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PECULATO E NECESSARIA OFFENSIVITÀ

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

PECULATO E NECESSARIA OFFENSIVITÀ

La Suprema Corte torna ancora una volta sulla questione relativa al rapporto tra il reato di peculato, di cui all’art. 314 c.p., e il principio di necessaria offensività. Tale fattispecie di reato presenta una duplice modalità di estrinsecazione della condotta: al primo comma, infatti, il legislatore punisce il pubblico ufficiale, o l’incaricato di pubblico servizio che si appropri di denaro o di altra cosa mobile, di cui ha il possesso ovvero la disponibilità per ragioni del suo ufficio o servizio; al secondo comma, invece, viene descritta la condotta del c.d. peculato d’uso, che si sostanzia nel solo uso momentaneo della cosa, la quale viene poi immediatamente restituita, subito dopo il suo utilizzo.

Nel caso di specie l’imputato, in qualità di incaricato di pubblico servizio, si era appropriato della utenza cellulare, conferitagli per ragioni connesse al suo servizio dalla società di cui era presidente, facendone uso per motivi strettamente personali (telefonate, videochiamate, messaggi privati) e cagionando in questo modo un danno economico alla società. Questa la tesi del Tribunale di primo grado, confermata in punto di responsabilità dalla Corte d’Appello, pur se ricondotta alla ipotesi criminosa di cui al comma 2, e cioè quella di peculato d’uso.

Impugnata la decisione del giudice di secondo grado in Cassazione, la Suprema Corte ha ritenuto di dover annullare la sentenza impugnata, senza rinvio, per insussistenza del fatto di reato ascritto all’imputato. Alla luce dell’insegnamento della stessa Cassazione del 2012, già sul piano della offensività, la condotta appare improduttiva di un danno alla società, in quanto il complessivo importo delle telefonate di natura privata effettuate dall’imputato assume i contorni della irrisorietà (350 euro) se rapportata alla globalità delle poste di bilancio societarie e alla imponente entità dei costi aziendali sostenuti all’epoca dei fatti per l’uso dei telefoni cellulari a dipendenti e vertici della società. Proprio la sentenza citata individua tra i requisiti della fattispecie del peculato d’uso l’apprezzabilità del danno prodotto al patrimonio della persona offesa, ovvero la lesione della funzionalità dell’ufficio o servizio del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Carente è, altresì, a parere della Cassazione, l’analisi relativa all’elemento soggettivo del reato di peculato d’uso, in quanto la diffusa prassi all’interno della società di un suo promiscuo di auto di servizio e di telefoni aziendali riservato agli organi di vertice è tale da indurre un ragionevole dubbio sulla consapevolezza da parte dell’imputato della antigiuridicità della condotta di uso improprio e penalmente illecito del cellulare.

La Suprema Corte ritiene, pertanto, penalmente irrilevante la condotta ascritta all’imputato in quanto non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative, richieste al fine di configurare il reato di peculato d’uso. 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SESTA SEZIONE PENALE

Composta dai magistrati

Dott. Antonio S. Agrò – Presidente –

Dott. Giacomo – Paoloni – Consigliere Rel. –

Dott. Anna Petruzzellis –

Dott. Emanuele Di Salvo –

Dott. Benedetto Paternò Raddusa –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA N. 1327/2016

sul ricorso proposto da C. G., nato a …omissis…, avverso la sentenza del 13 giugno 2014 della Corte di Appello di Milano; esaminati gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata; udita la relazione del consigliere Giacomo Paoloni; udito il pubblico ministero in persona del sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e per il rigetto nel resto; udito per il ricorrente C. G. l’avv. Stefano Besani, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 16 giugno 2011 il Tribunale di Busto Arsizio ha dichiarato C. G. responsabile del delitto di peculato e lo ha condannato, esclusa la contestata continuazione criminosa e concessegli le attenuanti generiche e l’attenuante del fatto di particolare tenuità (art. 323-bis c.p.), alla pena sospesa di un anno e quattro mesi di reclusione. Fatto reato, commesso in Gallarate dal 9 novembre 2007 al 24 giugno 2009, integrato dall’essersi il C. G., presidente della …omissis…, società costituita dal Comune di Gallarate (unico socio) per la gestione dei servizi/ pubblici comunali, e -quindi- quale incaricato di un pubblico servizio, appropriato dell’utenza cellulare intestata alla società e conferitagli per ragioni connesse al suo servizio pubblico, facendone uso “per motivi strettamente personali” (videochiamate, telefonate e messaggi privati) e così cagionando un danno economico alla società. Alla luce delle testimonianze e dei documenti raccolti nell’istruttoria dibattimentale il Tribunale ha innanzitutto evidenziato l’indiscutibile qualità di incaricato di pubblico servizio da attribuirsi al C. G., attese le finalità operative e strumentali certamente pubbliche perseguite dalla società …omissis… di Gallarate, finalità cui non può far velo la natura giuridica privata della stessa.

