Sul licenziamento del lavoratore gay che esercita meritricio
Un dipendente omosessuale che presta la propria attività lavorativa presso un Ente pubblico, va licenziato se esercita un’attività di prostituzione anche se privatamente. Questo è il succo che si trae dalla sentenza della Cassazione sezione lavoro del 22 giugno scorso. Il licenziamento in questione non è discriminatorio, poiché non attiene all’orientamento sessuale del lavoratore, ma configura un giustificato motivo, in quanto l’attività di prestazione del proprio corpo, pubblicamente esercitata e visibile su siti escort (con tanto di offerta in denaro a seconda della modalità di svolgimento della stessa), è risultata palesemente lesiva dell’immagine della P.A., anche a motivo della visibilità della mansione svolta dal lavoratore quale istruttore informatico. Nulla da fare il ricorso va rigettato.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-06-2016, n. 12898
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –
Dott. RIVERSO Roberto – rel. Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17119-2013 proposto da:
B.C., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA ESCHILO 37, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BIAGINI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
PROVINCIA VERBANO CUSIO OSSOLA, C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente della Provincia pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 180, presso lo studio dell’avvocato STEFANO GIANNINI, rappresentata e difesa dall’avvocato UMBERTO DELZANNO, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 295/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 26/04/2013 R.G.N. 1103/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2016 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO;
udito l’Avvocato BIAGINI GIOVANNI;
udito l’Avvocato GIANNINI STEFANO per delega Avvocato DELZANNO UMBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 295/2013, pubblicata il 26.4.2013, la Corte d’Appello di Torino, respingeva l’appello avverso la sentenza resa dal giudice del lavoro del tribunale di Verbania, che aveva rigettato la domanda svolta da B.C. nei confronti della Provincia del Verbano, Cusio Ossola, con la quale egli chiedeva accertarsi la nullità del licenziamento discriminatorio, poichè fondato sull’orientamento sessuale, intimatogli dalla datrice di lavoro il 28.9.2011, con effetto dal 28.12.2011; con conseguente condanna dell’Ente convenuto alla reintegrazione nel posto di lavoro L. n. 300 del 1970, ex art. 18 ed al risarcimento del danno retributivo, biologico, esistenziale e morale.
A fondamento della decisione, la Corte sosteneva che la domanda fosse infondata in quanto il licenziamento non era stato intimato in ragione dell’orientamento sessuale del dipendente, bensì in ragione della pubblica e riconoscibile attività di prostituzione da egli esercitata su alcuni siti internet; attività chiaramente lesiva del prestigio e dell’immagine della Provincia ed in generale della Pubblica Amministrazione, anche a motivo della visibilità del lavoratore, atteso il ruolo esterno rivestito come istruttore informatico.
Per la cassazione di questa sentenza ha interposto ricorso il lavoratore con 5 motivi; ed avanzando, in via preliminare, istanza per la sospensione del giudizio, pendendo in Cassazione ricorso promosso dal competente Garante per la Protezione dei Dati Personali avverso la sentenza del tribunale di Verbania n. 402/2012 del 13.6.2012 che aveva annullato il provvedimento che vietava alla Provincia il trattamento, in quanto illegittimo, dei dati personali sensibili del B. utilizzati ai fini del procedimento disciplinare che aveva condotto al licenziamento di cui si tratta; ed acquisiti a seguito di una lettera anonima che segnalava lo svolgimento della stessa attività prostitutiva da parte del dipendente su alcuni siti internet.
Resiste la Provincia del Verbano Cusio Ossola,con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1.- Deve essere chiarito, preliminarmente, che nelle more di questo giudizio, per come risulta pure concordemente addotto dalle parti nelle memorie ex art. 378 c.p.c., la Corte di Cassazione sezione I civile ha pronunciato con sentenza n. 21107/2014 nel giudizio avente ad oggetto il ricorso promosso dal competente Garante per la Protezione dei Dati Personali avverso la sentenza tribunale di Verbania 402/29012 del 13.6.2012 che aveva annullato il provvedimento che vietava alla Provincia il trattamento dei dati personali sensibili del B., acquisiti su internet ed utilizzati ai fini del licenziamento di cui si tratta. Non occorre pertanto pronunciarsi sulla richiesta di sospensione del giudizio avanzata da parte ricorrente per pregiudizialità ex art. 295 c.p.c..
