materiali a cose od animali, in conseguenza di un fatto verificatosi in relazione all’attività svolta. L’assicurazione vale anche per la responsabilità civile che possa derivare all’Assicurato da fatto doloso di persone delle quali debba rispondere”.
A sua volta, dalla lettura della polizza si ricava che il suo articolo 1 – sotto la rubrica “durata del contratto” – la fissava “dalle ore 00 del 01.03.2001 alle ore 24 del 31.12.2003”.
Ebbene, la clausola dell’articolo 22, sotto la rubrica indicata faceva espressamente riferimento al “fatto” verificatosi in relazione all’attività svolta ed in tal modo evocava come oggetto della copertura assicurativa il fatto dannoso imputabile all’assicurato. La nozione di “fatto” ritornava pure nel comma 2.
Tale individuazione avvenne, altresì, in uno schema contrattuale che all’articolo 1, aveva espressamente individuato la durata del contratto.
Ne segue che la combinazione della clausola di cui all’articolo 1, e di quella dell’articolo 22, per chi legge il contratto era, sia sul piano delle regole ermeneutiche sia soggettive che oggettive, già idonea ad individuare il possibile oggetto del contratto nei fatti dannosi per cui l’Ospedale fosse stato responsabile verso terzi e verso dipendenti in quanto si fossero verificati nel periodo di durata del contratto fissato dall’articolo 1. La stessa rubrica dell’articolo 22, alludendo alla “responsabilità” sotto quel duplice profilo, si prestava a suggerire tale conclusione, perché la responsabilità è collegata alla verificazione del fatto e non evoca la richiesta del risarcimento per il fatto.
L’oggetto del contratto appariva dunque già definito dalla combinazione fra articoli 1 e 22.
Ne segue che, quanto l’articolo 23, evocava, tra l’altro sotto la distonica rubrica “inizio e termine della garanzia”, con il suo primo comma il concetto di operatività della garanzia per le “richieste di risarcimento”, indicava come oggetto del contratto un qualcosa che si connotava e si connota come limitativo della garanzia come già fissata dagli articoli 1 e 22, e lo faceva, fra l’altro, sotto una rubrica che non solo si sovrappone, usando diversa terminologia a quella dell’articolo 1, che evocata la durata del contratto, ma che non corrisponde al suo contenuto, che appare idoneo ad individuare in realtà l’oggetto della garanzia.
Tale oggetto nel primo comma, risulta più limitato rispetto a quello dell’articolo 22, giacché risultano esclusi i fatti verificatisi durante il periodo di vigenza del contratto, per i quali la richiesta risarcitoria all’assicurato non venga formulata durante quel periodo: per tali fatti è prevista dal terzo comma solo la possibilità di un’estensione a titolo oneroso della garanzia tramite richiesta dell’assicurato, secondo tre diverse opzioni di durata di volta in volta più costose.
L’articolo 23, comma 2, faceva, poi, ritornare in rilievo il concetto di fatto dannoso disciplinando le modalità della garanzia per i fatti anteriori collocantisi nel periodo decorrente dalle ore 00.00 dello 01.01.1998, in tal modo operando a vantaggio dell’assicurato un ampliamento dell’oggetto indicato dall’articolo 22.
Nella descritta situazione è palese allora che ricorre la seconda delle situazioni sopra evidenziate: il contratto concluso mediante formulario reca una prima clausola, o meglio una combinazione di clausole dirette a determinare l’oggetto della garanzia secondo il modello tipizzato dell’articolo 1917 imperniato sul “fatto” verificatosi in pendenza del contratto, mentre la clausola dell’articolo 23 si presenta nel suo primo comma limitativa della garanzia in precedenza fissata.
Ne segue che l’articolo 22, comma 1, doveva e deve ritenersi clausola vessatoria, così come, sebbene con erronea motivazione, ha ritenuto la Corte territoriale.
Né la sua funzione limitativa potrebbe salvare la clausola de qua dalla valutazione di inefficacia a fronte della previsione ampliativa emergente invece dal secondo comma dello stesso articolo 23, dovendo escludersi questa sorta di “compensazione” fra lo svantaggio ed il vantaggio, stante la diversità dell’oggetto regolato.