Precisato che i dati documentali offerti dall’istruttoria hanno permesso di ridimensionare il danno patito dalla società comunale per l’uso “abusivo” del cellulare aziendale praticato dal C. G., da quantificarsi in 900 euro ulteriormente riducibile a soli 350 euro a seguito di un “ristorno” del gestore telefonico (evenienza che ha legittimato l’attenuante ex art. 323 bis c.p.), il Tribunale ha, poi, ritenuto inattendibile la tesi difensiva dell’imputato, secondo cui l’uso del telefono aziendale con “traffico illimitato” costituisse per l’imputato, presidente del C.d.A. (carica assunta il 20.7.2001 giusta delibera assembleare della …omissis… del 16 luglio 2001), un beneficio accessorio (fringe benefit) dei suoi emolumenti retributivi al pari dell’uso dell’auto aziendale. Al riguardo il Tribunale ha dubitato delle valenze dimostrative del documento, denominato allegato 1, annesso alla lettera di nomina del C. G. ed alla cui stregua sarebbe elencato tra i fringe benefits concessi al dirigente anche il “telefono cellulare aziendale in dotazione per uso istituzionale e personale”. Vuoi perché tale “allegato” è venuto in luce soltanto durante l’istruttoria dibattimentale, non essendo stato consegnato alla p.g. in esecuzione dell’ordine di esibizione degli atti emesso nelle indagini preliminari dal p.m. (15 aprile 2010). Vuoi perché la sottoscrizione o sigla del documento, attribuita all’allora direttore generale della …omissis… F. E., che pure -esaminato come testimone- ha riconosciuto di aver firmato l’atto, appare molto diversa da quella apposta dal F. E. in altri atti (“…non convince affatto”). Vuoi, infine, perché -ipotizzata la natura di fringe benefit dell’uso del cellulare- rimane illogica la ragione per cui la componente retributiva dell’uso del cellulare non risulti annotata nel documento contabile degli emolumenti corrisposti all’imputato nel triennio 2007/2009.

2. Adita dall’impugnazione del C. G., la Corte di Appello di Milano con l’indicata sentenza del 13 giugno 2014 ha confermato in punto di responsabilità la decisione di primo grado, ma -alla luce del dictum con cui le Sezioni Unite nel 2012 hanno ricondotto all’ipotesi del peculato d’uso l’utilizzazione per meri fini personali del telefono di ufficio da parte di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (Sez. U, n. 19054 del 20 dicembre 2012, dep. 2013, Vattani, Rv. 255296)- ha qualificato la condotta dell’imputato ai sensi dell’art. 314 comma 2 c.p. e, per l’effetto, ridotto la pena allo stesso inflitta a dieci mesi e venti giorni di reclusione.

