Particolare tenuità del fatto: ancora puntualizzazioni da parte della Suprema Corte.
Con il d.lgs. 28/2015 (convertito in legge 67/2015) è stato inserito nel corpus del codice penale l’art. 131 bis, rubricato “Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”. In virtù di tale norma i reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, non sono passibili di sanzione penale, laddove per le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133 c.1 c.p., l’offesa risulti essere particolarmente tenue; ciò sempre che il comportamento del soggetto agente non sia espressivo di abitualità.
La Suprema Corte sottolinea come un fatto tipico, antigiuridico e colpevole possa intendersi, in presenza degli “indici-requisiti” previsti dal legislatore, contrassegnato da un quantum di lesività di consistenza talmente modesta da rendere non proporzionata e dunque non giustificata la risposta sanzionatoria dell’ordinamento sul piano penale. Viene, pertanto, in rilievo una concezione “gradualistica” del reato, non solo in senso quantitativo, ma anche qualitativo, ad onta di una valutazione complessiva del disvalore della condotta e dell’evento cagionato. Passaggio logico rilevante è quello relativo al rapporto tra la funzione dell’art. 131 bis c.p. e quella degli artt. 56 e 110 c.p.: come questi ultimi assolvono ad una funzione estensiva della punibilità, allo stesso modo, ed in via del tutto speculare, l’art. 131 bis c.p. potrebbe definirsi come norma “riduttiva” della punibilità stessa per quelle condotte che, seppur tenui, restano comunque tipiche.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto applicabile la norma di cui si discorre alla fattispecie di tentato furto, in quanto l’oggetto materiale su cui aveva inciso la condotta appropriativa erano alcuni articoli di bigiotteria, un bracciale di plastica e un orologio non funzionante.
Infine la Cassazione ha affrontato la tematica relativa alla deducibilità in sede di legittimità della particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. Ebbene, la Suprema Corte ha asserito che la verifica della particolare tenuità del fatto riguarda una qualificazione giuridica compatibile con il giudizio di legittimità: la Cassazione può rilevare, infatti, d’ufficio ex art. 609 c.2 c.p.p. la sussistenza delle condizioni di applicabilità dell’istituto sulla base delle risultanze processuali, nonché dalla motivazione della sentenza impugnata, e decidere per l’annullamento della stessa con rinvio al giudice di merito, ovvero senza rinvio, laddove la sentenza impugnata consenta di ravvisare ictu oculi la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 131 bis c.p.. L’attività richiesta al giudice di legittimità non può intendersi come verifica di merito, ma piuttosto come mera valutazione della corrispondenza del fatto al modello legale, e pertanto del tutto compatibile con le peculiarità di tale giudizio.
Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 02-07-2015) 11-02-2016, n. 5800
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPPI Aniello – Presidente –
Dott. DE BERARDINIS Silvana – Consigliere –
Dott. SAVANI Piero – Consigliere –
Dott. MICHELI P. – rel. Consigliere –
Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Milano;
avverso la sentenza emessa il 06/12/2014 dal Gip del Tribunale di Busto Arsizio nel processo penale iscritto nei confronti di:
M.H., nato in (OMISSIS);
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Corasaniti Giuseppe, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
- Il 06/12/2014, il Gip del Tribunale di Busto Arsizio dichiarava non doversi procedere nei confronti di M.H., imputato di un tentato furto aggravato, consistito nell’avere cercato di impossessarsi di un orologio analogico in acciaio, di un anello di bigiotteria, di un bracciale in plastica e di un secondo bracciale (parimenti di bigiotteria); gli oggetti in questione erano custoditi nell’area predisposta e adibita a “piattaforma ecologica” dal Comune di (OMISSIS). In ordine al reato sopra descritto, che non era stato consumato perchè i Carabinieri della locale stazione avevano sorpreso il M. sul posto, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio aveva esercitato l’azione penale con richiesta di decreto penale di condanna, che tuttavia il giudice non accoglieva rilevando l’insussistenza del fatto, sul presupposto che i beni de quibus non avessero – come emerso nel corso delle indagini – alcun valore commerciale. In particolare, il Gip sottolineava:
– il difetto di prove di sorta sulla circostanza che fosse stato l’imputato (per quanto trovato dai militari all’interno della piattaforma ecologica) a scardinare la recinzione dell’area;
che, “pur in assenza di specificazione sul valore dei quattro oggetti sottratti, è chiaro che questo si assesta su una decina di euro al massimo”;
la necessità di fare riferimento al principio di offensività, che, “pur non espressamente disciplinato dalla legge, tuttavia, secondo la prevalente dottrina, costituisce uno dei principi immanenti del nostro sistema penale, che richiede in ogni caso, perchè possa ritenersi concretizzato l’illecito penalmente rilevante, che sia leso o posto in pericolo il bene giuridico protetto, a meno che la norma non preveda espressamente una fattispecie tipica di natura formale che consenta di affermare che la legge ha voluto riaffermare una idoneità lesiva normativamente presunta”; come la giurisprudenza di legittimità, per quanto con alcune oscillazioni interpretative, si fosse già orientata in senso conforme (richiamando a tal fine pronunce di questa Corte intervenute, fra l’altro, in tema di tenuta delle scritture contabili e di detenzione di sostanze stupefacenti);
– che doveva ritenersi ovvia l’assoluta inidoneità della condotta in rubrica, esauritasi nel tentativo di asportare pochissimi oggetti abbandonati di nessun valore, a ledere od esporre a pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
- Propone ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Milano, deducendo erronea applicazione della legge penale, nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata. Il P.M. ricorrente segnala che “il giudizio che riguarda il più o meno modesto valore economico della cosa sottratta riguarda la concedibilità o meno dell’attenuante del danno di speciale tenuità, ma non può investire la rilevanza penale del fatto, pacificamente accertato come rispondente alla contestazione mossa nell’imputazione.
Nè è consentito prendere in esame il mero valore dei “quattro oggetti sottratti” senza tener conto, nell’ambito di una valutazione globale del fatto e della lesione all’interesse protetto dalla norma, del danno arrecato alla recinzione della piazzola ecologica, divelta dal suo basamento”.
Ad avviso del P.g. milanese, che fa presente come lo stesso giudicante abbia riconosciuto la non determinabilità del valore intrinseco dei beni descritti nel capo d’imputazione, “nemmeno la circostanza attenuante prevista dall’art. 62 c.p., n. 4 sarebbe – allo stato – tout court applicabile al caso concreto, perchè, per costante giurisprudenza di legittimità, essa sarebbe ravvisabile, nel delitto tentato, solo ove risultasse provato, rigorosamente ed univocamente, che se il reato fosse stato portato a compimento ne sarebbe derivato un danno di speciale tenuità”.
