Reato di violenza privata per chi nasconde una telecamera in uno spogliatoio pubblico
La Corte di Cassazione – con sentenza n° 28174 del 2 Luglio 2015 – si è pronunciata in merito al problema della qualificazione giuridica della condotta di chi, con l’uso di un sistema di videoripresa posizionato nel cestino dello spogliatoio di una piscina comunale, si è indebitamente procurato immagini di adulti e bambini intenti a spogliarsi, rivestirsi o a fare la doccia.
La questione si è sviluppato intorno al concetto di “privata dimora”, più volte interpretato dalla corte stessa, inteso come “tutti quei luoghi non pubblici nei quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata ovvero attività di carattere culturale, professionale e politico”. ( sentenza n. 33413 del 29 luglio 2014)
Quello di “privata dimora” è quindi, secondo Corte, un concetto molto ampio nel quale, nel tempo, vi ha fatto rientrare, di volta in volta: gli studi professionali; i pubblici esercizi nelle ore di chiusura; la portineria di un condominio e le aree comuni; l’interno di un campo da tennis inserito in un complesso alberghiero; una baracca adibita a spogliatoio in un cantiere edile e, persino, la sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto.
Orbene, riportando tale concetto nel caso in esame alla Corte, nel reato di interferenza illecita nella vita privata, l’oggetto della ripresa deve essere attinente alla vita privata e l’ambiente in cui le manifestazioni di vita privata si svolgono deve essere l’abitazione privata o altro luogo di privata dimora o sue pertinenze.
Alla luce di ciò, la Corte ha escluso che i locali dove sono posizionate le docce di una piscina comunale possano essere considerati luoghi tutelati a norma dell’art 615bis c.p. (Interferenze illecite nella vita privata svolta nei luoghi di cui all’art. 614 c.p.), in quanto, tale condotta, realizza l’imposizione di una costruzione, ovverosia quella di subire la videoripresa della propria sfera intima, in locali frequentati da un numero di avventori non determinato oppure da utenti occasionali.
Pertanto, gli spogliatoi della piscina comunale non potendo essere considerati luoghi frequentati stabilmente e all’interno dei quali gli utenti compiono atti della loro vita privata, la condotta in esame deve essere ricondotta nella fattispecie di cui all’art 610 c.p. per la natura non domiciliare del contesto in cui questa si realizza, esplicandosi nella privazione, coattivamente e con qualsiasi mezzo idoneo, della libertà di determinazione e di azione.
Il soggetto passivo in questo caso percepisce l’azione costrittiva dell’agente solo successivamente alla sua attuazione, nonostante ciò, la minaccia o violenza, quali mezzi di esplicazione della condotta ex art. 610 c.p., si deducono dal prevedibile e ragionevole dissenso all’indebita captazione delle immagini del soggetto passivo.
Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 2 luglio 2015, n. 28174
Ritenuto in fatto
- Con sentenza del 23 settembre 2013 la Corte di Appello di L’Aquila, in parziale riforma della pronunzia di primo grado emessa dal Tribunale di Teramo nel processo (svoltosi con il rito abbreviato) a carico di C.P.A. , ha dichiarato non doversi procedere perché estinto per prescrizione il reato continuato di cui agli artt. 81 – 615 bis cod. pen. limitatamente alle condotte commesse sino al 23 marzo 2006; ha confermato nel resto la condanna dell’imputato, anche in relazione alle statuizioni in favore delle parti civili. I fatti contestati nel capo di imputazione sono relativi a più condotte, commesse in un lungo arco temporale (sino al 18 giugno 2009), consistite nel procurarsi indebitamente le immagini attinenti alla vita privata di persone maggiorenni e minorenni, filmate con l’uso di un’apparecchiatura di ripresa audiovisiva (una telecamera per cassette mini-dvd), celata all’interno di un cestino per i rifiuti, posizionato davanti alle docce degli spogliatoi femminili della piscina comunale di Atri (TE). 2, Con atto sottoscritto dal suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi. 2.1 Violazione della legge processuale in relazione all’art. 649 cod. proc. pen.. Il ricorrente sostiene che erroneamente sia il giudice di primo grado che la Corte territoriale hanno negato la sussistenza dei presupposti per applicare il disposto di cui all’art. 649 cod. proc. pen., essendo egli stato assolto dal G.U.P. del Tribunale di L’Aquila (con sentenza dell’undici gennaio 2010) dal reato di cui all’art. 600 ter cod. pen.. Il fatto contestato era relativo sempre ai filmati di minori nei locali delle docce della piscina comunale di Atri e alla conseguente produzione di materiale pedopornografico. 2.2. Con un secondo motivo è dedotta violazione di legge processuale per inosservanza degli artt. 189 e 190 cod. proc. pen., in relazione all’art. 213. Viene contestata la “valenza probatoria” delle “ricognizioni” effettuate dalle persone offese, alle quali erano state mostrate le immagini nelle quali le stesse si erano riconosciute. 2.3. Con un terzo motivo è dedotta la violazione di legge in relazione agli artt. 614 e 615 bis cod. pen.. Sostiene il ricorrente che i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere i luoghi dove sono state filmate le immagini “di privata dimora” ex art. 614 cod. pen., espressamente richiamato dall’art. 615 bis cod. pen.. 2.4. Con il quarto ed ultimo motivo è dedotta la violazione di legge in relazione al diniego delle attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Considerato in diritto
Il ricorso va accolto nei limitati termini qui di seguito indicati, con la conseguente pronunzia di annullamento della sentenza impugnata così come statuito in dispositivo. 1. In primo luogo si deve dare atto della ricostruzione dei fatti operata nelle pronunzie dei giudici di merito. 1.1 L’imputato C.P.A. , istruttore di nuoto nella piscina comunale di Atri, denominata “ASD Acquazzurra”, con l’uso di un sistema di videoripresa posizionato in un cestino della spazzatura, si è indebitamente procurato immagini (raccolte in circa 1005 filmati) di soggetti adulti di sesso femminile e bambini di entrambi i sessi, mentre erano intenti a spogliarsi, rivestirsi o a fare la doccia nello spogliatoio posto a servizio della suddetta piscina. I fatti sono stati accertati quando l’imputato era stato coinvolto in una inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Catania in materia di reati di pedopornografia; era stata delegata la sezione di Teramo del Compartimento della Polizia Postale e della Comunicazione della Polizia di Stato ad eseguire, in data 18 giugno 2009, una perquisizione nell’abitazione del C.P. , durante la quale venivano sottoposti a sequestro, tra l’altro, supporti di memorizzazione di tipo ottico (noti come DVD e CD). 1.2. Gli accertamenti compiuti dalla Polizia Postale e, in particolare, la visione dei suddetti filmati, ha consentito di apprendere che l’imputato aveva posizionato il sistema audiovisivo quasi sempre dinanzi alla doccia numerata con il “2”, perché tale postazione consentiva di inquadrare più docce contemporaneamente. Si è accertato, inoltre, che l’imputato aveva scaricato le immagini filmate sul computer e le aveva trasferite, dopo interventi con tagli di riprese prive di interesse, su dvd nei quali ogni “scena” riportava il nome e il cognome della persona ripresa; per i bambini veniva indicata anche l’età e per le donne in stato di gravidanza era stato indicato pure il mese di gestazione. 