Respinti i rilievi difensivi sulla qualifica di incaricato di pubblico servizio attribuita al C. G. in veste di presidente della società …omissis… di Gallarate (la relativa nozione essendo strutturata, dopo la riforma del 1990 degli artt. 357 e 358 c.p., in senso funzionale-oggettivo, sicché “la trasformazione dell’…omissis… da azienda municipalizzata in società per azioni non ha alcun rilievo ai fini della valutazione sulla sussistenza della qualità di incaricato di pubblico servizio del C. G.”, atteso che il fatto che la società svolga, oltre alla gestione di servizi pubblici comunali, anche attività a favore di terzi “in forma privatistica”, non conduce ad escludere la “natura pubblicistica dell’istituzione, che gestisce servizi di pubblico interesse disciplinati da norme di diritto pubblico”), la Corte ambrosiana ha confermato la valutazione di infondatezza della tesi difensiva dell’imputato imperniata sul fatto che i presidenti della …omissis… (inclusi i due predecessori del C. G.) hanno fruito a titolo di beneficio retributivo accessorio dell’uso “promiscuo” del telefono aziendale (sia per lavoro che per motivi personali). Per i giudici di appello i dati processuali inducono a ritenere che la dotazione di un telefono cellulare della società offerta ai dirigenti di vertice della struttura non costituisca un fringe benefit, ma una dotazione aziendale strettamente connessa alle finalità lavorative. Soffermandosi sul menzionato documento “allegato 1” che accredita l’assunto dell’imputato (uso illimitato del cellulare per ragioni di lavoro e personali), i giudici del gravame, nel riprendere le considerazioni già espresse dal Tribunale, hanno valorizzato, per un verso, le testimonianze della segretaria del C.d.A. del 2001 S. R. e del direttore delle risorse umane dell’azienda nello stesso periodo G. L., che hanno riferito di non aver mai visto (o di non averne memoria) il predetto documento, il G. L. altresì precisando che il telefono aziendale concesso ai dipendenti è “uno strumento di lavoro non concepito come benefit. Gli stessi giudici, per altro verso, hanno ribadito le ragioni che inducono a “dubitare della genuinità” del citato allegato 1 alla lettera di nomina del C. G. come presidente del C.d.A. di …omissis… (“…l’omessa archiviazione dell’allegato appare un fatto assai strano, come è strano che detto documento non venne mai consegnato agli operanti in sede di esecuzione dell’ordine di esibizione… il fatto che poi il F. E. abbia riconosciuto come propria la firma apposta in calce all’allegato non depone a favore della genuinità della sottoscrizione”, stante la diversità della firma rispetto ad altre firme del medesimo F. E.; di tal che “deve essere condivisa la valutazione del giudice di primo grado in base alla quale tale allegato è da ritenersi tamquam non esser).

3. I due difensori di fiducia di C. G. hanno impugnato per cassazione la sentenza di appello, proponendo con due separati ricorsi le censure di violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione di seguito sintetizzate.

4. Ricorso dell’avv. Stefano Besani.

4.1. Travisamento delle prove, difetto e manifesta illogicità della motivazione sull’uso promiscuo del telefono aziendale assegnato al C. G. quale presidente del C.d.A. della società di servizi.

Incongruamente la Corte di Appello ha ritenuto indimostrata la tesi di un uso promiscuo del telefono aziendale risalente ai precedenti presidenti del C.d.A. della …omissis…, trascurando di rilevare che l’ex presidente M. T. (l’altro presidente G. P. ha riferito di non aver ritirato il cellulare offertogli dall’azienda) ha precisato come nel ricevere in consegna il cellulare della …omissis… non gli fosse stato indicato alcun limite nel suo utilizzo (al pari, del resto, del telefono fisso in sua dotazione), tant’è che egli durante la carica lo ha liberamente impiegato anche per telefonate private. La Corte territoriale ha altresì ignorato come anche il testimone G. L. (cui si dà particolare credito per escludere la natura di fringe benefit dell’uso del cellulare aziendale) abbia confermato di aver a sua volta, assunto come “semplice” dirigente nel 2001, ricevuto un cellulare aziendale da utilizzare “anche per scopi personali”.

Di guisa che non è dato capire per quale ragione, mentre dovrebbero considerarsi legittimi gli usi indifferenziati (fini aziendali e fini personali) dei cellulari dell’azienda da parte dei presidenti del C.d.A. e dei dirigenti della società in carica prima del C. G., soltanto l’uso promiscuo del cellulare compiuto da quest’ultimo assumerebbe connotati di illiceità penale sia pure ai sensi dell’art. 314 comma 2 c.p. Non può non inferirsi, allora, che -al di là delle mere illazioni dei giudici dei due gradi di merito sulla validità del documento c.d. allegato 1 e sulla scarsa attendibilità del direttore generale del 2001 ing. F. E.- le considerazioni della sentenza di appello non vanificano la sostanziale natura di beneficio accessorio della retribuzione da riconoscersi all’uso del cellulare aziendale conferito anche al C. G. (secondo inveterata prassi aziendale per dirigenti e amministratori). Tanto più quando si osservi che una formale regolamentazione (consegna e utilizzo) del cellulare aziendale è avvenuta solo nel 2009 a cura del nuovo direttore generale.

