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Non c’è responsabilità del datore di lavoro laddove l’infortunio del lavoratore sia da ricondurre unicamente al suo comportamento negligente.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Non c’è responsabilità del datore di lavoro laddove l’infortunio del lavoratore sia da ricondurre unicamente al suo comportamento negligente.

Non sempre il datore di lavoro è l’unico responsabile degli infortuni sul lavoro. Una precisa ricostruzione dei fatti porta oggi, la IV Sezione Penale ad assolvere i ricorrenti dall’accusa di “omesse cautele sul lavoro”, a fronte dell’inequivocabile comportamento negligente del lavoratore.

La vicenda prende le mosse da un incidente avvenuto in un’azienda romana, causato, secondo la vittima, dalla mancata predisposizione di adeguate cautele necessarie alla prevenzione degli infortuni sul lavoro. A seguito dell’evento dannoso, all’amministratore unico della ditta e al responsabile del servizio di prevenzione e protezione della società, venivano addebitati i reati di cui agli art. 113 e 590 commi 1-3 c.p.. L’accusa sosteneva che i due soggetti, in cooperazione colposa, avevano omesso di predisporre i necessari apprestamenti di sicurezza, prima di procedere all’utilizzo del piano di copertura come piano di lavoro, per l’esecuzione dei lavori di realizzazione di linee elettriche di alimentazione per la successiva messa in opera di fari all’interno dei locali della ditta. Pertanto la vittima, elettricista manutentore, nell’effettuare tali lavori e nel procedere al pedinamento dell’estradosso di lastre di fibrocemento, a causa del cedimento di un elemento, precipitava al suolo da un’altezza di 6mt., cagionandosi diverse lesioni personali.

Mentre in primo grado, il Tribunale assolveva gli imputati perché il fatto non sussiste; in appello la situazione viene completamente ribaltata dando ragione al lavoratore. Da ciò gli imputati soccombenti ricorrono in Cassazione chiedendo: la verifica del rispetto dell’obbligo di corretta motivazione della sentenza e dei criteri adottati per la valutazione complessiva delle prove acquisite. Il Supremo Collegio, in accordo con quanto sancito in primo grado, sottolinea un travisamento delle prove da parte della Corte d’Appello.

In primo grado, il giudice si era soffermato sulle dichiarazioni rese dai soggetti coinvolti e dalla vittima, dalle quali emergeva la concreta ipotesi di effettuare i lavori attraverso un elevatore, messo correttamente a disposizione dai responsabili, e non anche la necessità di salire sul tetto. A ciò si aggiungeva che l’elettricista in questione era soggetto particolarmente qualificato, visto che era stato nominato responsabile della sicurezza dei lavoratori nella sua azienda. Pertanto, secondo il giudice, la scelta di salire sul tetto, abbandonando l’elevatore, era stata incauta e imprevedibile e, probabilmente dettata dalla necessità di ridurre i tempi lavorativi per meglio posizionare i fili.

Sul punto la Corte interviene in modo incisivo, ricordando quanto affermato dalle SS.UU. ThyssenKrupp del 2014 in tema di colpa. Invero, la necessaria prevedibilità dell’evento non può riguardare nello specifico tutte le sue più minute articolazioni ma, deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo. Inoltre secondo l’orientamento ormai dominante in giurisprudenza, in riferimento alla normativa antinfortunistica:gli obblighi di vigilanza non sono più interamente rivolti al datore di lavoro ma sono ripartiti in un’ottica “collaborativa” tra più soggetti, compresi i lavoratori. Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato ma, una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.

 

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 10-02-2016) 03-03-2016, n. 8883

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Presidente –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. CAPPELLO Gabriella – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. TANGA Antonio Leonardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.L. N. IL (OMISSIS);

T.M.G. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 3489/2011 CORTE APPELLO di ROMA, del 17/04/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/02/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;

Udito il difensore Iacovoni Claudio Cesare, per entrambi i ricorrenti, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

  1. La Corte di Appello di Roma, pronunciando nei confronti degli odierni ricorrenti S.L. e T.M.G., con sentenza del 17.4.2014, in riforma della sentenza del Tribunale di Rieti sezione distaccata di Poggio Mirteto, emessa in data 18.3.2010, appellata dalla parte civile Se.Pi., li condannava, in solido, al risarcimento del danno in favore della parte civile, rimettendo per la liquidazione le parti al competente giudice civile.