1.3. Nella sentenza di primo grado, emessa – come si è detto – all’esito del giudizio abbreviato, si legge che durante le indagini erano state acquisite 71 denunce – querele, che davano atto del fatto che ciascuna persona offesa, dopo aver visionato i filmati che riportavano il proprio nome, aveva dichiarato di riconoscersi nelle immagini, indicandone il numero di sequenza e precisando il periodo in cui aveva frequentato la piscina. Sempre nella ricostruzione dei fatti desumibile dalla sentenza di primo grado (alla quale la corte territoriale ha fatto legittimamente rinvio) si da atto che alcune delle vittime, dopo essersi riconosciute in diverse immagini catalogate, avevano riferito che si trattava di riprese effettuate in un arco temporale ampio, che ricordavano che il C.P. le aveva in più occasioni invitate ad utilizzare la doccia n. 2 (sostenendo che le altre erano malfunzionanti) e che questi, sebbene contro la loro volontà, era alcune volte entrato nello spogliatoio per cambiare il sacchetto del cestino utilizzato per celare il sistema audiovisivo. 2. La esposta rappresentazione dei fatti, non oggetto di contestazione da parte dell’imputato ricorrente e in relazione alla quale questa corte non può esercitare alcun sindacato, consente di affrontare preliminarmente il problema della qualificazione giuridica delle condotte contestate, così peraltro esaminando uno dei motivi dedotti. Come si è detto, è stata denunziata nel ricorso in esame la violazione di legge perché i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere “di privata dimora” i luoghi dove sono state indebitamente acquisite dall’imputato le immagini delle donne e dei minori di cui si è parlato. L’art. 615 bis cod. pen. prevede come punibile la condotta di chi “mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614”. Sono dunque due le condizioni che assegnano rilevanza penale alla condotta: l’una relativa all’oggetto della ripresa visiva o sonora, che deve essere attinente alla vita privata; l’altra relativa all’ambiente in cui le manifestazioni di vita privata si svolgano, che deve essere quello dell’abitazione o di altro luogo di privata dimora o sue appartenenze. 2.1. Quanto alla nozione di “abitazione” o “privata dimora”, la giurisprudenza tende a proporne una interpretazione certamente estensiva, ma non si può comunque prescindere dalle indicazioni delle Sezioni unite penali di questa corte, che esigono “un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza” (Sez. un., 28 marzo 2006, Prisco, m. 234269). Giova riportare alcuni passaggi della sentenza delle Sezioni Unite, nella quale, con affermazione di carattere generale, sebbene resa nel contesto dell’interpretazione della normativa processuale in tema di videoriprese, si è osservato che “non c’è dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente. Diversamente nel caso della “toilette” e nei casi analoghi il luogo in quanto tale non riceve alcuna tutela. Chiunque può entrare in una toilette pubblica, quando è libera, e la polizia giudiziaria ben potrebbe prenderne visione indipendentemente dall’esistenza delle condizioni processuali che legittimano attività ispettive. Perciò con ragione la giurisprudenza ha introdotto il requisito della “stabilità”, perché è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un’autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità. Deve quindi concludersi che una toilette pubblica non può essere considerata un domicilio neppure nel tempo in cui è occupata da una persona”. Quindi, anche quando si ammette la tutela per luoghi destinati – ad esempio – al lavoro, piuttosto che all’abitazione, l’estensione può essere considerata ragionevole per chi vi presti stabilmente la propria opera, non per coloro che di questi luoghi siano utenti o comunque avventori più o meno occasionali. Di recente questa sezione ha avuto modo di precisare che la nozione di “privata dimora”, richiamata