4.2. Insussistenza del danno aziendale e difetto di motivazione.

Dovendo escludersi dal novero delle telefonate personali effettuate dal C. G. l’importo relativo alle videochiamate compiute con il cellulare aziendale (importo rimborsato dal gestore di telefonia mobile), emerge che negli oltre due anni considerati dall’imputazione il ricorrente ha effettuato soltanto 192 telefonate private, sì che il preteso uso improprio o indebito del cellulare assume concreti contorni di occasionalità o sporadicità (non più di una telefonata privata a settimana). Ciò implica che il preteso danno (corrispondente alle supposte telefonate “abusive”) di soli 350 euro subito dalla società, rispetto a conti aziendali dell’ordine di milioni di euro, deve considerarsi in pratica inesistente.

4.3. Mancata assunzione di prova decisiva e motivazione contraddittoria.

La Corte di Appello ha replicato pedissequamente, nonostante gli specifici rilievi difensivi, l’assunto del Tribunale in merito alla insignificanza probatoria della nota definita allegato 1, con cui il direttore generale di …omissis… dell’epoca (ing. F. E.) ha attestato la consegna al C. G. -in concomitanza con l’investitura come presidente del C.d.A.- di una serie di oggetti tra i quali anche un telefono cellulare aziendale “in dotazione per uso istituzionale e personale”.

Al pari del Tribunale i giudici di appello considerano apoditticamente falsa la sottoscrizione del documento, pur confermata nell’esame dibattimentale dall’ing. F. E. (e in assenza di una perizia grafica), sulla base di elementi puramente congetturali.

Posto che la ritenuta “inutilizzabilità” del documento sarebbe stata desumibile soltanto all’esito di verifiche sull’attendibilità di F. E., accusato (per quanto in forma ellittica) di falsa testimonianza senza che al riguardo sia stata adottata nessuna iniziativa processuale (trasmissione atti al p.m.; eventuale perizia; ecc.).

Il dato per cui la sottoscrizione del documento, idoneo ad escludere la sussistenza del reato di peculato delle telefonate (o dei relativi costi aziendali) ex art. 314 comma 2 c.p. o -quanto meno- il dolo di detta ipotesi criminosa, apparirebbe non conforme ad altre sottoscrizioni dello stesso ing. F. E. è inconferente, non essendovi dubbio che, se davvero il documento -come credono i giudici di merito- è da ritenersi mendace, cioè frutto di una deliberata falsificazione, lo stesso F. E. si sarebbe preoccupato di apporre sull’atto una sua firma insuscettibile di alimentare sospetti (sottacendo l’avvenuto suo riconoscimento dibattimentale della firma).

Il fatto che il teste G. L. abbia riferito di non avere contezza dell’allegato 1, recante la stessa data (16.7.2001) in cui il C.d.A. di …omissis… ha conferito la carica di presidente al C. G., non ha rilievo. Per il semplice motivo che nel luglio del 2001 il G. L. non aveva ancora assunto la qualifica di direttore del personale dell’azienda. Ciò senza considerare, quanto alle dotazioni di cellulari aziendali offerte ai dirigenti anche per uso personale, le dichiarazioni in tal senso rilasciate dallo stesso G. L.. Né soverchio peso può annettersi al mancato reperimento (e consegna) del documento alla Guardia di Finanza intervenuta presso la sede …omissis… per eseguire l’ordine di esibizione documentale del p.m., atteso che la p.g. si è limitata a contattare il direttore generale G. G. (che nell’immediatezza non ha reperito l’atto, risalente ad oltre otto anni prima), operando soltanto presso il primo dei due articolati complessi immobiliari della …omissis….

4.4. Erronea disapplicazione dell’art. 47 c.p. e mancanza di motivazione.

Se il C. G. ha utilizzato il cellulare assegnatogli dall’azienda anche per le non numerose telefonate private oggetto di incriminazione, ciò è avvenuto nella sua incolpevole convinzione di esservi legittimato in base a quanto assicuratogli dalla stessa azienda. Sicché egli non ha commesso alcun reato per difetto del relativo dolo. Sul punto la sentenza di appello si è limitata ad affermare laconicamente che “non sembra possibile dubitare della sussistenza dell’elemento soggettivo”, senza chiarire le ragioni di un simile assioma.