- Va aggiunto che con la medesima sentenza n. 21107/2014 la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio l’impugnata sentenza del Tribunale di Verbania ed ha definitivamente sancito la legittimità del provvedimento n. 468 del 6.12.2011 con cui il Garante per la Protezione dei Dati Personali aveva fatto divieto alla Provincia di trattare ulteriormente le informazioni relative alla vita sessuale di B.C., in difetto delle condizioni richieste dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, per il trattamento dei relativi dati (dalla corte definiti supersensibili) finalizzato alla gestione del rapporto di lavoro.
Pur tuttavia, vanno negate ricadute da parte della predetta pronuncia all’interno del presente giudizio che ha ad oggetto il ricorso avverso la sentenza che ha riconosciuto legittimo il licenziamento del dipendente. Tanto perchè nessun motivo di impugnazione è stato presentato in questo giudizio in merito all’utilizzazione dei dati effettuata dal datore di lavoro per emettere il licenziamento. Ed è pertanto pure passato in giudicato il capo della sentenza d’appello che ha riconosciuto testualmente la liceità delle verifiche effettuate dalla Provincia in quanto volte non all’acquisizione di dati sulla vita sessuale, ma unicamente a verificare la veridicità di quanto segnalato.
La sentenza della Corte di Cassazione n. 21107/2014 non potrà dunque avere alcun effetto su questo aspetto conoscitivo e probatorio della vicenda per mancanza di devoluzione della questione all’interno di questo giudizio (tanto che neppure esistevano i presupposti per la sospensione richiesta ex art. 295 c.p.c.). Com’è noto, il giudizio di Cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso i vizi dedotti.
3.- D’altra parte, come si vedrà, il ricorrente ha pure impugnato il licenziamento esclusivamente in ragione della ritenuta natura discriminatoria, ma non ha mai negato l’esistenza degli stessi fatti su cui il licenziamento è stato fondato. Sicchè per questo motivo la sentenza n. 21107/14 non potrebbe avere effetto ai fini della decisione della presente controversia.
4.- Si deve quindi passare all’esame dei motivi di ricorso. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 420 c.p.c. sul mancato esperimento del tentativo di conciliazione e sulla mancata formulazione alle parti di una proposta transattiva.
Il motivo è infondato siccome risulta dalla stessa sentenza impugnata che il tentativo sia stato effettuato in appello.
5.- Con il secondo motivo il ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., artt. 112, 113, 115, 116, 132 e 134 c.p.c. per il mancato espletamento di ogni attività istruttoria richiesta sia in primo che in secondo grado per dimostrare alcuni fatti e circostanze fondamentali ma rimasti oscuri.
Il motivo è inammissibile e comunque infondato. Anzitutto perchè non precisa di quali istanze istruttorie si trattasse e quale fosse il loro contenuto. D’altra parte, la Corte ha legittimamente affermato che l’istruttoria sui capitoli di prova testimoniale fosse superflua ai fini del decidere perchè le singole circostanze capitolate erano già documentate, ultronee ai fini del decidere e superate dai documenti. Si tratta di una motivazione incensurabile in quanto, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato di questa Corte, il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell’accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso. Conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, nè a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 3601 del 20/02/2006, Cass. Sentenza n. 10896 del 30/10/1998).
6.- Il terzo motivo del ricorso deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 4, nonchè dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori attesa la palese natura discriminatoria del licenziamento intimato al B. (per orientamento sessuale). Ciò anzitutto perchè i comportamenti posti a base del licenziamento si sarebbero svolti tutti nell’ambito della vita privata ed al di fuori dell’ambito lavorativo. In secondo luogo perchè la dizione civil servant contestatagli dalla Provincia non è stata da lui utilizzata su siti di pubblico accesso ((OMISSIS); (OMISSIS)), bensì nella pagina della community (OMISSIS), situata nella sezione user di questo social-network rivolto prevalentemente a persone omosessuali o bisessuali. Nei siti escort da lui frequentati non compariva invece alcun riferimento all’Ente. Anzi in altra sezione del sito (OMISSIS) risultava come proprio riferimento territoriale la Lombardia. Non c’era quindi nesso alcuno tra il presunto danno all’immagine sollevato dalla Provincia e la posizione personale del dipendente. La stessa Provincia aveva riconosciuto espressamente nella determinazione del 3790 del 28.9.2011 “l’assoluta irrilevanza di quanto pubblicato da B.C. sul sito (OMISSIS).” Da ciò secondo il ricorrente si evince che il licenziamento del B. tragga fondamento dall’orientamento sessuale. Risultando anche pacifico che non ricorrano gli estremi della giusta causa ex art. 2119 c.c. o quelli del giustificato motivo L. n. 604 del 1966, ex art. 3.
