Ai reati perpetrati in maniera associata, non è automaticamente estendibile l’aggravante del metodo mafioso.
Un recente intervento della Cassazione si occupa del attuale e discusso problema dell’effettiva delimitazione delle ipotesi in cui sia concretamente ed obiettivamente rilevabile l’adozione del c.d. “metodo mafioso”.
La sentenza in questione, ovvero la n. 4758/2015, prende le mosse dalla dichiarazione della responsabilità penale di due soggetti per svariate condotte tra cui spaccio e danneggiamenti con incendio; perpetrati in forma associata.
La Suprema Corte ha chiarito che, perché possa ritenersi integrata la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 del D.L. 152/1991 come modificato dalla legge 203/1991(c.d. “metodo mafioso”), è necessario l’impiego della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo.
Nella motivazione si legge espressamente che: “realizzerebbe un’inammissibile estensione dell’aggravante ad ogni ipotesi di intimidazione che sia connessa allo svolgimento di un’attività imprenditoriale, laddove sia rivolta a dissuadere l’intimidito, indirizzandosi materialmente sui suoi strumenti aziendali, dallo svolgimento della propria attività”. Pertanto seguendo tale linea interpretativa, la Cassazione ritiene di dover escludere, del tutto, l’applicazione del c.d. “metodo mafioso” in assenza sia del peculiare sodalizio criminoso caratterizzato dalla forza intimidatrice del gruppo, sia di forme univoche di divulgazione del richiamato messaggio intimidatorio.
I Supremi Giudici non hanno potuto però fare a meno di constatare che tra i due soggetti sussistessero rapporti di intensa familiarità, documentati non solo da un periodo in cui i due erano stati detenuti presso il medesimo carcere ma anche dal proseguire della loro amicizia successivamente. Per tale ragione la Corte, pur rigettando l’applicazione dell’aggravante in questione; non ha potuto altresì riconoscere la lieve entità a fronte del ritrovamento di 125 grammi di cocaina.