4.5. Eccessività della pena.

In subordine i giudici di appello, pur qualificando la condotta del ricorrente ai sensi del 2° comma dell’art. 314 c.p., non solo non hanno computato -oltre alle attenuanti generiche- l’attenuante speciale ex art. 323-bis c.p. (pur già riconosciuta dal giudice di primo grado), ma hanno assunto a base del calcolo della pena, per un soggetto incensurato e di cui pur si segnala il buon contegno processuale, una sanzione (un anno e quattro mesi di reclusione) ben superiore al doppio della pena minima edittale (sei mesi), astenendosi dal chiarire i motivi di tale determinazione.

5. Ricorso dell’avv. Giuseppe Candiani.

5.1. Erronea applicazione dell’art. 358 c.p..

La Corte di Appello ha sbrigativamente confermato la qualifica di incaricato di pubblico servizio del ricorrente, sottolineando l’irrilevanza della forma giuridica dell’ente di riferimento dell’agente e la natura “funzionale-oggettiva” del pubblico servizio espletato dalla società …omissis….

Tuttavia dopo la riforma (legge n. 86/1990) degli artt. 357 e 358 c.p. un soggetto può assumere la qualifica di incaricato di pubblico servizio soltanto se e quando eserciti una mansione pubblica, poiché la qualifica è connessa all’effettivo esercizio di un servizio pubblico. Di tal che la qualifica del C. G. doveva essere definita in virtù dell’attività effettivamente svolta dall’ente o società di cui questi è stato organo di vertice. L’…omissis… era (al momento dei fatti ascritti all’imputato) ed è una società per azioni, come da trasformazione della sua anteriore struttura giuridica di azienda municipalizzata, avvenuta nel 2001 in base alla legge 15.5.1997 n. 127 (c.d. legge Bassanini-bis). La privatizzazione formale in parola è, però, soltanto una fase del complessivo processo di privatizzazione anche sostanziale della struttura, implicante la dismissione o vendita a privati delle azioni di proprietà diretta o indiretta dello Stato o degli enti pubblici territoriali. Tale privatizzazione si coniuga alla “liberalizzazione” delle attività svolte dalla società finalizzata a creare reale competitività in un mercato concorrenziale. La …omissis… S.p.A. ha ad oggetto, quindi, non solo la gestione dei pubblici servizi a favore esclusivo del Comune di Gallarate, ma altre numerose attività a favore di terzi anche privati e soprattutto non costituenti servizi pubblici (“attività gestite in regime di libero mercato, in piena concorrenza e gestibili da qualsivoglia impresa privata”).

La Corte di Appello ha affermato la sussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al ricorrente erroneamente interpretando l’art. 358 c.p., non tenendo conto delle modifiche legislative e dell’evoluzione della normativa dell’Unione Europea (direttive 92/50/CEE, 93/36/CEE, 93/97/CEE). La Corte di Giustizia europea, nel mettere a punto la nozione di “organismo pubblico”, richiede la cumulativa presenza di tre requisiti, l’assenza di uno solo dei quali impedisce la qualificazione di un organismo come di diritto pubblico (1. scopo di soddisfare esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; 2. finanziamento maggioritario da parte dello Stato o altri enti pubblici; 3. gestione soggetta al controllo di organismi pubblici). Nel caso della società …omissis… difetta il primo requisito, perché la società “svolge attività priva di interesse generale e, per lo più, con netto carattere industriale e commerciale”. Una società per azioni a partecipazione interamente pubblica, quale la …omissis… S.p.A., che svolga sia attività di tipo pubblico sia di tipo privatistico, costituisce allo stato “un ibrido” con conseguenze non uniformi nella qualificazione della sua natura giuridica.

Nel caso di svolgimento del primo tipo di attività la sua natura (oggettiva e funzionale) è pubblica, nell’altro caso è privatistica. Nella attuale vicenda processuale il ricorrente può essere identificato come incaricato di pubblico servizio soltanto nella prima ipotesi. Senonché nel processo non è mai stato accertato, né poteva esserlo, se le contestate telefonate siano state realizzate dall’imputato mentre svolgeva attività di servizio pubblico o attività di tipo privatistico.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. L’impugnazione di C. G. merita accoglimento perché i primi tre motivi, interdipendenti, del ricorso redatto dall’avv. Besani sono fondati e la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per insussistenza del fatto reato ex art. 314, comma 2, c.p. ascritto al prevenuto.