Motivi della decisione
- Ritiene il collegio che, nella fattispecie concreta, debba trovare applicazione l’istituto di cui all’art. 131 bis c.p., introdotto nell’ordinamento per effetto del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28; norma, dunque, entrata in vigore in data posteriore sia all’emissione della pronuncia oggetto di ricorso, sia dello stesso atto di impugnazione appena illustrato, e che implica pertanto una questione su cui il giudice di legittimità deve intendersi chiamato a decidere ai sensi dell’art. 609, comma 2.
- L’art. 131 bis c.p., la cui rubrica recita “esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”, stabilisce al comma 1 che “nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma 1, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”. Ai fini della determinazione della pena detentiva da riguardare, in vista dell’applicazione della norma de qua, soccorrono i criteri dettati dal successivo comma 4, secondo cui “non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale” (con la precisazione che, in quest’ultimo caso, non può rilevare il giudizio di comparazione fra circostanze di segno contrario, disciplinato dall’art. 69 c.p.).
Il comma 2 chiarisce che “l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità (…) quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa, ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”. La nozione di non abitualità si ricava invece, a contrario, dalla previsione del comma successivo, secondo cui “il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonchè nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”.
2.1 In una delle prime e più significative occasioni nelle quali questa Corte ha avuto modo di affrontare le tematiche sottese alla novella, si è precisato che “la rispondenza ai limiti di pena rappresenta (…) soltanto la prima delle condizioni per l’esclusione della punibilità, che infatti richiede (congiuntamente e non alternativamente, come si desume dal tenore letterale della disposizione) la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento. Il primo degli “indici-criteri” (così li definisce la relazione allegata allo schema di decreto legislativo) appena indicati (particolare tenuità dell’offesa) si articola, a sua volta, in due “indici-requisiti” (sempre secondo la definizione della relazione), che sono la modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, intensità del dolo o grado della colpa). Si richiede pertanto al giudice di rilevare se, sulla base dei due “indici-requisiti” della modalità della condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo, valutati secondo i criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p., comma 1, sussista l'”indice-criterio” della particolare tenuità dell’offesa e, con questo, coesista quello della non abitualità del comportamento. Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità” (Cass., Sez. 3, n. 15449 dell’08/04/2015, Mazzarotto).
Va chiarito, peraltro, che nulla autorizza a ritenere tassative le elencazioni di cui al primo e secondo capoverso dell’art. 131 bis c.p.: già il rilievo che ci si trova dinanzi a “indici-criteri” rende evidente che si tratta di ipotesi tipizzate dal legislatore, dove sono esclusi margini di discrezionalità nella valutazione del giudice, da intendersi vincolata e da realizzare attraverso un’attività di mero accertamento. Tuttavia, quelli ivi contemplati non possono considerarsi gli unici casi di condotte recanti offese non tenui, ovvero di comportamenti abituali. Sarà dunque precluso ex lege ritenere di particolare tenuità un reato in cui il soggetto attivo sia stato animato da motivi abietti o futili, ovvero commesso da chi si trovi nella condizione per vedersi contestare la recidiva specifica; ma, qui anticipando problematiche immanenti al giudizio di impugnazione, potrà senz’altro escludersi l’applicabilità della norma (sia stata essa valutata o meno nel processo di primo grado) laddove risulti inflitta una condanna a pena che si discosti dal minimo edittale, od in ipotesi nelle quali le circostanze attenuanti generiche, seppure concesse, debbano intendersi minusvalenti rispetto ad eventuali circostanze di segno contrario (v. Cass., Sez. 5, n. 44387 del 04/06/2015, Trischitta).
2.2 E’ da ricordare, infine, la previsione dell’art. 131-bis, comma 5, secondo cui l’istituto trova applicazione “anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante”. Ciò comporta che un fatto, da considerare attenuato in ragione della modestia del danno arrecato (intuitivo ed immediato si palesa, ad esempio, il richiamo all’ipotesi di cui all’art. 62 c.p., n. 4), dunque meritevole di una pur meno rigorosa sanzione, ben può ritenersi caratterizzato da modesta offensività all’esito di una valutazione complessiva, sì da non giustificare – malgrado ci si trovi al cospetto di un fatto che integra illecito penale – alcuna risposta sanzionatoria.
Rinviando al prosieguo del presente excursus una più analitica disamina dei temi sottesi alla natura del nuovo istituto, la previsione dell’art. 131 bis c.p., comma 5 rende già evidente la necessità di una chiarificazione preliminare: un conto è discutere di tenuità del danno stricto sensu, che – segnatamente laddove evocata per descrivere le conseguenze di una condotta criminosa sul piano patrimoniale – si esaurisce in una connotazione del fatto; ben altro è invece affrontare il problema della sussistenza (e dell’eventuale tenuità) dell’offesa, che involge problemi di tipicità e di qualificazione giuridica. Il fatto offensivo – di beni giuridici di rango costituzionale – è comunque un fatto tipico, anche nelle ipotesi in cui l’offesa si riveli particolarmente tenue:
e, mentre la dimensione quantitativa del danno può individuarsi soltanto all’esito di una indagine di merito, l’individuazione di un minimum di offesa attiene alla ricerca degli elementi necessari per sussumere la fattispecie concreta sub judice nel disegno astratto contemplato dalla norma incriminatrice (attività cui è certamente chiamato anche il giudice di legittimità).
Va del resto ricordato, e sempre rinviando alle pagine successive per una più articolata analisi, che la conferma della tipicità del fatto di particolare tenuità sul piano dell’offesa si ricava dal nuovo art. 651 bis c.p.p., introdotto a sua volta dal D.Lgs. n. 28 del 2015: vi si prevede che la sentenza irrevocabile di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, ove pronunciata a seguito di dibattimento o di giudizio abbreviato (in quest’ultimo caso, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito speciale), “ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”. Una pronuncia, quindi con implicazioni parzialmente negative, normalmente non correlate a decisioni tout court liberatorie; tanto più che la novella ha parimenti introdotto alcune ipotesi di iscrizione nel Casellario giudiziale delle sentenze con cui si dichiari la non punibilità dell’imputato dell’art. 131-bis c.p..
2.3 Tanto premesso, va subito chiarito che non si rinvengono ostacoli all’applicazione dell’istituto in argomento al caso di specie (salvo doversi soffermare in seguito sulla possibilità in genere che l’art. 131 bis c.p. trovi ingresso nel giudizio di cassazione, e se la valutazione della particolare tenuità del fatto possa essere compiuta ex officio da parte del giudice di legittimità, tenendo conto degli elementi già evidenziati nelle fasi di merito).
Quanto ai limiti edittali di pena, ci si trova dinanzi ad un furto tentato, in ordine al quale una delle due aggravanti in rubrica (l’avere il M. agito con violenza sulle cose) appare già esclusa senza che, in parte qua, vi sia un’effettiva impugnazione.