Il G.M. del Tribunale di Rieti sezione distaccata di Poggio Mirteto, aveva assolto S.L. e T.M.G., perchè il fatto non sussiste, dai seguenti reati:

  1. a) del reato di cui all’art. 113 c.p., e 590 c.p., commi 1 e 3, poichè, in cooperazione colposa tra loro, S.L. nella qualità di amministratore unico della ditta “SATER ALWAYS s.r.l” con sede legale in (OMISSIS), T.M. G. di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei lavoratori della predetta società, per colpe consistita in imprudenza e violazione, della normativa sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, ed in particolare nell’avere, nelle rispettive qualità sopra indicate, omesso di predisporre i necessari apprestamenti di sicurezza prima di procedere all’utilizzo del piano di copertura come piano di lavoro per l’esecuzione dei lavori di realizzazione di linee elettriche di alimentazione per la successiva posa in opera di fari all’interno dei locali della ditta “SDI INTERNATIONAL s.r.l.”, cagionavano a SE.Pi., dipendente della “SATER ALWAYS s.r.l.” con la qualifica di elettricista manutentore, il quale, nell’effettuare i lavori sopra descritti, procedeva al pedinamento dell’estradosso di lastre in fibrocemento, poste a copertura di un edificio industriale, a causa del cedimento di un elemento precipitava al suolo da un’altezza di circa 6 mt.

lesioni personali clinicamente refertate in trauma cranico, toracico e degli arti, dalle quali derivava una malattia della durata superiore a giorni quaranta. Reato commesso in (OMISSIS);

  1. b) del reato di cui all’art. 113 c.p., P.R. n. 164 del 1956, art. 70 e art. 77, lett. b), poichè, in cooperazione colposa tra loro, nella qualità indicata nel superiore capo a) di imputazione, mettevano di predisporre i necessari apprestamenti di sicurezza prima di procedere all’utilizzo del piano di copertura come piano di lavoro per l’esecuzione di attività finalizzata alla realizzazione di linee elettriche di alimentazione per la successiva posa di fari. Reato accertato in (OMISSIS).
  2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, con unico atto, a mezzo del proprio difensore di fiducia, S. L. e T.M.G., deducendo, i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
  3. Mancanza parziale, contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza, in relazione: A) all’omessa valutazione di controprove dichiarative decisive assunte nel corso dell’istruttoria dibattimentale (mancanza parziale); B) al parziale travisamento del fatto (contraddittorietà); C) alle incongruenze logiche ed all’incoerenza delle conclusioni rispetto ai dati probatori processuali raccolti e disponibili (illogicità); D) alla violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 1, non essendo stato dato conto del criterio adottato nella valutazione complessiva delle prove testimoniali assunte, ma non vagliate, nell’istruttoria dibattimentale;

La sentenza impugnata avrebbe completamente disatteso -secondo la tesi prospettata in ricorso- tutte le circostanze emerse nell’approfondita istruttoria dibattimentale compiuta in primo grado.

Da tale attività istruttoria sarebbe emerso che la causa dell’infortunio è da imputare esclusivamente al comportamento negligente, avventato, imprudente e abnorme del lavoratore, vittima dell’infortunio.

La corte di appello, invece, avrebbe completamente ribaltato le risultanze oggettive del processo, con una motivazione parzialmente mancante, illogica e contraddittoria. In alcuni casi sarebbero state operate delle incontrovertibili e gravi distorsioni del contenuto probatorio, in altri sarebbero stati accantonati fatti oggettivi e pacifici. Vi sarebbe stato un evidente travisamento dei fatti e delle prove.

I ricorrenti analizzano gli addebiti contestati per confutarne il fondamento e dimostrare l’avvenuto travisamento.

Si sottolinea, in particolare, che la sentenza avrebbe contestato l’estrema superficialità del comportamento degli imputati, che affidavano il lavoro al Se. senza effettuare alcun sopralluogo. Dall’istruttoria dibattimentale, invece, sarebbe emerso esattamente il contrario. La sentenza di primo grado, infatti, a pagina 6, dà conto della presenza frequente del S. sui luoghi.

I ricorrenti riportano le dichiarazioni rese dagli imputati, che riferivano di avere visionato o comunque di conoscere bene i luoghi.

Ed evidenziano come da nessuna dichiarazione o testimonianza sarebbe emerso che gli imputati non avessero effettuato un sopralluogo e come la stessa parte lesa abbia dichiarato di non sapere se gli imputati avessero effettuato un sopralluogo.

Pertanto, la circostanza che gli imputati non avessero effettuato alcun sopralluogo sarebbe stata recepita in modo acritico, senza il necessario vaglio di fondatezza e riscontro, da quanto sostenuto nell’atto di appello della parte civile.

