La dichiarazione di fallimento come elemento di presunzione per l’applicabilità dell’ art. 524 c.c.
La Corte di Cassazione è di recente intervenuta, nell’ambito dei presupposti di applicazione dell’art. 524 c.c., affermando che il requisito del danno ai creditori, derivante dalla rinuncia ad un’eredità attiva da parte del debitore, si ha come presunto nel caso di dichiarazione di fallimento dello stesso, legittimando, quindi, i creditori ad agire, ex art. 524 c.c., attraverso l’accettazione “surrogata” dell’eredità in nome e luogo del debitore rinunziante. Secondo la Suprema Corte, infatti, la dichiarazione di fallimento costituirebbe di per se un elemento tale da far ritenere altamente probabile e verosimile che il patrimonio del debitore, accertato lo stato d’insolvenza, sia insufficiente a soddisfare tutte le pretese creditorie, configurandosi, perciò, la rinuncia ad un eredità attiva, da parte del debitore, come un atto in danno ai creditori, che vedrebbero vanificata la possibilità di incrementare l’attivo su cui potersi soddisfare.
Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., 29-04-2016, n. 8519
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26925/2014 proposto da:
R.F., D.A.E., R.L., R.A., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DI VILLA CARPEGNA 42, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA PETRUCCI, rappresentati e difesi dagli avvocati GIUSEPPE FEVOLA, IRENE FERRAZZO;
– ricorrenti –
contro
CURATELA FALLIMENTO R.F. E FALLIMENTO TERMOIDRAULICA LBR DI R.F. & C. SNC, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 119, presso lo studio dell’avvocato DE CESARE, rappresentata e difesa dall’avvocato DINO LUCCHETTI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4961/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/09/2013.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’11/04/2016 dal Consigliere Dott. ALBERTO GIUSTI.
Svolgimento del processo
che il consigliere relatore ha depositato in data 17 settembre 2015 la seguente relazione ex art. 380-bis c.p.c.: “Il Fallimento Termoidraulica LBR di R.F. & C.. e di R.F. in proprio conveniva avanti al Tribunale di Latina R.F. per sentire autorizzare il curatore della predetta procedura concorsuale, ex art. 524 c.c.., ad accettare l’eredità in vece del fallito R. F. il quale vi aveva rinunciato con atto dell’11 novembre 1994.
Resisteva R.F..
Intervenivano volontariamente in giudizio D.A.E., R. A. e R.L., quali coeredi di R.F., accettanti l’eredità, chiedendo il rigetto della domanda della procedura.
Con sentenza n. 853 del 2009, il Tribunale di Latina autorizzava la curatela ad accettare l’eredità in luogo di R.F., ad essa eredità rinunciante.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 4961 del 2013, resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 23 settembre 2013, ha rigettato il gravame di R.F. e degli altri suoi litisconsorti.
La Corte d’appello ha rilevato che la dichiarazione dello stato di decozione del debitore costituisce un elemento tale da far ritenere altamente probabile che il patrimonio del debitore non sia sufficiente a far fronte a tutte le pretese creditorie. Ha inoltre osservato la Corte territoriale che l’art. 524 c.c., non richiede l’anteriorità del credito verso il debitore, ed ha comunque rilevato che nella specie i crediti sono sorti anteriormente alla rinuncia all’eredità, posto che l’insorgenza del credito non può essere temporalmente ricondotta al momento della dichiarazione di fallimento (che si limita a cristallizzare la situazione debitoria) ma al momento precedente (come nel caso, alla luce delle domande di insinuazione al passivo) in cui ne sono venuti in essere i presupposti.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello R. F., D.A.E., R.A. e R.L. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 7 novembre 2014, sulla base di due motivi.
L’intimata curatela ha resistito con controricorso.
Con il primo mezzo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 524 c.c., per avere la sentenza impugnata ritenuto i presupposti per l’azione ex art. 524 c.c., sebbene la curatela non avesse precisato, nè provato, le passività accertate nel corso della procedura fallimentare. Presupposto oggettivo del rimedio previsto dall’art. 524 c.c. – deducono i ricorrenti – è l’eccedenza delle pretese del creditore sulla consistenza dei beni del rinunciante. La mera esistenza della sentenza dichiarativa di fallimento non potrebbe da sola rappresentare la prova dell’esistenza di un danno prevedibile per i creditori.
Il motivo appare al relatore infondato.
Per l’esercizio dell’impugnazione della rinunzia ad un’eredita da parte dei creditori è richiesto un unico presupposto di carattere oggettivo, ossia che la rinunzia all’eredita da parte del debitore importi un danno per i suoi creditori, in quanto il suo patrimonio personale non basti a soddisfarli e l’eredita presenti un attivo.
Quanto al presupposto del danno, basta che al momento della proposizione dell’azione di cui all’art. 524 c.c., il danno sia sicuramente prevedibile, nel senso che ricorrano fondate ragioni per ritenere che i beni personali del debitore possano non risultare sufficienti per soddisfare del tutto i suoi creditori (Cass., Sez. 2, 10 agosto 1974, n. 2394).
A tale principio si è correttamente attenuta la Corte d’appello, la quale ha rilevato che la dichiarazione di fallimento costituisce un elemento tale da far ritenere altamente verosimile che il patrimonio del debitore, dato l’acclarato stato di insolvenza, non sia sufficiente a fare fronte a tutte le pretese creditorie.
Il secondo motivo lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 524 c.c.. Ad avviso dei ricorrenti, per l’ammissibilità dell’azione occorrerebbe che il credito del soggetto impugnante sia sorto prima della rinuncia del chiamato all’eredità. Ci si duole anche che la Corte territoriale abbia affermato, genericamente, che i crediti sarebbero sorti nella specie anteriormente alla rinuncia all’eredità.
La censura si appalesa inammissibile.
La decisione della Corte d’appello è fondata su due rationes decidendi, ciascuna delle quali sufficiente a sostenere il decisum:
(a) l’art. 524 c.c., non richiede l’anteriorità del credito rispetto alla rinuncia; (b) in ogni caso i crediti sono anteriori alla rinuncia all’eredità, come emerge dalla istanze di insinuazione al passivo.
Questa seconda ratio decidendi è denunciata genericamente, e solo apparentemente prospettando la violazione dell’art. 524 c.c.. In realtà, a fronte dell’accertamento compiuto dalla Corte territoriale “alla luce delle domande di insinuazione al passivo”, i ricorrenti – deducendo che la curatela non avrebbe prodotto la documentazione relativa alla natura dei crediti, alle istanze di fallimento e alla istanze di insinuazione al passivo – invocano una indagine di fatto, preclusa in questa sede, sulla data di insorgenza dei crediti, a tutela dei quali la curatela ha promosso il rimedio di cui all’art. 524 c.c..
Il ricorso può essere avviato alla trattazione in camera di consiglio, per esservi rigettato”.
Motivi della decisione
che il Collegio condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione ex art. 380-bis c.p.c., alla quale non sono stati mossi rilievi critici;
che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato;
che le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza;
che poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del T.U. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese processuali sostenute dalla Curatela controricorrente, che liquida in complessivi Euro 2.200, di cui Euro 2.000 per compensi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 11 aprile 2016.
Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2016