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Integra il reato di rivelazione di segreto d’ufficio l’accesso al CED per finalità private.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Integra il reato di rivelazione di segreto d’ufficio l’accesso al CED per finalità private.

Sul finire dello scorso anno, con la sentenza 50438/2015 la Suprema Corte si è occupata di un interessante caso di rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio.

Il suddetto reato sarebbe stato integrato da un assistente capo della Polizia il quale, accedendo al sistema informativo interforze come agente di polizia presso la Polfer, aveva rivelato al cognato una condanna penale riportata dal dipendente che stava per assumere. Ciò aveva comportato la mancata assunzione. Nonostante la difesa avesse fortemente sostenuto che quella strada era stata intrapresa a seguito del rifiuto da parte del dipendente di presentare il proprio casellario giudiziario, risultava evidente che la consultazione del sistema informativo da parte dell’agente di polizia, fosse del tutto estranea alle finalità istituzionali.

La dinamica dei fatti è inoltre pienamente confermata, precisa la Corte, dalle dichiarazioni accusatorie della persona offesa. Dalle stesse emergerebbe altresì che: l’agente di polizia a prescindere dalla veste formale di impiegato e dalla mancanza della sua qualifica di legale rappresentante della società, si sarebbe occupato, in prima persona, del procedimento relativo all’assunzione, comunicando al dipendente la volontà della società di non assumerlo, adducendo la conoscenza di un suo precedente penale, ottenuta mediante “canali privilegiati”.

Per tali ragioni è stata confermata, agli odierni ricorrenti, la condanna per il reato di cui all’art. 326 c.p., nonché il risarcimento del danno nei confronti del dipendente non assunto. Tuttavia in sede di ricorso gli stessi hanno lamentato la genericità con cui si è motivato il risarcimento.

La Suprema Corte intervenuta sul punto ha ritenuto inammissibile tale doglianza. Invero i ricorrenti, come si legge nella decisione, non avevano tenuto nella dovuta considerazione che la sentenza impugnata si poneva in stretta continuità con quella di primo grado. La stessa, infatti, evidenziava che in ragione di una procedura di assunzione già avviata dalla società, con comunicazione preventiva al consulente del lavoro e con l’inizio dell’attività lavorativa fissata per una certa data, il soggetto da assumere aveva interrotto il rapporto lavorativo esistente con altra società, rimanendo poi disoccupato per diversi mesi, proprio in conseguenza della decisione della stessa società di non procedere all’assunzione.

 

 

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 24-09-2015) 23-12-2015, n. 50438

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente –

Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. ACETO Aldo – Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandr – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.A., nato il (OMISSIS);

M.P., nato il (OMISSIS);

nei confronti di:

A.M. (parte civile);

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma del 26 novembre 2014;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Alessandro M. Andronio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dr. Canevelli Paolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udita, per la parte civile, l’avv. Roefaro Barbara, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese;

uditi, per l’imputato B., l’avv. Dell’Anno Pierpaolo e, per l’imputato M., l’avv. Cardenia Daniele.

 

Svolgimento del processo

 

  1. -Con sentenza del 26 novembre 2014, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma del 31 gennaio 2012, con la quale gli imputati B. e M. erano stati condannati – anche al risarcimento del danno a favore della parte civile, da determinarsi in separato giudizio civile, con liquidazione di provvisionale provvisoriamente esecutiva – per il reato di cui al capo A dell’imputazione, riferito alla violazione dell’art. 110 c.p., L. n. 121 del 1981, artt. 9, 11, 12, in esso ritenuti assorbiti quelli di cui ai capi B e C, relativi alle violazione degli artt. 323 e 326 c.p.. Ciò che si contesta agli imputati è di avere agito in concorso tra loro, M. quale autore materiale, nella sua qualità di assistente capo della polizia di Stato in servizio presso la Polfer per il Lazio, eseguendo la consultazione del Servizio per il Sistema informativo interforze – divisione 2 – CED, per ricercare il nominativo di A.M., in violazione delle regole di accesso stabilite nella L. n. 121 del 1981, artt. 9 e segg. (il 19 luglio 2007).
  2. – Avverso la sentenza l’imputato B. ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rilevano la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione quanto al concorso dell’extraneus B. nel reato proprio dell’intraneus M., del quale è cognato, sul rilievo che non vi sarebbero elementi tali da far presumere il suo coinvolgimento. Si contesta, in particolare, il passaggio motivazionale secondo cui gli accessi al sistema informativo erano stati fatti per finalità private, risultando collegati, anche sotto il profilo temporale, con l’assunzione di A. da parte della società di B., anche se, in qualche modo, indotti dal comportamento poco trasparente del medesimo A., il quale non aveva fornito il certificato del casellario giudiziale;

tanto che la sua mancata assunzione era stata giustificata telefonicamente proprio sulla base del precedente penale riportato.