Anche l’affermazione relativa all’estrema superficialità del comportamento del S. e del T., che non avrebbero impartito le necessarie disposizioni e non avrebbero disposto le necessarie misure di sicurezza, sarebbe illogica, contraddittoria e frutto di un evidente travisamento.

I ricorrenti precisano di non chiedere a questa Corte di verificare le risultanze probatorie al fine di verificare la sussistenza di una diversa ricostruzione dei fatti, ma di verificarle per accertare il rispetto dell’obbligo di corretta motivazione, nonchè i criteri adottati per la valutazione complessiva delle prove acquisite.

Sarebbe necessario, ad avviso degli stessi, ripercorrere il compendio storico-fattuale al fine di evidenziare l’effettivo comportamento degli imputati nella vicenda.

Il comportamento degli imputati nella vicenda sarebbe stato completamente diverso da quello descritto nella sentenza di appello.

I ricorrenti descrivono compiutamente le vicende processuali, evidenziando l’avvenuta adozione di tutte le necessarie precauzioni di sicurezza e come nessuna mancanza o deficienza nei mezzi apprestati possa essere oggettivamente addebitata, a meno di non voler accollare l’evento agli stessi a titolo di responsabilità automatica ed oggettiva. Ed ancora, pongono l’accento su come non sarebbe mai emersa nel corso del procedimento la circostanza della conoscenza da parte degli imputati della volontà del Se. di effettuare il lavoro mediante pedinamento del tetto in eternit.

Il comportamento degli imputati sarebbe stato corretto, adeguato e rispettoso delle norme antinfortunistiche, immune da qualsiasi profilo di colpa.

La motivazione della sentenza impugnata avrebbe ritenuto accertate le circostanze che i lavori eseguiti da Se., dovessero essere svolti sul tetto e che la scelta dei mezzi e delle modalità di esecuzione fossero state rimesse alla scelta del dipendente che se ne assumeva la responsabilità spettante al datore di lavoro.

Sarebbe addirittura stato messo in dubbio quanto dichiarato dal tecnico del servizio di prevenzione della ASL, che dichiarava che il lavoro poteva e doveva essere svolto a bordo dell’elevatore Manitou e che il pedinamento del tetto era inutile per il tipo di lavoro da eseguire.

La sentenza avrebbe omesso di valutare, pertanto, la controprova dichiarativa a favore degli imputati, sulla scorta di un palese e oggettivo travisamento dei fatti appurati e delle prove assunte.

Tale omessa valutazione si baserebbe su due circostanze errate: che So.Se. scese dall’elevatore e camminò sul tetto per mostrare come collocare i cavi e che le fotografie in atti testimoniassero uno stato dei luoghi che richiedeva un camminamento sul tetto.

Viene evidenziato che, tra le foto acquisite, non ve ne sarebbe nessuna che mostri il tetto dal di sopra.

Tutte le foto sarebbero state riprese dall’interno del capannone.

I ricorrenti riportano le testimonianze assunte nel giudizio di primo grado e, in relazione alla testimonianza del Se. i ricorrenti ne evidenziano la mancanza di credibilità, in quanto contraddetta dalle altre deposizioni testimoniali. Danno poi conto delle deposizioni testimoniali del maresciallo D.L., di So.Se., di V.G. e di B.L. ponendo in evidenza le risultanze delle stesse che andrebbero in contrario avviso rispetto all’operata affermazione di responsabilità.

  1. Inosservanza – in relazione al profilo della mancata applicazione – della legge penale, nella fattispecie del combinato disposto dell’art. 40 c.p. e art. 41 c.p., comma 2, sotto il profilo del mancato riconoscimento dell’insussistenza dell’elemento sia oggettivo che soggettivo del reato di cooperazione in lesioni personali colpose, alla luce dell’interruzione del nesso di causalità tra la condotta dei due imputati e l’evento verificatosi dovuta alla presenza di una condotta abnorme posta in essere dalla persona offesa.

La motivazione della sentenza di secondo grado avrebbe sottolineato che il comportamento tenuto dal lavoratore non fosse connotato da elementi di abnormità.

La sentenza di primo grado, la richiesta di assoluzione avanzata dal Pubblico Ministero del primo giudizio e il mancato sostegno del Procuratore Generale all’appello farebbero ritenere, invece, che nella fattispecie fosse oggettivamente sussistente un comportamento del tutto imprevedibile, eccezionale, avventato ed abnorme da parte del lavoratore.

Dall’istruttoria dibattimentale sarebbero emerse l’assoluta correttezza del comportamento degli imputati e la condotta imprudente della parte lesa.

Gli imputati avevano scelto di far eseguire il lavoro a bordo dell’elevatore, mettendo a disposizione tutte le necessarie attrezzature ed impartendo le direttive organizzative e le precise modalità con cui svolgere il lavoro.