anche dall’art. 624 bis cod. pen., è più ampia di quella di “abitazione”, in quanto va riferita al luogo nel quale la persona compia atti della vita privata (furto commesso all’interno di un cantiere edile allestito nel cortile di un immobile in cui erano in corso lavori di ristrutturazione) (Sez. 5, n. 2768 del 01/10/2014, Baldassin, Rv. 262677). In effetti, si è ritenuto che l’estensione in esame possa essere considerata ragionevole proprio con riferimento alla tutela di chi in relazione ad un determinato luogo abbia un potere dispositivo, come certamente accade nei luoghi in cui un soggetto presti la propria attività lavorativa. È comunque prevalso nella giurisprudenza di questa corte un orientamento fondato sul rilievo che per “luogo di privata dimora” possa intendersi anche “ogni luogo non pubblico che serva all’esplicazione di attività culturali, professionali e politiche ovvero nel quale le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata”. È stato così ritenuto ravvisabile il delitto ex art. 624 bis cod.pen. nella condotta di chi, per commettere un furto,
si introduca all’interno di una farmacia durante l’orario di apertura (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009, Apprezzo), nel ripostiglio di un esercizio commerciale (Sez. 5, n. 22725 del 05/05/2010, Dunca), all’interno di un bar (Sez. 5, n. 30957 del 02/07/2010, Cirlincione) od in uno studio odontoiatrico (Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011, Gelasio). Con riferimento al caso in esame, si ritiene di dover escludere che i locali dove sono posizionate le docce di una piscina comunale possano essere considerati luoghi tutelati a norma dell’art. 615 bis cod. pen., non potendo trascurarsi che essi sono frequentati da un pubblico di avventori in numero non determinabile e che si avvicendano quali utenti del servizio. È pur vero che questa corte ha ritenuto configurabile il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all’art. 615-bis cod. pen. in un caso in cui il dipendente di una struttura ospedaliera si era indebitamente procurato con il suo cellulare immagini attinenti alla vita privata dei pazienti, fotografandone gli organi sessuali mentre facevano la doccia. (Sez. 6, n. 7550 del 26/01/2011, M. e altro, Rv. 249322). Non senza rilievo, però, è il fatto che nella pronunzia in esame si sia fatto riferimento alle docce di un ospedale, evidentemente frequentate da soggetti ricoverati nella stessa struttura e che quindi hanno una esclusiva disponibilità dei relativi spazi ovvero li utilizzano come contesto “domiciliare”. 2.2. Quanto alla seconda condizione di rilevanza della condotta prevista dall’art. 615 bis cod. pen., occorre evidenziare che, nell’ambito delle “notizie o immagini attinenti alla vita privata”, ve ne sono certamente alcune meritevoli di tutela anche quando non si manifestino in una privata dimora o in altri luoghi equiparati. Vi sono infatti attività personalissime, quali sono certamente quelle che si svolgono in locali come i bagni o le docce o gli ospedali, che sono considerate riservate di per sé, indipendentemente dall’eventuale contesto domiciliare in cui si svolgano, tanto che le relative informazioni sono soggette alla rigorosa disciplina specifica del cosiddetto codice della privacy (decreto legislativo 30 giugno 2003, n.1969). Per questa ragione si è ritenuto, in particolare, che integri il reato di violenza privata (art. 610 cod. pen.), escluso quello di cui all’art. 615 bis cod. pen. per la natura non domiciliare del contesto, “la condotta di colui che introduca una telecamera sotto la porta di una toilette pubblica in modo da captare immagini di un minore che si trovi all’interno di essa” (Sez. 5, 3 marzo 2009, Fabro, rv. 244199). In questa importante decisione, che si richiama a un più risalente precedente (Cass. 6 marzo 1953, Brosio, in Riv. pen. 1953, 11, 1032), si rileva in realtà che, “perché ricorra la lesione della libertà psichica occorre ovviamente che il soggetto passivo percepisca, anche solo in parte, l’azione costrittiva dell’agente, mentre essa viene attuata, dovendosi ritenere che quando l’azione sia percepita dopo che essa è stata interamente compiuta il reato configurabile può essere quello di molestie ex art. 660 cod. pen.”