Non si sarebbe considerato – ad avviso della difesa – che B., all’interno della società Bova Group s.r.l., svolgeva esclusivamente mansioni di impiegato e aveva rapporti con l’officina, i clienti e gli autisti della società. Non si sarebbe considerata, inoltre, la brevissima durata dei primi due accessi al sistema informativo interforze effettuati da M., che – secondo la difesa – non sarebbe stata tale da consentire l’utilizzazione dell’informazione relativa al precedente penale di A.. Si lamenta, inoltre, che la Corte d’appello avrebbe ritenuto credibili le dichiarazioni accusatorie di A., nella parte in cui questo aveva riferito che B. gli aveva detto di avere conosciuto l’esistenza del suo precedente penale grazie a “canali privilegiati” che aveva a disposizione. Vi sarebbe, dunque, una mancanza di prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, avendo la sentenza trascurato di considerare il terzo e ultimo accesso di M. al Sistema informativo interforze, del quale non ci sarebbe stato assolutamente bisogno se egli avesse ottenuto in un momento antecedente l’informazione ricercata. Inoltre – prosegue la difesa – la mancata produzione del certificato penale da parte di A. sarebbe stata da sola sufficiente a bloccare la procedura già avviata dalla Società per la sua assunzione.

2.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si contestano la violazione degli artt. 132 e 133 c.p., nonchè la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione quanto alla determinazione del trattamento sanzionatorio, irrogato all’imputato in misura superiore al minimo edittale, senza alcun riferimento ad elementi specifici di valutazione.

2.3. – Sarebbe, infine, del tutto mancante la motivazione circa la condanna dell’imputato al risarcimento del danno.

  1. – La sentenza è stata impugnata anche dal difensore di M..

3.1. – Si deducono, in primo luogo, l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice, nonchè la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione quanto alla responsabilità penale. Non vi sarebbe, in particolare, prova sufficiente dell’avvenuta divulgazione o del differente utilizzo della notizia acquisita dall’imputato a seguito della consultazione del Sistema informativo interforze. Nè si sarebbe considerato l’effettivo ruolo ricoperto da B. nell’ambito della società per lo svolgimento della procedura di assunzione, a fronte della sua qualifica quale semplice impiegato senza potere decisionale e senza rappresentanza legale dell’azienda. Non si sarebbe adeguatamente valutata, inoltre, la brevissima durata dei primi due accessi al Sistema informativo interforze e la conseguente impossibilità della comunicazione del loro esito in un momento anteriore a quello dell’utilizzo. Nè si sarebbe considerato che l’ultimo accesso effettuato, quello nel quale si era avuta effettiva conoscenza della precedente condanna inflitta ad A., durato circa sette minuti, era successivo alla comunicazione a mezzo fax con la quale la ditta aveva revocato la sua disponibilità all’assunzione di questo. La difesa rileva poi che, nell’ambito della società, il soggetto competente per le assunzioni e i licenziamenti era B. P. e non l’odierno imputato B.A.. Lo stesso B.P. aveva riferito che solo le condanne definitive per delitti contro il patrimonio fossero ostative all’assunzione di un dipendente. La mancata assunzione secondo la difesa, non era dunque collegata causalmente alle informazioni sui precedenti penali del candidato, ma semplicemente alla mancata presentazione da parte di questo del certificato penale. Non si sarebbe considerato, in ogni caso, che il Sistema informativo interforze non contiene le specifiche circostanze di fatto sottostanti alle condanne riportate.

3.2. – Il ricorrente propone, poi, motivi di doglianza analoghi a quelli del coimputato circa il trattamento sanzionatorio e la condanna al risarcimento del danno, con provvisionale.