La parte lesa, inoltre, non avrebbe mai manifestato alcuna remora sull’esistenza di potenziali pericoli o su difficoltà ad eseguire il lavoro.

L’unica causa dell’incidente non può che considerarsi il comportamento tenuto dal Se., del tutto imprevedibile e non ipotizzabile.

Inoltre il lavoratore avrebbe violato gli obblighi impostigli, tenendo una condotta abnorme che avrebbe costituito una causa sopravvenute da sola sufficiente a determinare l’evento.

Chiedono, pertanto: a. in via principale: annullarsi senza rinvio la sentenza impugnata – come sopra indicata e specificata – esaurendo il thema decidendum, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. 1), in ossequio ai principi di economia processuale e di ragionevole durata del, processo, qualora questa Corte Suprema ritenga la superfluità del giudizio di rinvio dovuta alla circostanza che nella sentenza impugnata emergono elementi sufficienti a ritenere il fatto non sussistente e/o gli imputati non responsabili; b. in via subordinata, annullarsi con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma la sentenza impugnata al fine di consentire un nuovo giudizio ed una nuova valutazione sul merito dei fatti oggetto del presente procedimento.

 

Motivi della decisione

 

  1. Le doglianze sopra illustrate sono fondate, per i motivi che si andranno ad evidenziare, e pertanto la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, con assoluzione degli odierni imputati perchè il fatto non costituisce reato, emergendo palese l’insussistenza in capo agli stessi dell’elemento psicologico del contestato reato.
  2. Va evidenziato, in primo luogo, che la sentenza di appello, che, seppure per i soli effetti civili, essendo nel frattempo maturata la prescrizione del reato, afferma la responsabilità degli odierni ricorrenti, non pare ad avviso del Collegio confrontarsi in maniera logica e congrua con le diverse conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado.

Com’è stato analiticamente ribadito in un recente, condivisibile, arresto di questa Corte (sez. 2, n. 677 del 10.10.2014 dep. il 12.1.2015, Di Vincenzo, rv. 261556) la radicale riforma, in appello, di una sentenza di assoluzione non può essere basata su valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualificate da pari o persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo grado, ma deve fondarsi su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineata situazione di conflitto valutativo delle prove.

Va ricordato, infatti, che il giudizio di condanna presuppone la certezza processuale della colpevolezza, mentre all’assoluzione deve pervenirsi in tutti quei casi in cui vi sia la semplice “non certezza” – e, dunque, anche il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza (così sez. 6, n. 20656 del 22.11.2011, dep. il 28.5.

2012, De Gennaro ed altro, rv. 252627).

Nello specifico, il principio in ragione del quale la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, formalmente introdotto nell’art. 533 cod. proc. pen., comma 1, L. n. 46 del 2006, “presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza” (sez. 6, n. 40159 del 3.11.2011, Galante, rv. 251066, e n. 4996 del 26.10.2011, dep. il 9.2.2012, Abbate ed altro, rv 251782).

  1. Perchè possa addivenirsi alla riforma in appello di una assoluzione deliberata in primo grado non è, pertanto, sufficiente prospettare una ricostruzione dei fatti connotata da uguale plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, bensì è necessario che la ricostruzione in ipotesi destinata a legittimare – in riforma della precedente assoluzione – la sentenza di condanna sia dotata di “una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza” (così la citata sez. 2 n. 677/2015).

Ebbene, se questi sono i principi giuridici di riferimento, la Corte territoriale effettivamente -come lamentano i ricorrenti- non pare fare buon governo degli stessi.

Non si spiega, ad esempio, il giudizio per cui, dato per pacifico da entrambi i giudici di merito, che il posizionamento dei faretti potesse essere operato utilizzando l’elevatore Manitou che il datore di lavoro dell’operaio gli aveva messo a disposizione, la Corte territoriale sia giunta alla diversa conclusione per il corretto posizionamento dei relativi cavi, giudicando alquanto apoditticamente le risultanze della testimonianza di un soggetto altamente qualificato in materia e senz’altro terzo rispetto ai fatti, qual è il tecnico del Dipartimento di Prevenzione e del Servizio di Protezione e Sicurezza degli Ambienti del Lavoro della ASL RMF V.G., “un’opinione che appare contrastata, oltre che dallo stato dei luoghi evidenziato dalle fotografie allegate agli atti, anche dalla deposizione del So.” (così a pag. 5 del provvedimento impugnato).

  1. Siamo di fronte, ad avviso del Collegio, ad un’ipotesi di travisamento della prova, certamente sindacabile in questa sede.