2. I pregiudiziali e pur suggestivi rilievi espressi con il ricorso dell’avv. Candiani sull’asserita incongruenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio assegnata al C. G. sul presupposto della indifferenziata natura, pubblicistica (servizio pubblico) e privatistica, dell’attività esercitata dalla società …omissis… interamente partecipata dal Comune di Gallarate (unico azionista), non possono essere seguiti. Per le lineari ragioni enunciate dalle due decisioni di merito, conformi alla giurisprudenza di legittimità, in ordine alla preminente connotazione di servizio pubblico riferibile all’attività della …omissis….

Connotazione che in realtà coinvolge l’intero ambito delle complessive attività societarie, ivi incluse anche le operazioni regolate da rapporti contrattuali di natura privatistica con soggetti privati.

Ciò che vale a definire compiti e finalità della …omissis… in un esteso contesto di obiettivi di interesse o rilevanza pubblici. Al riguardo è sufficiente evidenziare come tale aspetto divenga palese, proiettando le prestazioni societarie che il ricorso definisce privatistiche in dinamiche specificamente funzionali al perseguimento di obiettivi di carattere generale puntualmente connessi alla complessiva cura dei servizi propri di un ente territoriale comunale. E’ ben difficile, infatti, escludere le valenze “pubbliche” intrinseche alle prestazioni menzionate come “privatistiche” in ricorso ed afferenti, tra le molte, a: “manutenzione verde pubblico; manutenzione arredo urbano; consulenza, assistenza e servizi in campo ambientale connessi alla difesa del suolo e alla tutela delle acque di falda e superficie; segnaletica verticale e orizzontale; promozione del risparmio energetico; realizzazione ed esercizio di sistemi informativi territoriali”.

La ragion d’essere della struttura di …omissis… S.p.A. risiede, dunque, nel generale perseguimento di finalità connesse a servizi di interesse e importanza pubblici, a nulla rilevando che dette finalità, oggettive e “funzionali” (strumenti, cioè, di realizzazione di obiettivi di rilievo generale propri dell’ente territoriale comunale) possano realizzarsi anche con meri strumenti privatistici (cfr.: Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013, Orsi, Rv. 257384; Sez. 6, n. 49759 del 27/11/2012, Zabatta, Rv. 254201).

3. Ferma -quindi- la qualifica di incaricato di pubblico servizio ricoperta dal C. G., pienamente fondate si rivelano, come premesso, le doglianze espresse dal primo ricorso sulla configurabilità, oggettiva e soggettiva, del reato di peculato d’uso attribuito al ricorrente.

4. Prima ancora che nell’analisi dell’elemento soggettivo dell’ascritto reato di peculato d’uso, da effettuarsi anche alla luce della prassi risalente nel tempo e anteriore all’assunzione della carica presidenziale dell’imputato instaurata presso …omissis… in merito alla dotazione con uso “illimitato” di cellulari aziendali conferita a dirigenti e vertici della struttura e segnatamente ai “presidenti”, l’impugnata sentenza di appello (mutuando carenze della confermata decisione di primo grado) delinea una motivazione gravemente deficitaria sulle componenti strutturali della fattispecie criminosa ex art. 314 comma 2 c.p. (ritenuta alla luce della ricordata sentenza Vattani delle Sezioni Unite del 20 dicembre 2012) e tale da prefigurare sotto più aspetti, a causa di una omessa o incompleta contestualizzazione storica della vicenda processuale, la stessa oggettiva insussistenza del reato.