Infatti, il giudice di merito ha motivatamente rilevato che nulla depone nel senso che la rottura della recinzione fosse da ricondurre alla condotta dell’imputato: ciò, evidentemente, sul ragionevole presupposto che la rete di quella piattaforma ecologica fosse stata già danneggiata in precedenza, in ipotesi anche in occasione di furti diversi e dei quali non erano mai stati identificati gli autori. A riguardo, vale a dire al fine di sostenere invece la sicura od almeno verosimile riferibilità di quella violenza alla mano del M., in base alle risultanze del procedimento, il P.g.
territoriale nulla deduce: nel ricorso viene evidenziato soltanto – ed in termini apodittici – che nella valutazione del grado dell’offesa sarebbe stato necessario tenere conto anche del danno arrecato alla struttura.
Ergo, i limiti della presente regiudicanda riguardano in concreto un tentato furto aggravato ex art. 625 c.p., n. 7, perchè commesso su cose esistenti presso stabilimenti pubblici; e, pur tenendo conto della minima riduzione di un terzo ai sensi dell’art. 56 c.p., il fatto non appare sanzionabile con pena eccedente i limiti previsti dal nuovo art. 131 bis, comma 1.
Non risulta, inoltre, che ricorrano le ipotesi previste dal comma 2, e neppure che il M. – al quale non vengono ascritti più reati della stessa indole, nè addebiti connotati da pluralità o reiterazione di condotte – rientri nelle peculiari categorie soggettive di cui al successivo capoverso.
D’altro canto, l’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero esclude implicazioni in termini di possibile reformatio in peius: ciò in quanto il Gip, sul presupposto di una mancanza in radice dell’offesa immanente al fatto tipico, ha pronunciato una formula liberatoria che – per le ragioni appresso evidenziate – è certamente più favorevole di quella che ritenga invece l’imputato non punibile per la particolare tenuità del fatto addebitatogli. Va peraltro tenuto presente che gli effetti pregiudizievoli di una sentenza che applichi l’istituto in parola si producono soltanto in situazioni determinate, come ricordato poco fa: il che neppure può verificarsi nel caso in esame, dove la pronuncia impugnata appare emessa ex art. 459, comma 3, e art. 129, non già all’esito di un giudizio dibattimentale od abbreviato.
- Come sopra accennato, dinanzi ad un fatto caratterizzato da un’offesa (particolarmente tenue, ma) esistente, si è al cospetto di un fatto tipico, la cui pur lieve offensività deve intendersi oggetto di accertamento: una volta riscontrata esistente, il fatto rimarrà antigiuridico ma – per scelta di politica criminale operata dal legislatore a fini eminentemente deflattivi – non andrà incontro a sanzione. La sussistenza dei presupposti per l’applicazione della norma in esame, in definitiva, esclude l’assoggettabilità dell’autore di un fatto-reato alla pena che dovrebbe conseguirne, ma non l’antigiuridicità del fatto-reato medesimo: del resto, si è già sottolineato che le “disposizioni di coordinamento processuale” previste dall’art. 3 del suddetto D.Lgs. prevedono, attraverso l’introduzione dell’art. 651 bis, l’efficacia di giudicato della sentenza di proscioglimento ex art. 131 bis (in sede civile od amministrativa) non solo in punto di sussistenza del fatto e della sua riferibilità all’imputato, ma anche della sua “illiceità penale”.
La contrarietà all’ordinamento del fatto, seppure non punibile, implica altresì la sua “ingiustizia” ai sensi dell’art. 52 c.p., con la conseguente impedibilità della condotta, nei limiti della proporzionalità fra (modesta) aggressione e successiva reazione, da parte di chi versi nella necessità di difendere un correlato diritto proprio od altrui: situazione, questa, che appare comune alle cause di esclusione della punibilità, nozione che sembra potersi evocare anche nel caso di specie, alla luce del tenore letterale della rubrica di cui al citato art. 131-bis. (ma si vedrà più avanti che, con riguardo all’inquadramento dogmatico dell’istituto, occorrerà tenere conto anche della peculiare disciplina in rito dettata dalla novella). Impedibile, ad esempio, deve ritenersi il fatto antigiuridico posto in essere da un soggetto che goda di uno status di immunità sancito dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale: così rilevandosi, su un piano generale, che le cause di esclusione della punibilità hanno quale comune presupposto l’attuale rilevanza penale di un fatto che il legislatore, per le più svariate ragioni di opportunità, rinuncia a sanzionare. La condotta che realizza un’offesa particolarmente tenue, in definitiva, non può intendersi assunta nella ricorrenza di una causa di giustificazione (in quel caso, ne verrebbe esclusa l’antigiuridicità), ma integra invece un reato esistente in tutte le sue dimensioni e componenti: oggettive, soggettive e di (modesta) lesività. Giustificata può essere, invece, la eventuale reazione che a quella si contrapponga.
3.1 La relazione allo schema di decreto legislativo, poi sfociato nella stesura definitiva del D.Lgs. n. 28 del 2015, avverte che il testo normativo, “nell’attuare l’indicazione del legislatore, muove dall’implicita ma ovvia premessa che la c.d. “irrilevanza del fatto” sia istituto diverso da quello della c.d. “offensività del fatto”.
Quest’ultimo, come recepito dalla giurisprudenza costituzionale e comune ormai largamente prevalente, attiene alla totale mancanza di offensività del fatto, che risulta pertanto privo di un suo elemento costitutivo e in definitiva atipico e insussistente, come reato.
Com’è noto, l’ipotesi della inoffensività del fatto è stata ricondotta normativamente all’art. 49 c.p., comma 2,; diversamente, l’istituto in questione della “irrilevanza” per particolare tenuità presuppone un fatto tipico e, pertanto, costitutivo di reato ma da ritenere non punibile in ragione dei principi generalissimi di proporzione e di economia processuale. Ne viene che la collocazione topografica della sua disciplina non può che essere quella delle determinazioni del giudice in ordine alla pena: e, pertanto, lo schema di decreto delegato ha ritenuto di inserire la disciplina sostanziale del nuovo istituto in apertura del Titolo 5^ del Libro 1^ del codice penale, subito prima degli articoli concernenti l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena”.
A sua volta, la relazione della commissione ministeriale di studio per l’elaborazione delle proposte ai fini dell’attuazione della Legge Delega n. 67 del 2014 ricordava che nel caso di specie la non punibilità “comporta comunque un’affermazione di responsabilità, dalla quale tuttavia non derivano effetti e conseguenze penali diversi da quello della iscrizione del provvedimento nel Casellario giudiziale”.