6.1. Il motivo è infondato. Va ribadito che il procedimento per cassazione non è un terzo grado di giudizio ma un giudizio a critica vincolata su censure ovvero motivi di illegittimità della sentenza di secondo grado, in relazione a questioni ritualmente dedotte nei giudizi di merito. Nel caso in esame deve essere evidenziato che il licenziamento è stato impugnato in giudizio esclusivamente in ragione della ritenuta natura discriminatoria dello stesso con riferimento all’orientamento sessuale del dipendente; mentre non è stato impugnato per la mancanza di giusta causa.
6.2. Detto ciò va chiarito che, come affermato dalla sentenza impugnata, il provvedimento di licenziamento è stato assunto esclusivamente in relazione all’attività di prostituzione pubblicamente esercitata dal B. su alcuni siti, in cui egli offriva le proprie prestazioni sessuali a pagamento (con un annuncio corredato da tariffario, rimborso spese, supplemento per le riprese con telecamere e da fotografie che ne ritraevano il volto), attività ritenuta lesiva dell’immagine dell’Ente, in quanto gettava discredito sulla Provincia e su tutta la PA. Si è trattato di un licenziamento per giusta causa che punisce comportamenti tenuti dal dipendente al di fuori dell’attività di lavoro ma ritenuti tali da influire sugli obblighi discendenti dal rapporto. Esso non ha alcuna connotazione discriminatoria, nè diretta nè indiretta; tanto meno con riferimento all’orientamento sessuale. Come si legge nella contestazione disciplinare il ricorrente è stato licenziato per avere esercitato attività prostituiva (sia essa orno o etero sessuale) e non per il suo orientamento sessuale.
6.3. E’ vero che nella prima contestazione era stato addebitato al dipendente anche il discredito causato alla Provincia ed alla PA nel suo complesso dalla dizione civil servant da egli utilizzata nella descrizione della posizione occupazionale, sulla pagina del portale network (OMISSIS) frequentato da persone appartenenti alla comunità (OMISSIS). Tuttavia, il provvedimento di licenziamento, motivatamente assunto il 28.9.2011 nei confronti del B., dopo i chiarimenti da lui forniti, non solo non fa più alcun riferimento a tale diverso fatto, ma ne esclude espressamente la rilevanza affermando che “il comportamento del signor B.C. è lesivo dell’immagine dell’Ente, non ha nulla a che vedere con l’orientamento sessuale di alcun dipendente ma risiede nella riprovazione sociale per l’esercizio della prostituzione omo o etero sessuale”. Di più, la stessa Provincia ha riconosciuto testualmente nella determinazione del 3790 del 28.9.2011 “l’assoluta irrilevanza di quanto pubblicato da B.C. sul sito (OMISSIS).” ed ha inoltre precisato che la sanzione si riferisce esclusivamente all’annuncio pubblicato sui siti escort.
6.4. Ne discende pertanto che non sia possibile ancorare il licenziamento ad alcun riferimento, neppure remoto, di natura discriminatorio. In quanto la stesso provvedimento ha sanzionato, non l’orientamento sessuale del dipendente professato in siti frequentati dalla comunità (OMISSIS), ma esclusivamente l’attività prostitutiva esercitata su altri siti, con danno per la PA. Correttamente perciò la Corte ha affermato che il provvedimento avesse fondamento solo nell’attività di prostituzione e non nell’orientamento sessuale e nelle scelte personali del B..
6.5. Anche il riferimento alla discontinuità ed imprevedibilità della sua presenza in servizio effettuata nel provvedimento di licenziamento non ha connotato discriminatorio; ed anche l’associazione allusiva ad altra attività, non ha valenza discriminatoria.
6.6. Poichè la domanda azionata dal ricorrente attiene esclusivamente alla natura discriminatoria del licenziamento, risultano inammissibili le doglianze che fanno riferimento in questo giudizio alla insussistenza della giusta causa; nè può essere sindacata ora la proporzionalità della sanzione, posto che mai era stato sollevato prima questo specifico profilo di illegittimità.