Va rilevato, infatti, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che la novella in questione non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento.

Permane, nell’attuale sistema, perciò, la non deducibilità, nel giudizio di legittimità, del travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr., ex multis, sez. 6, n. 25255 del 14 febbraio 2012, rv. 253099).

Tuttavia, la mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. “travisamento della prova” (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purchè siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato (cfr. sez. 2, n. 677 del 10.10.2014 dep. il 12/01/2015., Di Vincenzo, rv. 261556).

Ebbene, è proprio quanto accaduto nel caso che ci occupa.

  1. La dinamica dell’incidente è incontestata.

Il giorno dei fatti il Se., dipendente della SATER ALWAYS da 5 anni con la qualifica di elettricista manutentore, si è recato su incarico della propria azienda presso un capannone della SDI International ove doveva, all’esterno, montare dei faretti; qui lo stesso era salito, a mezzo di un elevatore oleodinamico (trattasi del cestello con braccio meccanico che porta gli operai nelle parti alte ove si deve operare) messogli a disposizione dalla SDI, sopra il tetto; una volta sul tetto il Se. ha camminato sopra delle lastre di fibrocemento ivi presenti – poste ad unire i cordoli di cemento che costituiscono l’ossatura del tetto – che cedendo ne hanno provocato la sua caduta, da un’altezza di circa 6/7 metri, che ha prodotto le gravi lesioni indicate nel capo a) di imputazione.

In particolare, dalle dichiarazioni rese dal Se. ed anche da So.Se., responsabile per la sicurezza della SDI International, è emerso che il 7.12.2007 il Se. si era recato presso la SDI, su incarico del suo datore di lavoro S. L., amministratore unico della SATER ALWAYS, in quanto doveva fare un sopralluogo in relazione a dei lavori di manutenzione ed installazioni di fari sul capannone ivi presente.

In questa occasione, il Se. ed il So. erano saliti sull’elevatore per effettuare una ricognizione sui lavori che dovevano essere realizzati.

Al riguardo, come rilevano i giudici del merito, vi è una differenza tra il racconto del Se. e quello del So. in quanto, a detta del primo, i due salivano anche sul tetto passando sopra quelle lastre che il giorno dopo sarebbero cedute provocando l’infortunio per cui è processo; diversamente a detta del So. solo lui saliva sul tetto per altri motivi (doveva controllare i condizionatori), ma senza camminare sulle lastre restando nei cordoli di cemento.

  1. Correttamente, dunque, il giudice di primo grado aveva individuato come punto centrale del thema decidendi, nelle diverse versioni ascoltate dai testi, quello di capire la necessità o meno per il Se. di salire su quel tetto. E di comprendere se avesse detto il vero l’elettricista, che poi era caduto sfondando il tetto, quando aveva riferito che nel sopralluogo del giorno prima fatto con il So. si era capito che era necessario fare i lavori salendo sul tetto e che di questa esigenza ne aveva parlato con T. M.G., altro odierno ricorrente, che era il responsabile del servizio prevenzione e protezione dei lavoratori della SATER ALWAYS. Il Se. aveva aggiunto, poi, che l’elevatore doveva servire solo a portarlo sul tetto dal quale avrebbe dovuto svolgere tutti i lavori.

Ebbene, il giudice di primo grado, con motivazione assolutamente logica, aveva, però, rilevato che tale ricostruzione dei fatti non risultava dalle sole dichiarazioni della parte lesa, mentre ad una soluzione diversa portavano le altre testimonianze e la logica dei luoghi.

Innanzitutto, veniva posto il rilievo come il So. avesse indicato che, dovendo i lavori avere ad oggetto l’installazione di faretti da apporre nella parte frontale – perimetrica esterna – del capannone, non era possibile svolgere gli stessi dal tetto ma era necessario, come verificato anche con il Se. il giorno 7, usare unicamente l’elevatore. Anche la presa della corrente alla quale collegare questi faretti era poi presente sempre in questa parte esterna del capannone, per cui era assolutamente verosimile che tutto il lavoro potesse e dovesse essere effettuato a mezzo dell’elevatore messo a disposizione, a mezzo anche di un operatore, dalla SDI. Per quanto riguarda i fili – differentemente da quanto dice la Corte di Appello – il giudice di primo grado ricorda come So. avesse ricordato che si era stabilito che gli stessi sarebbero stati posati sul tetto dall’elevatore dietro il muretto presente nella parte periferica del capannone.