La censura in esame è, pertanto, rigettata, perché la decisione impugnata nel suo dispositivo appare corretta.
p.6.4. Il Collegio ritiene opportuno avvertire che, nel rendere la presente decisione è ben consapevole che, con decreto del 27 marzo 2015, il Primo Presidente Aggiunto ha ritenuto di rimettere alle Sezioni Unite la decisione dei ricorsi iscritti ai numeri di ruolo generale 13729 del 2012, 8815 del 2014 e 5472 del 2014, in quanto prospettanti la questione di particolare importanza della natura della clausola claims made e, secondo l’istanza delle parti ricorrenti, nella supposta presenza di un contrasto fra la sentenza n. 5624 del 2005 e le sentenze nn. 3622 del 2014 e 2872 del 2015.
Senonché, il Collegio reputa che la questione posta dal ricorso incidentale che si è qui esaminata esorbiti totalmente, per i termini i cui la si è risolta in relazione alla struttura della polizza assicurativa di cui trattasi, dai termini della questione che è stata rimessa alle Sezioni Unite, che concernono la validità della clausola claims made come tale, cioè come unica clausola di individuazione dell’oggetto della copertura assicurativa, e quindi, gradatamente, la sua vessatorietà.
Con riferimento al ricorso incidentale in esame, invece, non veniva in rilievo, ai fini della determinazione dell’oggetto della copertura, un’unica clausola, bensì una pluralità di clausole, di modo che al giudizio di vessatorietà si è proceduto in una situazione che non è quella che su cui sono sollecitate le Sezioni Unite ed i principi di diritto sopra affermati non sembrano in alcun modo interferire con l’oggetto della decisione ad Esse rimesse.
La presente decisione, in sostanza, si è basata sulla presenza di un contrasto fra le clausole di definizione dell’oggetto del contratto e la clausola contenente la previsione della claims made e, in particolare, senza che assumesse valore decisivo la problematica su cui debbono intervenire le Sezioni Unite, ha proceduto ad un giudizio di vessatorietà condotto secondo la logica che deve presiedere all’applicazione dei principi di cui all’articolo 1341 c.c..
Logica che non dipendeva e non è dipesa, come s’è veduto, da valutazioni sulla validità della clausola claims made come tale, bensì dal rapporto fra essa ed altre preliminari clausole direttamente funzionali alla definizione dell’oggetto del contrato.
p.7. Con una seconda censura ci si duole del tutto assertoriamente per un verso che come si era “già osservato nelle precedenti fasi di giudizio la polizza risultava personalizzata”, per altro verso che, pur ammessa la riconducibilità all’articolo 1341, secondo comma, dell’articolo 23, l’inefficacia non avrebbe dovuto essere ritenuta, perché il contratto recava una sottoscrizione in ogni pagina.
Il primo assunto, ove volesse implicare che il contratto non era riconducibile agli articoli 1341 e 1342, perché oggetto di trattativa, come ha inteso il resistente, risulterebbe del tutto generico e come tale inammissibile, non senza che si debba rilevare che la sentenza impugnata nemmeno si occupata di tale questione, la cui emersione nel giudizio di merito la ricorrente si astiene dall’individuare.
Il secondo assunto – in disparte il rilievo del resistente che lo stesso contratto recherebbe in chiusura l’elenco di alcune clausole ma non dell’articolo 23, ai fini di una seconda sottoscrizione, allegazione non verificabile sulla base della polizza prodotta dalla (OMISSIS) e, peraltro, non replicata dalla medesima – è rivo di pregio al lume di Cass. n. 3669 del 1999.
p.8. Il ricorso della (OMISSIS) è, pertanto, rigettato.
p.9. Le spese del giudizio di cassazione sono compensate nel rapporto fra la (OMISSIS) e la (OMISSIS), che non erano in contesa fra loro. Sono compensate anche nel rapporto fra la (OMISSIS) e l’Ospedale, avuto riguardo alla natura della controversia e considerato che la scarna e lapidaria motivazione della sentenza impugnata ha potuto assumere efficacia causativa dell’impugnazione. Le spese seguono la soccombenza nel rapporto fra ospedale e società assicuratrice e si regolano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta sia il ricorso principale sia il ricorso incidentale. Compensa le spese del giudizio di cassazione nel rapporto fra la (OMISSIS) e la (OMISSIS). Compensa le spese del giudizio di cassazione fra (OMISSIS) e l’Ospedale.
Condanna la (OMISSIS) alla rifusione all’Ospedale delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro settemiladuecento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.