6.7. Pertanto, non può essere sindacato se l’attività di prostituzione effettivamente esercitata dal dipendente tramite alcuni siti internet possa di per sè ledere l’immagine o il prestigio dell’Ente e della PA, come ritenuto dall’Ente pubblico e confermato dalla Corte d’Appello. In quanto questa valutazione attiene alla fondatezza della ragione addotta e non comporta nullità, perchè non viola alcuna ragione di discriminatorietà. Per le stesse ragioni, è pure ininfluente valutare quale fosse la rilevanza della condotta del dipendente, l’entità del discredito disceso nei confronti della pubblica amministrazione, in che misura o meno i siti in discorso fossero accessibili a tutti oppure solo ad una utenza selezionata;
ovvero a persone maggiorenni che prestano specifica adesione mediante apertura di un profilo personale riservato solo a coloro che ne sono abbonati.
6.8. Analogamente, quand’anche si ritenesse di censurare la legittimità della affermazione della Corte secondo cui dalla stessa attività prostitutiva fosse derivato un automatico discredito. E si affermasse, invece, che per le modalità con cui la stessa condotta fosse esercitata, per il fatto che attenesse solo alla vita privata del dipendente, per le modalità di accesso non automatico (o tutt’altro che facile) a tali siti e per la loro settorialità; per il fatto che nessuna pubblica segnalazione ci fosse mai stata e che la scoperta fosse avvenuta solo dietro lettera anonima; o anche perchè essa fosse in sè e per sè attività da ritenersi del tutto lecita o addirittura socialmente rilevante (come pretende il ricorrente). E che pertanto – tutto questo considerato – dalla medesima condotta del dipendente non fosse derivato alcun pregiudizio alla PA; anche in tale ipotesi, non si potrebbe comunque sostenere – ad avviso di questo Collegio – che da ciò derivi la prova di una identificabile ragione di discriminatorietà del licenziamento (come quella per orientamento sessuale allegata a fondamento della domanda).
6.9. Si tratterebbe bensì di una valutazione che comporta illegittimità e mancanza della ragione giustificativa addotta, ma che non conduce alla violazione di alcun divieto discriminatorio. E dunque, seppure dovesse ritenersi che non sussista la giusta causa perchè il fatto fosse lecito o non grave, esso non sarebbe perciò solo discriminatorio; e la domanda sarebbe comunque da respingere per carenza di specifica allegazione. Infatti qualora il lavoratore agisca in giudizio deducendo il motivo discriminatorio del licenziamento, l’eventuale carenza di giusta causa, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d’ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 13673 del 03/07/2015).
7.- Il quarto motivo solleva violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 7, dell’art. 3, comma 1, lett. a) e d) del CCNL 11.4.2008, della D.P.R. n. 3 del 1957, art. 84, lett. a) e art. 8 delle CEDU in relazione alla modalità eseguita per giungere alla destituzione del B. in quanto basato su norme (come l’art. 3, comma 7, dell’art. 3, comma 1, lett. a) e d) del CCNL 11.4.2008, e come il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 84, lett. a)) disapplicate da disposizioni legislative successive (rispettivamente dal D.Lgs. n. 150 del 2009 e D.Lgs. n. 165 del 2001).
Il motivo è inammissibile in quanto non indica dove la stessa censura fosse stata sollevata nelle fasi precedenti. Si tratta inoltre di un motivo irrilevante perchè l’unica domanda svolta in giudizio è quella fondata sulla nullità per discriminatorietà e non sull’erroneità dei riferimenti normativi posti a base del licenziamento.
8.- Il quinto motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost., artt. 112 e 113 c.p.c., in relazione al danno alla salute, biologico esistenziale arrecati al B. in seguito alla condotta ed agli atti della Provincia nonchè al successivo licenziamento.
Il quinto motivo è inammissibile perchè non ha rilievo autonomo, essendo evidente che non si può censurare l’omessa pronuncia da parte della Corte territoriale in relazione a domande la cui valutazione era rimasta assorbita in sentenza per il rigetto di quella logicamente pregiudiziale, attinente alla legittimità del licenziamento.
- Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di rigettare il ricorso e di condannare il ricorrente, rimasto soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.
- Non sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, attesa l’attuale condizione del ricorrente di ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 100 per esborsi ed in Euro 3500 per compensi professionali, oltre accessori. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater si da atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 gennaio 2016.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2016