In ordine alla possibilità che i fili potessero essere collocati dall’elevatore e senza salire sul tetto – ricordava ancora il giudice di primo grado – si era espresso anche l’ispettore della ASL, V.G., intervenuto sul posto nella immediatezza dei fatti, che aveva indicato come l’impianto interessasse la parte perimetrica del capannone e come, per la sua posa in opera, fosse necessario iniziare dalla parte bassa dell’edificio, per poi salire in quota. Aveva poi aggiunto che per svolgere quei lavori era necessario e sufficiente usare l’elevatore oleodinamico con piattaforma che, in effetti, era presente sul posto. E che ciò fosse possibile il V. aveva anche dichiarato di avere provato, con esito positivo.

Il giudice di primo grado aveva anche ricordato come l’ispettore della ASL avesse precisato specificamente che anche la canalizzazione dei fili poteva avvenire dall’elevatore senza necessità di salire sul tetto. Inoltre, la corrente doveva essere presa da una parte esterna del fabbricato, sempre accessibile a mezzo dell’elevatore messo a disposizione dalla SDI, che rispettava gli standard di sicurezza anche in relazione al lavoro da effettuare.

Si tratta, dunque, di qualcosa che va ben oltre quelle che la Corte territoriale ha liquidato come “un’opinione”.

Pare dunque, effettivamente omessa o comunque travisata la valutazione di una prima prova decisiva: la possibilità che tutte le operazioni fossero svolte dall’elevatore Manitou di cui l’operaio era dotato e che tale modalità era quella concordata con la SDI. 7. Altro elemento che non pare rispondere alle risultanze processuali è quello che attiene alla contestazione agli odierni ricorrenti, nelle rispettive qualità, di non avere effettuato alcun sopralluogo sul posto dove il Se. avrebbe dovuto svolgere il suo lavoro, cioè nel capannone all’interno della SDI International.

I giudici di merito danno atto di come sia emerso che la sera, dopo avere operato egli stesso il sopralluogo con il So., il Se. ebbe a parlare al telefono con il T., esponendogli il lavoro da fare e richiedendogli le attrezzature a ciò necessarie. Incontestato è che, per tutta risposta, il T. gli disse di prendere in magazzino tutto quanto gli occorreva (attrezzature di lavoro e di sicurezza). In tale occasione – secondo la ricostruzione dei giudici di merito – il Se.

manifestava – a sua detta – al T. unicamente delle difficoltà del lavoro in un determinato lato ove poteva essere pericoloso accedere; e perciò il T. gli disse di iniziare dall’altra parte. Poi si sarebbe deciso come fare per quel lato dal Se. indicato come pericoloso.

Il giorno dopo il Se., che ha dichiarato di lavorare per la SAFER ALWAYS dal 2002 e di aver svolto (fino al momento dell’incidente) quel tipo di lavori – in altezza – quasi tutti i giorni, prima prese tutte le attrezzature che ritenne necessarie – anche dal punto di vista della sicurezza – e, poi, si recò presso il capannone ove, a mezzo dell’elevatore, salì sul tetto per, poi, cadere come già indicato.

Ebbene, circa la conoscenza dei luoghi da parte degli odierni imputati, il S. ha dichiarato -e non sono emersi elementi atti a smentirlo- che si recava spesso (circa una volta a settimana) presso la SDI, con la quale aveva un rapporto da anni, e che, in una di quelle occasioni, gli era stato chiesto di fare questo lavoro di posa dei faretti; lavoro che doveva essere effettuato a mezzo dell’elevatore che la SDI avrebbe – come in accordo con essa – messo a disposizione, con anche una persona addetta alla sua manovra. Il tutto non essendosi mai ipotizzato che il lavoratore addetto a questi lavori sarebbe dovuto salire sul tetto.

Il T. dal suo canto, che è incontestato avere parlato con il Se. la sera prima dell’incidente e di avergli detto di prendere quanto gli occorreva, ha riferito – anch’egli senza essere mai smentito – che nessuna necessità di impalcatura esterna gli era stata prospettata, dovendo il lavoratore usare l’elevatore ivi presente e messo a disposizione dalla SDI. Corretta, coerente e logica appare, dunque, la conclusione cui era pervenuto il giudice di prime cure di ritenere come, dal compendio probatorio acquisito, non apparisse possibile sostenere che quei lavori dovevano essere svolti dal tetto e non lo potessero, invece, dall’elevatore. E come risultasse anche difficile ipotizzare che il Se. avesse – come dallo stesso affermato ma negato dal So. – il giorno prima camminato sulle lastre di eternit ivi presenti e che avesse pensato di svolgere quel lavoro con una tale condotta. Ciò perchè, come evidenzia il giudice di primo grado, anche solo dalle foto si nota come si trattasse di lastre spesse pochi millimetriche, chiaramente inidonee a reggere, anche per pochi secondi, il peso di un uomo.