. Sennonché l’esigenza di immediatezza della percezione della violazione della sua riservatezza da parte della persona offesa è certamente ragionevole quando si tratti di intrusioni che non abbiano conseguenze permanenti, cui possa ricollegarsi una sopravvenuta percezione di coazione. Ma quando l’effetto dell’intrusione sia permanente, perché, come nel caso in esame, le immagini privatissime della persona offesa siano videoregistrate e vengano diffuse a scopo addirittura commerciale, occorre riconoscere come la situazione sia tale da comportare il rinnovarsi di una persistente coazione psichica nei confronti di chi non può sottrarsi alla reiterata violazione della sua intimità. Peraltro questa corte ha da tempo chiarito come, ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (Sez. 5, n. 11004 del 13/10/1981, ROSSI, Rv. 151273; Sez. 5, n. 1195 del 27/02/1998, PG in proc. Piccinin ed altri, Rv. 211230), tanto che si è ritenuto che integri il delitto di violenza privata il parcheggio di un’autovettura eseguito intenzionalmente in modo tale da impedire a un’altra automobile di spostarsi per accedere alla pubblica via e accompagnato dal rifiuto reiterato alla richiesta della parte offesa di liberare l’accesso (Sez. 5, n. 21779 del 17 maggio 2006, P.G. in proc. Brugger, Rv. 234712; Sez. 5, 20 aprile 2006, Badalamenti, Rv. 234458; Sez. 5, 18 ottobre 2005, Siracusa, Rv. 232459; si veda, più di recente, anche Sez. 5, n. 8425 del 20/11/2013, Iovino, Rv. 259052; Sez. 5, n. 603 del 18/11/2011, Lombardo, Rv. 252668). In questi casi, benché sia certamente istantanea la condotta del soggetto attivo, ne sono inevitabilmente permanenti gli effetti di coartazione della volontà della persona offesa, che si vede esposta quantomeno al rischio di dover subire un’imbarazzante ed irresistibile reiterata coazione. Sicché, quand’anche la percezione della coazione psichica della persona offesa sopravvenga all’esaurimento della condotta intrusiva, deve ritenersi che una tale condotta sia da qualificare come violenta e integri di conseguenza gli estremi della violenza privata. Né può trascurarsi che, in casi come quello in esame, possa configurarsi il dissenso ragionevolmente prevedibile delle vittime delle indebite captazioni di immagini. Così come sottolineato anche nella già citata pronunzia di questa corte (Sez. 5, 3 marzo 2009, Rv. 244199), occorre “muovere dal rilievo che l’interesse tutelato dall’art. 610 cod. pen. è la libertà morale, da intendersi come libertà di determinarsi spontaneamente secondo motivi propri: alla libertà morale va quindi ricondotta sia la facoltà di formare liberamente la propria volontà, sia quella di orientare i propri comportamenti in conformità delle determinazioni liberamente prese. In altri termini, come osservato anche dalla dottrina, è troppo restrittiva, ai fini che ci occupano, la definizione di libertà morale come libertà di autodeterminazione perché essa identifica solo un aspetto della libertà morale e non consente di includervi gli altri aspetti tutelati sotto tale oggettività giuridica, dalla libertà di autodeterminazione secondo motivi propri, fino alla tranquillità psichica (nel senso della necessaria inclusione della libertà psichica nella oggettività della norma in esame, v. rv 200681). La condotta illecita che si manifesti nella forma della violenza, d’altro canto, è, per la costante giurisprudenza, anche quella impropria, esplicabile in forme molteplici dirette ad esercitare pressioni sulla volontà altrui al fine di impedire una libera manifestazione. La giurisprudenza di questa Corte, inoltre, ammette che integri il reato di violenza privata la condotta che consista nel compimento deliberato di manovre insidiose al fine di interferire con la libertà di determinazione della persona offesa (vedi in senso analogo rv 222349). Infatti non è richiesta, per larga parte della giurisprudenza, una condotta esplicitamente connotata da violenza o minaccia, posto che il requisito della violenza si identifica in qualsiasi messo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (rv 234458; rv 232459). Ed è irrilevante, per la consumazione del reato, che la condotta criminosa si protragga nel tempo, trattandosi di reato istantaneo (rv 228063). Nella specie tale è la situazione che si è verificata poiché l’avere introdotto una telecamera sotto la porta del bagno in modo da captare immagini intime della persona che ivi si era chiusa, ha realizzato appieno la imposizione insidiosa di una costrizione che è stata quella, anche relativa al solo brevissimo tempo in cui la parte si è avveduta della ripresa in corso, prima di attuare una manovra reattiva che necessariamente ha comportato tempi tecnici, di subire l