  1. – In prossimità dell’udienza davanti a questa Corte la difesa della parte civile A. ha depositato memoria, con la quale chiede che i ricorsi degli imputati siano dichiarati inammissibili o rigettati sul rilievo che gli stessi non denuncerebbero vizi di legittimità. Quanto al ruolo rivestito da B. nella società, la sua competenza per le assunzioni risulterebbe dal suo stesso atto di appello. Quanto ai profili civilistici, la Corte d’appello avrebbe evidenziato che il reato aveva cagionato un notevole danno, perchè A., in conseguenza della mancata assunzione, era rimasto per circa sei mesi senza impiego, prima di riuscire a trovarne uno a tempo determinato e, dunque, a condizioni più favorevoli rispetto a quello che aveva prima delle vicissitudini con B..

 

Motivi della decisione

 

  1. – I ricorsi sono inammissibili.

La L. n. 121 del 1981, art. 12, comma 1, punisce il pubblico ufficiale che dolosamente comunica o fa uso di dati ed informazioni in violazione delle disposizioni della stessa legge, o al di fuori dei fini previsti dalla stessa, salvo che il fatto costituisca più grave reato. Per quanto concerne, poi, i rapporti tra tale disposizione e quella dell’art. 326 c.p., questa Corte ha chiarito che deve aversi riguardo, in primo luogo al fatto se la rivelazione di notizie di ufficio abbia per oggetto dati custoditi nel Sistema di indagine interforze e, in secondo luogo, se l’operatore sia stato autorizzato o meno dal sistema ad operare su quella banca dati e abbia operato secondo le regole. Nel caso in cui la permanenza dell’operatore all’interno della banca dati sia obiettivamente autorizzata e l’operatore esegua la consultazione nei limiti e nelle forme consentite – come avvenuto nel caso di specie, secondo quanto affermato nella sentenza impugnata – può ritenersi configurabile il reato di cui al richiamato art. 12, trattandosi di dati e informazioni non illecitamente acquisite, ma dal pubblico ufficiale comunicate ovvero utilizzate in violazione delle norme stabilite.

E’, invece, integrato il delitto di cui all’art. 326 c.p., comma 3, qualora, pure nell’ipotesi di acquisizione lecita, il pubblico ufficiale o un suo eventuale concorrente persegua un profitto patrimoniale o non patrimoniale. La qualificazione del fatto operata nel caso qui in esame risulta, dunque, sostanzialmente corretta, nè è stata in quanto tale oggetto di contestazione da parte dei ricorrenti.

5.1. – Venendo al primo motivo del ricorso di B. – e alle analoghe doglianze proposte da M. col primo motivo di ricorso – deve osservarsi che si tratta della sostanziale riproposizione di rilievi già dedotti in grado di appello e che, in ogni caso, la sentenza impugnata contiene una motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente in relazione a tutti i profili oggetto di critica.

Pacifico ed incontestato è il dato dell’avvenuta consultazione del sistema informativo da parte di M., al di fuori delle finalità istituzionali. Quanto ai tempi e alla durata dei tre accessi effettuati dallo stesso, la Corte d’appello evidenzia che i primi due si sono verificati prima della comunicazione di B. ad A. dell’intenzione della società di procedere alla sua assunzione, in conseguenza di una condanna penale dello stesso A., mentre il secondo è di poco successivo a tale comunicazione, ma precedente ad un ulteriore colloquio nel quale B. aveva affermato di avere appreso la notizia attraverso i suoi “canali privilegiati” di informazione. In relazione all’asserito esito negativo dei primi due accessi, la Corte territoriale precisa, del resto, che esso è contraddetto dai tabulati. La dinamica dei fatti è inoltre pienamente confermata dalle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, dalle quali emerge altresì che – a prescindere dalla qualifica formale di impiegato e dalla mancanza in capo a B. della veste di legale rappresentante della società – era stato questo e non un altro soggetto ad occuparsi del procedimento relativo alla sua assunzione ed era stato sempre questo a comunicargli l’intenzione della società di non assumerlo adducendo la conoscenza di un suo precedente penale, ottenuta mediante “canali privilegiati”.

E tale ricostruzione permette di superare sia i rilievi difensivi secondo cui i procedimenti di assunzione erano di norma seguiti da B.P., soggetto diverso dall’odierno imputato, sia quelli secondo cui le sole condanne ostative all’assunzione erano quelle per reati contro il patrimonio. Nè può essere ritenuta credibile la ricostruzione fornita dalle difese, secondo cui la ragione della mancata assunzione di A. sarebbe da ricercare solo nell’omessa produzione da parte di questo del certificato penale, perchè tale circostanza è direttamente smentita dalla sua deposizione, che trova – come appena visto – pieno riscontro nella ripetuta consultazione della banca dati da parte di M., cognato del coimputato B..