In questo contesto, pertanto, il GM di Poggio Mirteto aveva ritenuto non fosse possibile contestare al S. e al T., nelle rispettive qualità, le condotte omissive loro imputate, considerando che gli stessi avevano organizzato il lavoro da effettuare senza che fosse prevista la necessità di salire sul tetto ed essendosi sincerati che la ditta presso la quale si dovevano effettuare i lavori mettesse a disposizione quell’elevatore Manitou che era più che sufficiente per l’attività da svolgere. D’altra parte -veniva rilevato- lo stesso Se. nella sua deposizione, non sempre credibile, mai aveva riferito di avere posto al T. la questione della necessità di salire sul tetto. E ha, invece, ammesso che il T. la sera prima ebbe a dirgli di prendere tutto quanto occorrente per il lavoro da effettuare anche in materia di misure di sicurezza. Secondo la prospettazione del Se. egli avrebbe solo prospettato al Se. un problema relativo ad una parte del lavoro, problema che si era deciso di affrontare in un secondo momento, invitandolo a soprassedere per quella parte.

La conclusione era stata, in altri termini, che non fosse possibile rimproverare alcunchè ai due odierni imputati avendo gli stessi messo a disposizione di un lavoratore esperto in materia – lavorando da 5 anni in quella azienda e facendo tutti i giorni lavori (in altezza) analoghi – l’attrezzatura (l’elevatore) necessaria a fare il lavoro in sicurezza e facendogli effettuare un preventivo sopralluogo per verificare l’eventuale necessità di ulteriori strumenti.

Lavoratore che nulla rappresentava sul punto e che, poi, in modo imprevisto ed imprevedibile, saliva sul tetto e camminava su delle lastre molto sottili che, in modo peraltro inevitabile e certo, cedevano facendolo cadere da un’altezza di circa 6/7 metri.

Rispetto a tale ricostruzione dei fatti, confortata da specifici e puntuali richiami alle prove assunte, la Corte capitolina non appare essersi confrontata nei termini incisivi e puntuali richiesti dalla soprarichiamata giurisprudenza di questa Corte di legittimità cui è tenuto il giudice del gravame del merito allorquando si trova a ribaltare una pronuncia assolutoria.

  1. La situazione che era stata posta all’esame dei giudici del merito era dunque la seguente.

Vi era un elettricista esperto cui era stato affidato un lavoro da svolgersi attraverso un elevatore e con una serie di strumenti di protezione di cui era stato dotato.

Quel lavoro – secondo quanto ricostruito da un teste esperto e come ha ricordato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione della ditta committente – poteva e doveva essere posto in essere in sicurezza dall’elevatore.

L’elettricista in questione, che peraltro era un soggetto particolarmente esperto di sicurezza sul lavoro essendo stato egli stesso nominato responsabile della sicurezza dei lavoratori della sua azienda, decide, forse per fare più in fretta, o comunque incautamente, di salire sul tetto per meglio posizionare i fili, percorre il tratto ricoperto da sottili lastre di eternit, che inevitabilmente si sfondano, e precipita al suolo.

Ebbene, che tipo di rimprovero può rivolgersi ad un datore di lavoro o a un responsabile aziendale per la sicurezza che ha dotato il dipendente, esperto e formato in materia di sicurezza del lavoro, di tutti i presidi antinfortunistici e della strumentazione necessaria per effettuare il lavoro in sicurezza, analogo a quello che egli era chiamato a compiere da cinque anni, rispetto a siffatto comportamento? Hanno potuto incolpevolmente il datore di lavoro e il responsabile per la sicurezza della SATER ALWAYS fare affidamento sul fatto che un soggetto così esperto non ponesse in essere il comportamento che ha cagionato l’incidente? Le risposte da dare a simili quesiti, ad avviso del Collegio, sono che nessun rimprovero può muoversi d entrambi gli odierni ricorrenti in un caso siffatto, in quanto gli stessi si sono legittimamente fidati della professionalità del soggetto cui aveva affidato il lavoro da compiersi.

  1. Questa Corte Suprema ha reiteratamente affermato – e si ritiene di dover ribadire – che non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (cfr. ex multis questa sez. 4, n. 7364 del 14.1.2014, Scarselli, rv. 259321).

Tuttavia, quello che ci occupa è proprio un caso in cui tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte.