3.2 Una significativa conferma della correttezza dell’approccio ermeneutico appena illustrato si ricava da una delle decisioni di questa Corte che hanno avuto modo di occuparsi del nuovo istituto, secondo la quale “la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. sia perchè diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perchè il primo di essi estingue il reato, mentre il secondo lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica” (Cass., Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, Sorbara, Rv 263885). In applicazione degli stessi principi, deve poi ritenersi che l’introduzione dell’art. 131 bis c.p. non determini alcuna abolitici criminis, sì da comportare una possibilità di revoca di precedenti pronunce definitive ai sensi dell’art. 673; se il presupposto per ritenere operante il nuovo istituto è che il fatto concreto debba avere rilevanza penale, attraverso una pur marginale lesione od esposizione a pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice, i più favorevoli effetti della novella soggiacciono ai limiti di cui all’art. 2 c.p., comma 4, mentre un’eventuale abrogazione inciderebbe sul disvalore della fattispecie astratta ex se, piuttosto che sulla sola punibilità in concreto di un fatto determinato.
3.3 Per rilevare la particolare tenuità dell’offesa, in definitiva, è necessario ritenere configurabile – a carico di un soggetto cui la condotta sia ascrivibile, secondo gli ordinari canoni di riferibilità materiale e psichica – una fattispecie astratta tipica e lesiva, con un grado di offensività minimo ma comunque apprezzabile: situazione che, per quanto si è sopra evidenziato, il giudice di merito non ha inteso individuare nel caso oggi in esame, giungendo (in termini assai più radicali) ad escludere in radice l’offesa, e dunque la tipicità stessa del fatto.
Non vi è dubbio, al riguardo, che il principio di offensività abbia oggi, per effetto di numerosi interventi del giudice delle leggi, un chiaro fondamento costituzionale: ciò a partire dalla sentenza n. 360/1995, dove si afferma che “la verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario, nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore, implica la ricognizione dell’astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili.
Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame” (il caso oggetto della questione di legittimità riguardava un addebito di coltivazione di piante da cui si ritenevano estraibili principi attivi di sostanze stupefacenti) “risulta una condotta (…) che ben può valutarsi come “pericolosa”, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che (…) l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perchè non è irragionevole la valutazione prognostica – sottesa alla astratta fattispecie criminosa – di attentato al bene giuridico protetto”.
La Corte Costituzionale rileva inoltre, nella pronuncia appena richiamata, che non appare “irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione”, avvertendo al contempo che “diverso profilo è quello dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (come nel caso – prospettato dal giudice rimettente – della coltivazione in atto, e senza previsione di ulteriori sviluppi, di un’unica pianta da cui possa estrarsi il principio attivo della sostanza stupefacente in misura talmente esigua da essere insufficiente, ove assunto, a determinare un apprezzabile stato stupefacente), viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensivita sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 c.p.).
La mancanza dell’offensività in concreto della condotta dell’agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario”.
Con la sentenza n. 263/2000, la Corte ritorna sul profilo di distinzione tra offensività in astratto ed in concreto, osservando come la norma penale censurata (l’art. 120 c.p.m.p.) miri alla tutela del bene giuridico costituito dalla funzionalità e dall’efficienza di determinati servizi: avendo il legislatore inteso dettare, a salvaguardia di quel bene, regole secondo cui il militare comandato si intende chiamato a rispettare rigide e tassative modalità di esecuzione delle disposizioni impartitegli, “non vi è ragione di dubitare che la violazione della consegna sia di per sè suscettibile di ledere interessi di rilievo costituzionale riconducibili ai valori espressi dall’art. 52 Cost. L’accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che identificano la consegna è invece compito dell’autorità giudiziaria militare, alla quale spetta altresì valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato; se, cioè, l’eventuale inadempimento del militare ad alcuna di esse sia idoneo a pregiudicare l’integrità del bene protetto ed abbia quindi carattere di offensivita anche in concreto.
L’art. 25, quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo, oltre ai parametri indicati dal remittente, l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello dell’applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale”.
Proseguendo lungo l’identico percorso argomentativo, la sentenza n. 225/2008 (sulla non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 c.p.) ribadisce la già descritta “ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (…): spetta, in specie, alla Corte -tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità – procedere alla verifica dell’offensività “in astratto”, acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo;
esigenza che, nell’ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit (…). Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività “in concreto”). Esso – rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sè, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva”.
3.4 Alla luce delle indicazioni appena richiamate, si può convenire con il P.M. ricorrente nel senso che la decisione del Gip di Busto Arsizio (chiamato a valutare la “offensività in concreto” del comportamento ascritto al M.) comporti una indebita dilatazione di quest’ultima nozione, non foss’altro perchè – stante la già sottolineata differenza ontologica fra danno ed offesa, di cui si è data contezza pagine addietro – giunge ad introdurre nell’ambito dell’offensività profili che attengono strettamente alla valutazione delle mere conseguenze della condotta sul piano patrimoniale. Fermo restando che un furto, sul piano dell’offensività astratta, rimane un fatto meritevole di sanzione penale perchè pacificamente aggressivo di beni di valore costituzionale, le categorie logiche utilizzate dal giudicante per escludere l’offensività in concreto (segnatamente, la speciale modestia del valore della refurtiva, quantificato in una decina di euro) non sembrano riguardare ex se la lesione o la messa in pericolo del bene tutelato, ma piuttosto – nel quadro di riferimento normativo vigente al momento della decisione – la ravvisabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4.
- Oggi, oltre ai parametri normativi menzionati, l’interprete è chiamato a confrontarsi anche con il nuovo art. 131 bis c.p., che – come parte della dottrina ha avuto modo di sottolineare in sede di primi commenti – si segnala non soltanto per meritorie finalità pratiche, volte a sottrarre alla pretesa punitiva dello Stato fattispecie ictu oculi bagatellari, ma anche e soprattutto per avere inserito per la prima volta nel corpo della parte generale del codice penale, la nozione di offesa, con la necessità conseguente di richiamare il principio costituzionale a questa sotteso, in termini ben più pregnanti di quanto fosse già desumibile dall’art. 49 c.p..
Alcune previsioni di natura certamente sostanziale, peraltro, richiamavano già il concetto di tenuità in relazione non al danno (come il più volte ricordato art. 62, n. 4, e le previsioni a questo omologhe, quale la L. Fall., art. 219, comma 3), bensì al “fatto” complessivamente considerato (si pensi all’art. 323 bis c.p.), ovvero alla “offesa” (l’art. 2640 c.c., con scelta terminologica da leggersi tuttavia nel senso di intendere i reati societari posti a tutela di interessi di natura non esclusivamente patrimoniale: v. Cass., Sez. 5, n. 5848/2013 del 13/11/2012, Corallo); tuttavia, come detto, ciò non era mai accaduto per una disposizione di parte generale.