4.1. Già sul piano della offensività della condotta, quale produttiva di danno per l’ente pubblico Comune di Gallarate, socio unico della …omissis… S.p.A., appaiono difettare -a tutto concedere- elementi di concretezza della fattispecie criminosa ipotizzata. Non è revocabile in dubbio, infatti, che il complessivo importo delle telefonate di natura privata effettuate -in tesi- in modo abusivo dal C. G., pari alla somma di euro 350 maturata nell’arco di un periodo di tempo di oltre due anni, assuma oggettivi contorni di irrisorietà (id est insussistenza), se rapportata (come in definitiva riconoscono entrambe le sentenze di merito) alla globalità delle poste di bilancio societarie e all’imponente entità dei costi aziendali (migliaia di euro) annualmente sostenuti all’epoca dei fatti (anni 2007/2009) dalla …omissis… per l’uso dei telefoni cellulari conferiti a dipendenti e vertici della società. Non è casuale, del resto, che la stessa menzionata sentenza Vattani delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 19054/13 del 20 dicembre 2012, Rv. 255296) individui uno dei requisiti integrativi della fattispecie del peculato d’uso nella “apprezzabilità” del danno prodotto al patrimonio della persona offesa (sia questa la pubblica amministrazione o un terzo in danno dei quali avvenga la condotta appropriativa) ovvero determini, alternativamente, un’effettiva concreta lesione alla “funzionalità” dell’ufficio o servizio del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio agente. Con l’inferenza, quindi, della “irrilevanza” penale della condotta che risulti priva di tali connotazioni produttive di esiti economici e funzionali significativi (cfr., in tema di uso per fini personali del telefono di ufficio, in linea con Sez. U, Vattani: Sez. 6, n. 46282 del 24 settembre 2014, Brancato, Rv. 261009; Sez. 6, n. 50944 del 4 novembre 2014, Barassi, Rv. 261416).

4.2. Senz’altro carente va considerata -come dedotto dalla difesa dall’imputato (in sede di appello e di odierno ricorso per cassazione)- l’analisi svolta da entrambe le sentenze di merito e segnatamente da quella di appello sull’elemento soggettivo del reato, quando si abbia riguardo alle emergenze processuali, pur ampiamente ripercorse dai giudici di merito, asseveranti la storica esistenza della diffusa prassi in seno alla …omissis… di un uso promiscuo di auto di servizio e soprattutto di telefoni aziendali riservato agli organi di vertice della società. Dato suscettibile di indurre, proprio sotto l’aspetto del dolo, un ragionevole dubbio sulla consapevolezza del C. G. dell’antigiuridicità dell’ascritto contegno di un uso improprio e penalmente illecito del cellulare dell’azienda (cfr., ex multis: Sez. 6, n. 32801 del 2 febbraio 2012, Bracchi, Rv. 253270).

4.3. Ciò chiarito, tuttavia dirimente -per pregiudizialità storica e logica- si rivela l’analisi, affatto deficitaria, delle medesime emergenze processuali operata dalla Corte di Appello (sulla scia delle valutazioni della sentenza di primo grado, pur sottoposte dall’appellante a stringenti critiche ignorate o sommariamente disattese) con riguardo alla oggettiva configurabilità e, dunque, giuridica sussistenza dell’elemento materiale della fattispecie del peculato d’uso ascritta al C. G..

In vero sconcertante appare la valutazione operata dai giudici di appello del documento 16 luglio 2001, definito “allegato” alla delibera di nomina del C. G. quale presidente del C.d.A. della società …omissis…, che assegna all’imputato un cellulare con uso illimitato per motivi di ufficio e per motivi personali. In proposito la sentenza impugnata adduce a sospetto di autenticità tale atto, vuoi perché non sarebbe stato reperito (rectius consegnato alla p.g. a seguito dell’ordine di esibizione documentale del p.m.) in fase di indagini preliminari, vuoi perché la conferma della effettiva esistenza del documento riveniente dalla testimonianza del direttore generale dell’epoca F. E., che pur ne ha avvalorato l’autenticità riconoscendo come propria la firma recata dall’atto, lascerebbe spazio a dubbi sulla attendibilità del testimone.

Come si evidenzia nel primo ricorso dell’imputato, la Corte di Appello ambrosiana non soltanto ha irragionevolmente creduto di valorizzare talune altre testimonianze di funzionari della …omissis…, che non hanno negato l’esistenza del ridetto “allegato”, asserendo soltanto di non averne avuto notizia o di non averlo visto, pur a fronte delle testimonianze dei predecessori del C. G. e in particolare del teste avv. M. T. (che ha assicurato di non aver mai saputo di un eventuale divieto di un uso promiscuo del cellulare aziendale in sua disponibilità: “io lo utilizzavo liberamente”) e dello stesso direttore del personale ing. G. L. (che ha riferito di aver fatto uso di un cellulare della …omissis… anche per scopi personali fin dalla sua assunzione, nel 2001, come dirigente della società), ma ha altresì offerto una travisante lettura del valore dimostrativo dell’allegato in parola.