Era da prevedersi che un operaio dotato di siffatta qualificazione – ponesse in essere un comportamento del genere? Sul punto va ricordato che, come affermato nella recente sentenza delle Sezioni Unite n. 38343/2014 sul c.d. caso Thyssenkrupp, in tema di colpa, la necessaria prevedibilità dell’evento – anche sotto il profilo causale – non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo (Cass. Sez. Un., n. 38343 del 24.4.2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, rv. 261103 nella cui motivazione la Corte ha precisato che, ai fini della imputazione soggettiva dell’evento, il giudizio di prevedibilità deve essere formulato facendo riferimento alla concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali).

Inoltre, è stato precisato che nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Cass. Sez. Un., n. 38343 del 24.4.2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, rv. 261103; conf. sez. 4, n. 49707 del 4.11.2014, Incorcaia ed altro, rv. 263284; sez. 4, n. 22378 del 19.3.2015, PG in proc. Volcan ed altro, rv. 263494).

Ebbene, la risposta in termini di possibile prevedibilità dell’evento non può che essere che il comportamento posto in essere dal Se. non era assolutamente prevedibile.

  1. Questa Corte di legittimità ha anche ricordato, in una recente pronuncia (sez. 4, n. 41486 del 5.5.2015, Viotto, non mass.), come il sistema della normativa antinfortunistica, si sia lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi contro la loro volontà), ad un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori.

Tale principio, normativamente affermato dal Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro di cui al D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, naturalmente non ha escluso, per la giurisprudenza di questa Corte, come si ricordava, che permanga la responsabilità del datore di lavoro, laddove la carenza dei dispositivi di sicurezza, o anche la mancata adozione degli stessi da parte del lavoratore, non può certo essere sostituita dall’affidamento sul comportamento prudente e diligente di quest’ultimo.

Ricordava ancora la sentenza 41486/2015 -che il Collegio condivide pienamente- che in giurisprudenza, dal principio “dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore” (che si rifà spesso all’art. 2087 c.c.), si è passati – a seguito dell’introduzione del D.Lgs. n. 626 del 1994 e, poi del T.U. 81/2008 al concetto di “area di rischio” (cfr. sez. 4, n. 36257 del 1.7.2014, rv. 260294; sez. 4, n. 43168 del 17.6.2014, rv. 260947; sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva.

Strettamente connessa all’area di rischio che l’imprenditore è tenuto a dichiarare nel DVR, si sono, perciò, andati ad individuare i criteri che consentissero di stabilire se la condotta del lavoratore dovesse risultare appartenente o estranea al processo produttivo o alle mansioni di sua specifica competenza.

Si è dunque affermato il concetto di comportamento “esorbitante”, diverso da quello “abnorme” del lavoratore. Il primo riguarda quelle condotte che fuoriescono dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, nell’ambito del contesto lavorativo, il secondo, quello, abnorme, già costantemente delineato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, si riferisce a quelle condotte poste in essere in maniera imprevedibile dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla hanno a che vedere con l’attività svolta.

La recente normativa (T.U. 2008/81) impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e perizia.

Le tendenze giurisprudenziali – va qui ribadito – si dirigono anch’esse verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. “principio di autoresponsabilità del lavoratore).

In buona sostanza, si abbandona il criterio esterno delle mansioni e – come condivisibilmente rilevava la sentenza 41486/2015, “si sostituisce con il parametro della prevedibilità intesa come dominabilità umana del fattore causale”.

Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.

Questi principi si attagliano specificamente al caso di specie, essendo rimaste provate non solo la valutazione preventiva del rischio derivante dallo svolgimento in quota dei lavori di sostituzione dei faretti e di posizionamento dei fili, ma anche la concreta dotazione al lavoratore, nel frangente dell’infortunio, degli strumenti idonei ad effettuare tali tipi di lavoro in sicurezza.

Ne deriva, ad avviso del Collegio, l’assenza di violazione della norma cautelare che, idonea forse, come ritenuto dal giudice di primo grado, ad influire sotto il profilo della tipicità oggettiva del reato, lo è certamente sotto il profilo soggettivo dell’assenza di colpa.

Ne deriva che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio e che entrambi gli imputati vanno mandati assolti dal reato loro ascritto perchè il fatto non costituisce reato, con il conseguente venir meno delle statuizioni civili del giudice di secondo grado.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2016

 

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Emilia Amodeo
Laureata in giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II nel 2010, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale di Napoli fino al 2012. Nel 2013 ha conseguito a pieni voti l’esame di Avvocato. Ha frequentato diverse scuole di preparazione al concorso in magistratura e, pur non avendo mai abbandonato gli studi, attualmente collabora con uno studio professionale di commercialisti e consulenti del lavoro in Napoli. Lo scorso anno, inoltre, ha conseguito con buoni risultati il certificato IELTS presso il British Coucil-Napoli.