Per la prima volta, un fatto tipico, antigiuridico e colpevole può intendersi contrassegnato da un quantum di lesività di consistenza talmente modesta da rendere non proporzionata, e dunque non giustificata, la risposta sanzionatoria dell’ordinamento sul piano penale: viene così in rilievo la cosiddetta “concezione gradualistica” del reato, non solo in senso quantitativo (come già autorizzavano a ritenere le previsioni analoghe all’art. 62 c.p., n. 4), ma altresì in senso qualitativo, sul piano di una valutazione complessiva del disvalore da ricollegare alla condotta ed all’evento cagionato. In tale prospettiva, la norma in esame assume una portata speculare a quelle che, nella medesima parte generale del codice penale, svolgono funzione estensiva, come gli artt. 56 o 110: in base a queste ultime previsioni, condotte altrimenti atipiche (perchè non realizzative della fattispecie astratta disegnata dalla norma incriminatrice, ma solo connotate da idoneità ed inequivocità verso la commissione di un delitto, ovvero consistenti in forme di partecipazione materiale o psicologica al fatto tipico posto in essere da altri) divengono passibili di sanzione penale; l’art. 131- bis, al contrario, presiede ad una funzione che sul piano sostanziale potrebbe definirsi riduttiva, non consentendo che la sanzione penali operi in ordine a condotte che sarebbero – e rimangono – tipiche.
In altri termini, la norma de qua, ove correlata a tutte le disposizioni di legge che ne rendano possibile l’applicazione in ragione delle previsioni sanzionatorie edittali, ne viene a tracciare – in punto di tipicità – una linea di confine inferiore, che la dottrina ha già avuto modo di definire quale “limite tacito della norma penale”.
Il fatto ascritto al M., innegabilmente, presenta le caratteristiche appena illustrate: oltre alle considerazioni già sviluppate dal giudice di merito sul piano del valore dei beni oggetto del tentato furto (come detto, due articoli di bigiotteria, un braccialetto di plastica e un orologio che in atti si indica “non funzionante”), deve infatti tenersi conto della assoluta grossolanità della condotta, realizzata presso un sito adibito a vera e propria discarica, e in difetto di qualsivoglia elemento che deponga per la non occasionante del comportamento, avuto riguardo alle condizioni soggettive del suo autore.
- Deve ora affrontarsi il delicato tema di come, muovendo dall’appena evidenziato presupposto che la fattispecie concreta presenta tutti i connotati oggettivi e soggettivi per essere sussunta nell’ambito dell’istituto di nuova introduzione, sia consentito al giudice di legittimità prenderne atto.
Con un’ordinanza adottata ex art. 618 il 07/05/2015, la Terza Sezione di questa Corte ha inteso rimettere alle Sezioni Unite (fra gli altri) quesiti relativi:
alla deducibilità in sede di legittimità (in ipotesi, attraverso la formulazione di motivi aggiunti o di memorie, ovvero oralmente in fase di discussione) della questione dell’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. nei procedimenti dove il ricorso risulti anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 28 del 2015;
– alla possibilità per la stessa Corte di Cassazione, dinanzi ad un’impugnazione non manifestamente infondata, di valutare d’ufficio l’applicabilità dell’istituto;
alla possibilità della Corte di procedere direttamente ad una valutazione dei presupposti applicativi della norma, e se tale giudizio debba essere espresso attraverso un annullamento con rinvio della sentenza impugnata o sia parimenti consentito, in casi peculiari, un annullamento senza rinvio.
Nell’ordinanza de qua, che non ha poi sortito l’effetto auspicato in quanto gli atti risultano essere stati restituiti alla Sezione rimettente, si legge che, “in estrema sintesi, il giudice è chiamato ad effettuare una specifica valutazione di meritevolezza verificando se sulla base dei due “indici-requisiti” (modalità della condotta ed esiguità del danno e del pericolo, valutati congiuntamente secondo i criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p., comma 1), sussistano i due indici- criteri (particolare tenuità dell’offesa e non abitualità del comportamento). L’esito positivo di tale operazione consentirà al giudice di considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
L’apparente semplicità di tali operazioni si scontra, però, con un testo che oltre a profilarsi non particolarmente specifico, induce alcune perplessità. Anzitutto è da rilevare che si tratta, proprio perchè entrano in gioco numerosi dati che debbono tra loro incrociarsi, di un giudizio complesso in cui muovendo dalla premessa che a dover essere analizzato è non tanto e non solo il reato, quanto il comportamento del reo (e dunque la condotta), deve anche tenersi presente la differenza che intercorre tra irrilevanza del fatto ed inoffensività del fatto: in quest’ultimo caso, in realtà ci si trova di fronte ad un non reato (art. 49 c.p., comma 2), mentre l’aspetto della irrilevanza attiene più propriamente ad un giudizio di valore che presuppone l’esistenza di un fatto-reato ed il livello di offensività misurato in rapporto alla abitualità del comportamento ed alle modalità della condotta”.
5.1 Tenendo conto dei contributi già offerti da altre pronunce medio tempore intervenute in tema di interpretazione della novella, il collegio reputa necessario – anche al fine di prendere posizione sui delicati profili segnalati nell’ordinanza appena ricordata – soffermarsi sull’inquadramento sistematico dell’istituto in parola.
Non vi è dubbio che la norma, già prima facie, evochi all’interprete la “esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto” disegnata dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34; in base a quest’ultima previsione, “il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonchè la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta a indagini o dell’imputato”.
Risulta peraltro evidente, almeno sul piano lessicale, l’apparente voluntas legis sottesa al D.Lgs. n. 28, tenendo peraltro conto che, in vista della introduzione della nuova ipotesi deflattiva (chiara essendo, sul punto, una comune finalità perseguita dal legislatore), si disponeva già del modello elaborato in tema di definizioni alternative del procedimento penale per i reati di competenza del giudice di pace: ergo, da un lato emergono i comuni punti di contatto fra i due istituti, il secondo costituendo una prosecuzione di strategie di politica legislativa sottese al precedente intervento, dall’altro se ne debbono cogliere i profili di distinzione, tanto più netti ove si consideri che (in linea di principio) nulla avrebbe impedito al legislatore, con gli opportuni adattamenti necessari anche alla luce di più di un decennio di esperienza applicativa del menzionato art. 34, di riprodurne lo schema.
Stando alla lettera della legge, sembrerebbe invece aver prevalso una opzione “sostanzialistica”, a dispetto della chiara natura processuale da riconoscere invece all’istituto di cui al citato art. 34: come incidentalmente già ricordato in precedenza, l’art. 131-bis c.p. parrebbe disegnare una causa di esclusione della punibilità (con la conseguente, doverosa applicazione del principio della retroattività della legge di favore, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 4). La norma de qua, pertanto, sembra dover trovare applicazione anche relativamente ai processi in corso e pure per reati commessi prima della sua entrata in vigore: in questo senso, del resto, si esprime la citata sentenza n. 15449/2015 della Sezione Terza, che afferma “la natura sostanziale dell’istituto di nuova introduzione”.