E, del resto, la dinamica dei fatti ricostruita dai giudici di merito trova ulteriore conferma della circostanza che, in relazione alla condanna ritenuta ostativa rispetto all’assunzione, vi è stato il beneficio della non menzione; situazione che aveva reso necessario il ricorso all’accesso al Sistema informativo da parte di M. su incarico del cognato B.. E del tutto irrilevante risulta, sul punto, la considerazione difensiva secondo cui tale sistema non contiene le “specifiche circostanze di fatto sottostanti alle condanne”, perchè ciò che l’imputato B. aveva ritenuto rilevante per escludere la promessa assunzione di A. era stata la pura e semplice dell’esistenza di una condanna. Del pari irrilevanti devono essere ritenuti i rilievi critici delle difese relativi alla non necessità di una pluralità di accessi al sistema informativo, a fronte del chiaro dato rappresentato dalla positività di tutti gli accessi effettuati da M. e dal collegamento tra tali accessi e la mancata assunzione di A. che emerge in entrambi i colloqui tra quest’ultimo e B.. Ne deriva l’inammissibilità del primo motivo di entrambi i ricorsi.

5.2. – Manifestamente infondato è il secondo motivo di doglianza – anch’esso sostanzialmente comune a entrambi i ricorrenti – con cui si contestano la violazione degli artt. 132 e 133 c.p., nonchè la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione quanto alla determinazione del trattamento sanzionatorio, che sarebbe stato irrogato agli imputati in misura superiore al minimo edittale, senza alcun riferimento ad elementi specifici di valutazione.

La motivazione della sentenza impugnata appare infatti pienamente sufficiente – e, dunque, insindacabile in sede di legittimità – laddove richiama il complesso dei criteri di cui all’art. 133 c.p., perchè la pena è stata in concreto determinata in misura prossima al minimo, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Trova, dunque, applicazione il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, nel caso in cui venga irrogata una pena prossima al minimo edittale, l’obbligo di motivazione del giudice si attenua; di talchè è sufficiente il generale richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. (ex plurimis, sez. 2, 26 giugno 2009, n. 36245, rv. 245596; sez. 4, 20 marzo 2013, n. 21294, rv. 256197; sez. 2, 8 maggio 2013, n. 28852, rv. 256464).

5.3. – Inammissibile per genericità è, infine, la terza doglianza di entrambi i ricorrenti, con cui si lamenta la mancanza di motivazione circa la condanna al risarcimento del danno. Gli stessi ricorrenti non prendono, infatti, in considerazione, neanche a fini di critica, la motivazione della sentenza impugnata sul punto, laddove la stessa – in continuità con quella di primo grado – evidenzia che, in ragione della procedura di assunzione già avviata dalla società con comunicazione preventiva al consulente del lavoro e con l’inizio dell’attività lavorativa già fissata per il 20 luglio 2007, A. aveva interrotto il rapporto di lavoro esistente con altra società, rimanendo poi disoccupato per diversi mesi, proprio in conseguenza della decisione della stessa società di non procedere all’assunzione. Tale situazione giustifica, secondo la corretta valutazione dei giudici di merito, anche la condanna al pagamento di una provvisionale provvisoriamente esecutiva. E del resto, in tema di provvisionale, la determinazione della somma assegnata è riservata insindacabilmente al giudice di merito, che non ha l’obbligo di espressa motivazione quando l’importo rientri – come nel caso di specie – nell’ambito del danno prevedibile (ex plurimis, sez. 6, 11 novembre 2009, n. 49877, rv. 245701).

  1. – I ricorsi devono perciò essere dichiarati inammissibili. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.000,00.

I ricorrenti devono anche essere condannati alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in Euro 3000,00, oltre accessori di legge. Una copia del dispositivo della presente sentenza sarà trasmessa all’Amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico M., a norma del D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 70.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende, nonchè al rimborso, in favore della parte civile A.M., delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in Euro 3000,00, oltre accessori di legge.

La Corte dispone, inoltre, che copia del presente dispositivo sia trasmessa all’Amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico, a norma del D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 70.

Così deciso in Roma, il 24 settembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2015