Da un lato, a sostegno della inveridicità del documento, mai espressamente enunciata, si adduce la “stranezza” della sua mancata consegna in sede di esibizione e comunque la sua omessa formale archiviazione tra gli atti della …omissis…. Ciò senza che si sia tenuto conto della multiforme dislocazione degli uffici della società e in ogni caso senza nessun accertamento o approfondimento dibattimentali pur ben possibili (anche ex art. 603 c.p.p.). Da un altro lato si adduce, per espungere l’atto dal novero di quelli utilizzabili ai fini della decisione (sino a definirlo tamquam non esset), l’ulteriore “stranezza” della diversità palese della firma apposta sull’allegato dall’ing. F. E., sebbene questi l’abbia riconosciuta come propria, da altre firme del dirigente presenti su diversi documenti. Ciò senza che sia stato svolto un qualsiasi accertamento tecnico-grafico (perizia), non certo eludibile -per l’indubbia decisività del dato fattuale- con il noto canone di libera valutazione della prova per cui il giudice diviene peritus peritorum, e soprattutto senza nessuna verifica della generica affermata “inattendibilità” del riconoscimento della sottoscrizione da parte del testimone F. E.. Affermazione, questa, incongrua e contraddittoria sotto un triplice profilo.

In primo luogo perché da siffatto assunto non sono tratte le logiche conseguenze giuridiche in ordine alla effettiva falsità della testimonianza del F. E. (che avrebbe imposto la trasmissione delle sue dichiarazioni al pubblico ministero per il reato di cui all’art. 372 c.p.). In secondo luogo perché le dichiarazioni del F. E. sono giudicate smentite da una singolare interpretazione della deposizione del direttore del personale G. L.; testimonianza che, nella evidente neutralità delle sue valenze descrittive, non solo non contraddice il direttore generale F. E., ma sembra avvalorarne (nei termini già prima indicati) l’addotta evenienza dell’uso promiscuo del telefono aziendale assegnato fin dal 2001 ai vertici della …omissis…. In terzo luogo, infine e specialmente, perché -a tutto voler concedere- la affermazione della inutilizzabilità del documento (c.d. allegato 1), che pure oggettivamente accredita siffatta evenienza, e della congiunta inattendibilità testimoniale del F. E., oltre ad essere apodittica e incoerente, appartiene al genere degli argomenti che provano troppo. Per il semplice motivo che, se in tesi il documento e la testimonianza del F. E. debbono considerarsi falsi, cioè in altre parole precostituiti per sostenere la linea difensiva del ricorrente, non è dato comprendere (come puntualmente segnala il primo ricorso) perché mai il F. E. non si sia curato di apporre sull’atto acquisito nel corso del giudizio di merito una propria firma che non desse adito a incertezze o illazioni quali quelle sviluppate nella sentenza di appello.

Ora, dinanzi all’esposto quadro ricompositivo degli elementi processuali sottesi alla regiudicanda e al di là di ogni ulteriore inferenza sulla carente risposta offerta dalla sentenza impugnata ai convergenti rilievi critici formulati dall’appellante imputato, è agevole e sufficiente osservare che la categoria della “stranezza” evocata dalla stessa decisione per svalutare un dato acquisito al processo (documento allegato 1; testimonianza F. E.), per di più confortato da altre fonti descrittive, ha meri connotati metagiuridici e, di per sé e in difetto di altri concreti elementi storici, non ha dignità processuale e logico-probatoria. Per l’effetto, alla stregua della ricostruzione dei dati del processo elaborata dalle due conformi decisioni di merito (salva, in appello, la riqualificazione del reato ai sensi dell’art. 314 comma 2 c.p.), la sentenza di appello deve essere cassata senza rinvio perché il fatto criminoso contestato a C. G. non sussiste.

P. Q. M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Roma, 7 luglio 2015

 

IL PRESIDENTE

Antonio Stefano Agrò

IL CONSIGLIERE EST

Giacomo Paoloni

 

Depositato in cancelleria il 14 gennaio 2016

IL FUNZIONARIO GIUDIZIARIO

Piera Esposito