Va comunque chiarito che, in linea di principio, alla stessa conclusione dovrebbe pervenirsi laddove si ritenesse di valutare preminenti le eventuali implicazioni dell’istituto di nuova introduzione in punto di procedibilità: soluzione in linea con approdi cui la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta già da tempo, secondo i quali “il problema dell’applicabilità dell’art. 2 c.p., in caso di mutamento nel tempo del regime della procedibilità a querela, va positivamente risolto alla luce della natura mista, sostanziale e processuale, di tale istituto, che costituisce nel contempo condizione di procedibilità e di punibilità. Infatti, il principio dell’applicazione della norma più favorevole al reo opera non soltanto al fine di individuare la norma di diritto sostanziale applicabile al caso concreto, ma anche in ordine al regime della procedibilità che inerisce alla fattispecie, dato che è inscindibilmente legata al fatto come qualificato dal diritto” (Cass., Sez. 3, n. 2733 dell’08/07/1997, Frualdo, Rv 209188, in tema di reati contro la libertà sessuale). Per converso, nessun dubbio vi sarebbe circa l’applicazione dell’art. 2 c.p., comma 4, ad ipotesi in cui un reato, procedibile ex officio al momento della commissione, divenga procedibile a querela in base ad una posteriore normativa di favore, e non sia presentata alcuna istanza punitiva nel termine eventualmente fissato dalla novella in questione.
Non va trascurato, inoltre, che l’operatività dell’istituto è espressamente contemplata dal D.Lgs. n. 28 del 2015 anche durante la fase delle indagini preliminari, potendo la particolare tenuità del fatto essere rilevata in sede di provvedimento di archiviazione. Tale esigenza era stata avvertita con chiarezza già in un primo progetto di riforma dell’aprile 2013, dove si era suggerito di inserire l’art. 131 bis quale ultima norma del Capo 4 del Titolo 4 del codice (piuttosto che, come poi accaduto, quale norma di apertura del successivo Titolo 5), recante la previsione che “non si procede quando (…) il fatto è di particolare tenuità”; nella relazione allegata al progetto de quo si dava atto di una espressa opzione volta a collocare la figura della tenuità del fatto nel quadro della procedibilità in modo da ottenere che risultati di “sbarramento” potessero realizzarsi già all’atto di assumere le determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale. Analogamente, anche nella relazione inerente un secondo progetto del dicembre 2013 si avvertiva che, costruito come incidente sulla procedibilità, l’istituto avrebbe avuto una maggiore capacità deflattiva, potendosene il P.M. avvalere ai fini della presentazione di una richiesta di archiviazione, mentre – ove strutturata come causa di non punibilità – la particolare tenuità del fatto avrebbe potuto essere dichiarata solo con sentenza.
Il legislatore del 2016, a ben guardare, ha licenziato una sorta di ibrido, tanto da aver determinato alcuni dei primi commentatori a segnalare che la particolare tenuità fungerebbe da causa di improcedibilità nel corso delle indagini preliminari (fino ad ipotizzare il diritto a rinunciarvi da parte dell’indagato, eventualmente interessato a far emergere la sua piena estraneità al fatto oggetto della notitia criminis) e da causa di non punibilità ad azione penale ormai esercitata. Soprattutto, appaiono di difficile interpretazione – nel doveroso tentativo di offrire una lettura unitaria delle varie implicazioni dell’istituto in argomento – le disposizioni aventi finalità adeguatrici della correlata normativa processuale.
Come detto, il D.Lgs. n. 28 del 2015 ha inserito fra le ipotesi di richiesta di archiviazione quella in cui la persona sottoposta a indagini non è punibile ai sensi del suddetto art. 131-bis, subito dopo quella – già contemplata nel testo previgente – della mancanza di una condizione di procedibilità: da un lato, potrebbe ritenersi che, se il nuovo istituto fosse stato da ricomprendere tra queste ultime, non vi sarebbe stata necessità di una simile specificazione;
dall’altro, però, una espressa previsione in tal senso induce alla conclusione che, ove da intendere come causa di esclusione della punibilità, il Pubblico Ministero possa chiedere l’archiviazione perchè il fatto è particolarmente tenue (consentendoglielo la lettera del nuovo art. 411 c.p.p.) ma non altrettanto sia legittimato a fare al cospetto di altre, e magari ben più evidenti, cause di non punibilità (si pensi al caso di un reato contro il patrimonio commesso in ambito endofamiliare). Cause, queste ultime, sinora agevolmente ricondotte nell’alveo onnicomprensivo delle ipotesi di infondatezza della notizia di reato: ed analogamente sarebbe stato possibile determinarsi, in presenza di un fatto di minima offensività, senza bisogno di apportare modifiche alla norma appena ricordata.
Inoltre, è necessario rilevare che la novella non ha interessato in alcun modo l’art. 530, rimanendo perciò identico il novero delle formule liberatorie ivi contemplate: soluzione, ancora una volta, che potrebbe apparire ragionevole, in quanto la sentenza di assoluzione era già espressamente prevista – anche – nell’ipotesi del reato commesso da persona non imputabile o “non punibile per un’altra ragione”. Potrebbe perciò ritenersi che, ove intervenga nel giudizio dibattimentale od a seguito dell’opzione dell’imputato per il rito abbreviato (stante il richiamo agli artt. 529 e ss., operato dall’art. 442, comma 1), la pronuncia che rilevi la causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p. debba essere di assoluzione: del resto, una sentenza assolutoria ben può intervenire anche nei confronti del soggetto immune, o della persona non imputabile, previo accertamento della responsabilità, tant’è che – mentre nelle altre formule liberatorie di cui all’art. 530 c.p.p. viene evocato il “fatto” (che non sussiste, al quale l’imputato è estraneo, o non costituisce reato) – per la persona non imputabile o non punibile per altra ragione si parla di “reato commesso”.
Tuttavia, ed ancora una volta, l’adeguamento della normativa processuale risulta muoversi in direzione del tutto opposta, considerando le modifiche (qui sì) intervenute a proposito dell’art. 469 c.p.p., nonchè l’introduzione del già ricordato art. 651 bis.
L’art. 469, comma 1 bis recita infatti che “la sentenza di non doversi procedere è pronunciata anche quando l’imputato non è punibile ai sensi dell’art. 131 bis c.p., previa audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare”; la particolare tenuità del fatto viene dunque, apertis verbis, ricollegata ad ipotesi di improcedibilità (inequivoco risultando, a riguardo, il riferimento ad una pronuncia che dichiari il “non doversi procedere”). L’art. 651 bis c.p.p., inoltre, prevede l’efficacia di giudicato – nei limiti sopra evidenziati – della sentenza irrevocabile di “proscioglimento” (non già di assoluzione) emessa a seguito di dibattimento o di opzione dell’imputato per il rito abbreviato.
Sembra dunque innegabile che le formule contemplate dalla novella con riguardo alle sentenze emesse in applicazione della norma in esame (di “non doversi procedere”, con riferimento alle ipotesi predibattimentali, ovvero di “proscioglimento” nei casi di pronunce dibattimentali od ex art. 442 c.p.p.) evochino la dimensione processuale dell’istituto, come a rivelare il disegno del legislatore delegato di conferire ad un istituto di taglio dichiaratamente sostanziale una più ampia portata applicativa sul piano processuale, per finalità di maggior deflazione.
Ritiene il collegio, allo stato delle attuali possibilità interpretative, che debbano trarsene le seguenti conclusioni:
- a) la tenuità del fatto è una causa di non punibilità, che tuttavia – a scopo deflattivo – viene disciplinata nelle sue implicazioni in rito come causa di improcedibilità, salva la necessità in ipotesi peculiari del non dissenso dell’imputato;
- b) il giudizio di tenuità in concreto dell’offesa ascrive una qualificazione giuridica al fatto contestato e può pertanto essere compiuto anche d’ufficio dalla Corte di Cassazione, sulla base dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice del merito;
- c) ove il fatto sia particolarmente tenue, deve essere disposta l’archiviazione del procedimento a prescindere da un accertamento di responsabilità (come prescrive l’art. 411 c.p.p.): e poichè la tenuità non sopravviene, ma certamente preesiste, in qualsiasi momento la si accerti, occorre dichiarare che l’azione penale non poteva essere esercitata, come impone l’art. 469 nel richiamare una sentenza di non doversi procedere e l’art. 651 bis nell’evocare il proscioglimento dell’imputato;
- d) l’accertamento della responsabilità, non previsto per la fase delle indagini preliminari, è espressamente previsto dall’art. 651 bis c.p.p. solo per la dichiarazione di improcedibilità nella fase del giudizio, per ragioni di economia processuale.
5.2 Circa l’applicabilità della norma al giudizio di cassazione, deve prendersi atto che la legge non contiene una disciplina transitoria.
Le pronunce già intervenute in materia, tuttavia, sembrano deporre univocamente per una chiara possibilità di applicazione dell’istituto: soluzione cui il collegio certamente aderisce. Si è già avvertito, del resto, che l’istituto in parola attiene all’offesa, e non al danno (l’entità del danno, ricavabile solo da accertamenti di merito, è solo uno degli elementi dai quali può desumersi la connotazione dell’offesa come tenue), sicchè la verifica della particolare tenuità del fatto viene a riguardare una qualificazione giuridica compatibile con il giudizio di cassazione.
La più volte citata sentenza Mazzarotto afferma che la causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p. “è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Suprema Corte può rilevare di ufficio ex art. 609 c.p.p., comma 2, la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata e, in caso di valutazione positiva, deve annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito” (RV 263308). Il caso riguardava una ipotesi di reato ex D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, commesso al fine di evadere le imposte dirette e sul valore aggiunto, per un importo complessivo di 466.953,95 euro: la valutazione negativa circa la prospettiva di un annullamento con rinvio al giudice di merito, al fine della verifica della concreta sussistenza degli elementi fondanti la peculiare tenuità, risulta espressa sul rilievo che la Corte territoriale aveva ritenuto “pienamente giustificata l’irrogazione di una pena in misura superiore al minimo ed il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (…), operando quindi una valutazione che esclude a priori ogni successiva valutazione in termini di particolare tenuità dell’offesa”.
Analogamente, in un caso di lesioni colpose derivanti dalla contestata violazione della normativa antiinfortunistica, la Sezione Quarta ha ribadito che, in vista dell’applicazione della norma in argomento, la Corte di legittimità (dopo il primo riscontro afferente i limiti edittali di pena di cui alla norma incriminatrice) “deve verificare la ricorrenza congiunta della particolare tenuità dell’offesa e della non abitualità del reato. Nell’effettuare questo secondo apprezzamento, il giudice di legittimità non potrà che basarsi su quanto emerso nel corso del giudizio di merito, tenendo conto, in modo particolare, dell’eventuale presenza, nella motivazione del provvedimento impugnato, di giudizi già espressi che abbiano pacificamente escluso la particolare tenuità del fatto”.
La conclusione, in quella vicenda, è stata quindi nel senso che “all’accoglibilità della richiesta ostano alcuni dati emergenti dalla decisione, indicativi di un apprezzamento sulla “gravità del fatto” che non consentono di ritenere astrattamente configurabili i presupposti per la non punibilità: è vero che è stata applicata la sola pena pecuniaria, previa concessione delle attenuanti generiche, ma questa è stata applicata partendo dal massimo edittale; inoltre, la connotazione della colpa addebitata al datore di lavoro, afferente la mancata fornitura ai lavoratori dei mezzi di protezione, presenta ex se profili di obiettiva rilevanza, ostativi alla astratta configurabilità della particolare tenuità” (Cass., Sez. 4, n. 22381 del 17/04/2015, Mauri).
Sulla stessa linea, ancora la Sezione Terza ha avuto modo di rilevare che “la questione relativa alla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131 bis c.p., è rilevabile nel giudizio di legittimità, a norma dell’art. 609 c.p.p., comma 2, se non è stato possibile proporla in appello, ma la sua prospettazione non implica necessariamente l’annullamento della sentenza impugnata, dovendo invece la relativa richiesta essere rigettata ove non ricorrano le condizioni per l’applicabilità dell’istituto” (Cass., Sez. 3, n. 21474 del 22/04/2015, Fantoni, Rv 263693: il caso riguardava reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10 bis e 10-ter, per omesso versamento all’Erario di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituti d’imposta, per un ammontare complessivo di 151.800,00 Euro).
Nella motivazione di una successiva pronuncia, già menzionata con riguardo alla ritenuta prevalenza della prescrizione, quale causa di estinzione del reato, rispetto all’istituto introdotto dalla novella, la stessa Sezione Terza afferma che “il D.Lgs. in esame non contiene alcuna disciplina transitoria e (…), trattandosi di norma più favorevole, va fatto richiamo ai principi generali in tema di successione delle norme nel tempo ex art. 2 c.p., comma 4 (…).
Così come è vero che, in ipotesi siffatte, è da ritenersi consentita alla Corte di Cassazione la possibilità di intervenire ex officio, indipendentemente quindi dalla tardivita della memoria contenente la richiesta dell’imputato o anche in assenza di esso, in relazione al disposto di cui all’art. 609 c.p.p., comma 2 che prevede un intervento decisorio della Corte Suprema su questioni (oltre che rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo) “che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello”” (Cass., Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, Sorbara).
Ferma restando la conferma della astratta rilevabilità della questione, altre pronunce hanno poi escluso la ravvisabilità di ipotesi di particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. in fattispecie concrete peculiari: ad esempio, in caso di già negato riconoscimento della circostanza attenuante della lieve entità, ai sensi della L. n. 110 del 1975, art. 4, comma 3, relativamente al porto di oggetti atti ad offendere (v. Cass., Sez. 1, n. 27246 del 21/05/2015, Singh), ovvero “in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, e giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il reato continuato una ipotesi di “comportamento abituale”, ostativa al riconoscimento del beneficio” (v. Cass., Sez. 3, n. 29897 del 28/05/2015, Gau, Rv 264034).
5.3 Come appena visto, un costante parametro normativo per ritenere proponibile nel giudizio di legittimità la questione della particolare tenuità del fatto è costituito dall’art. 609, comma 2;
la sentenza Sorbara, peraltro, giunge alla condivisibile affermazione di principio che la Corte di Cassazione possa rilevare detta questione anche d’ufficio, pure in mancanza di sollecitazioni di parte o dinanzi a memorie tardive.
Se quello disciplinato dall’art. 609 cpv. c.p.p. è, innegabilmente, lo strumento praticabile per consentire al giudice di legittimità – nel regime transitorio, non disciplinato ex lege – di affrontare il tema dell’applicabilità del nuovo istituto, occorre tuttavia verificare anche quali possano essere i conseguenti epiloghi decisori. In tutte le ipotesi affrontate da questa Corte nelle decisioni sopra passate in rassegna, la prospettiva paventata era senz’altro quella – ferma restando la possibilità, generalmente emersa, di escludere la possibile ricorrenza della causa di esclusione della punibilità in virtù di elementi già evidenziati nelle fasi di merito – del possibile annullamento con rinvio:
soluzione che nella odierna fattispecie concreta non sembra necessario percorrere, dal momento che, come più volte sottolineato, il Gip del Tribunale di Busto Arsizio ha già abbondantemente valicato quella che si è sopra definita la linea di confine inferiore, in punto di tipicità correlata all’offesa, della norma incriminatrice del furto.
5.4 Deve notarsi che l’art. 129 c.p.p. (norma, a questo punto, di intuitivo richiamo) non risulta interessato da modifiche di sorta per effetto dell’intervento normativo in esame: ed il rilievo impone di tornare ancora una volta sull’inquadramento dogmatico dell’istituto oggetto di esame.
Si è avvertito in precedenza che, ad avviso del collegio, l’art. 131- bis c.p. descrive una causa di esclusione della punibilità che è però trattata come causa di improcedibilità: non è, comunque, in senso tecnico, una condizione di procedibilità, il che preclude la prospettiva di invocare il citato art. 129 ai fini di una declaratoria immediata, atteso che quest’ultima norma contempla le ipotesi in cui il giudice “riconosce che il fatto non sussiste, o che l’imputato non lo ha commesso, o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità”.
A identiche conclusioni, peraltro, dovrebbe pervenirsi anche laddove si ritenga che il nuovo istituto sia disciplinato come una causa di esclusione della punibilità. Vero è che, secondo un approccio esegetico già adottato in alcune pronunce di questa Corte, una decisione liberatoria ex art. 129 potrebbe nondimeno essere assunta (anche dal giudice di legittimità, ed ammettendosi una interpretazione estensiva od analogica della norma) in presenza di una causa di non punibilità: l’orientamento appena evocato è stato adottato, ad esempio, in tema di provocazione ex art. 599 c.p., comma 2, (v. Cass., Sez. 5, n. 25155 del 15/02/2005, Sampaolesi), ovvero in applicazione dell’art. 598 c.p., con una pronuncia (Cass., Sez. 6, n. 15955 del 01/03/2001, Fiori) nella cui motivazione si legge che “la formula “perchè il fatto non costituisce reato” è stata sempre intesa come comprendente anche le cause di non punibilità; e, d’altronde, un’interpretazione diversa comporterebbe (…) fondati dubbi sotto il profilo della legittimità costituzionale, traducendosi in disparità di trattamento difficilmente giustificabili sotto il profilo della logica e della razionalità”.
Tuttavia, non può ritenersi che – con specifico riferimento all’istituto di cui all’art. 131-bis c.p., e comunque lo si voglia riguardare – tale percorso sia praticabile, dal momento che in sede di lavori preparatori all’emanazione del D.Lgs. n. 28 del 2015 era stata espressamente elaborata una modifica dell’art. 129 c.p.p., proprio inserendo fra le altre ipotesi ivi contemplate quella disegnata dal nuovo art. 131-bis: modifica, dunque, annunciata, ma poi abbandonata all’atto di licenziare il testo definitivo, e che non può non valere quale precisa e consapevole opzione del legislatore nel senso di escludere la possibilità di fare ricorso all’art. 129 al fine di rilevare la particolare tenuità del fatto come causa di non punibilità (prevedendo detta norma processuale, già in rubrica, un obbligo di immediata declaratoria solo in ordine a “determinate” cause di non punibilità).
5.5 Alla luce dei principi sopra affermati, lo strumento di immediata applicazione che il codice di rito fornisce a questa Corte, in vista di una pronuncia di annullamento senza rinvio che appare coerente alle più volte sottolineate finalità deflattive della riforma, è soltanto uno. Ci si intende riferire all’art. 620, che alla lett. a) – ancora una volta imponendo all’interprete di privilegiare le anzidette implicazioni processuali del nuovo istituto – contiene uno specifico riferimento ai casi in cui l’azione penale non avrebbe dovuto essere iniziata (o proseguita).
In definitiva, deve ritenersi che la particolare tenuità del fatto possa essere rilevata anche ex officio dalla Corte di Cassazione, con annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, laddove questa – come pacificamente si riscontra nella fattispecie odierna – consenta di ravvisare ictu oculi la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 131-bis c.p.: l’attività richiesta al giudice di legittimità, in tal caso, non può intendersi verifica di merito, ma piuttosto semplice valutazione della corrispondenza del fatto, nel suo minimum di tipicità, al modello legale di una fattispecie incriminatrice, come la disciplina del nuovo istituto impone nella fase del giudizio (prescindendone invece nel corso delle indagini preliminari).
5.6 Quanto, infine, al profilo della necessaria interlocuzione con le parti private, generalmente prevista dal D.Lgs. n. 28 del 2015 in vista dell’applicazione dell’art. 131 bis c.p., deve rilevarsi che il giudizio di cassazione si fonda comunque sul principio del contraddittorio, sia pure attraverso la partecipazione esclusiva dei difensori, senza dunque che si imponga l’adozione di specifiche formalità per consentire alla persona offesa una partecipazione ulteriore rispetto a quella già garantita dalla generale facoltà di depositare memorie.
Nel caso di specie, del resto, deve ribadirsi che non si determinano pregiudizi di sorta per alcuna delle parti, non essendosi celebrato un giudizio dibattimentale, nè svolto un processo nelle forme di cui all’art. 438 e segg..
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perchè l’azione penale non poteva essere esercitata, trattandosi di persona non punibile ai sensi dell’art. 131-bis c.p..
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2016