a videoripresa della propria sfera intima. È cioè accaduto che se in pratica il dissenso della persona offesa ha avuto modo di manifestarsi con quasi-immediatezza, è anche vero che la condotta dell’agente è stata consapevolmente e deliberatamente posta in essere contro il dissenso ragionevolmente prevedibile e solo successivamente manifestato dalla persona offesa”. Nel caso in esame l’imputato ha costretto le donne, le adolescenti e i bambini che hanno utilizzato le docce e lo spogliatoio della piscina comunale di Atri a subire, durante lo svolgimento di attività relative alla propria sfera intima, captazioni di immagini in relazione alle quali è assolutamente ipotizzabile che, nel caso ne fossero stati consapevoli, avrebbero espresso il loro dissenso. Molte di quelle persone sono rimaste vittime ancora della privazione coattiva della loro libertà di determinazione quando hanno dovuto visionare alla presenza di terzi le immagini e subire, in tal modo, l’ulteriore imbarazzo dell’ostensione delle proprie nudità. 2.3. I fatti oggetto dell’imputazione vanno dunque ricondotti nella fattispecie di cui agli artt. 81 e 610 cod. pen. Si tratta con evidenza di una riqualificazione giuridica che rientra nei poteri di cognizione officiosa di questa corte, essendo stato dato specifico preliminare avviso alle parti in sede di discussione (Sez. 2, n. 3211 del 20/12/2013, Rade Cardazzi e altro, Rv. 258538; Sez. 2, n. 37413 del 15/05/2013, Drassich, Rv. 256651), non trattandosi di definizione giuridica relativa a reato più grave (Sez. 2, n. 50659 del 18/11/2014, Fumarola e altro, Rv. 261696) ed essendo essa, peraltro, ulteriore espressione di principi già affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità. 3. È manifestamente infondato il motivo di ricorso con il quale è stata dedotta la violazione della legge processuale in relazione all’art. 649 cod. proc. pen.. Il ricorrente ha sostenuto che erroneamente sia il giudice di primo grado che la corte territoriale avevano negato la sussistenza dei presupposti per applicare il disposto della appena citata norma processuale, essendo egli stato assolto dal G.U.P. del Tribunale di L’Aquila (con sentenza dell’undici gennaio 2010) dal reato di cui all’art. 600 ter cod. pen.. Il fatto contestato era relativo sempre ai filmati di minori nei locali delle docce della piscina comunale di Atri e alla conseguente produzione di materiale pedopornografico. Si evince dalle sentenze dei giudici di merito che l’imputazione di cui alla sentenza del G.U.P. richiamata era articolata nel seguente modo: “”del reato p. e p. dall’art. 600 ter comma 1 cod. pen. perché, quale istruttore di nuoto presso la piscina comunale di Atri installava all’interno dei locali doccia della predetta struttura una telecamera nascosta attraverso la quale produceva materiale pornografico filmando a loro insaputa soggetti minori degli anni diciotto nudi e nell’atto di fare la doccia””. Si evince pure che il G.U.P. ha assolto l’imputato non per insussistenza dei fatti ma perché ha ritenuto che fosse configurabile il diverso reato di cui all’art. 615 bis cod. pen., in relazione al quale ha rilevato la carenza delle querele. È del tutto evidente come non possa operare nel caso di specie la preclusione del “ne bis in idem”, giacché tra i fatti oggetto della imputazione sopra riportata e quelli oggetto di esame in questa sede è configurabile un’ipotesi di “concorso formale di reati” (si veda, tra le più recenti in materia, Sez. 3, n. 50310 del 18/09/2014, Scandroglio, Rv. 261516), avuto riguardo ai diversi beni giuridici tutelati dagli artt. 600 ter e 610 cod. pen.. Il delitto di pornografia minorile è finalizzato ad una tutela penale anticipata della libertà sessuale del minore, reprimendo quei comportamenti prodromici che, anche se non necessariamente a fine di lucro, ne mettono a repentaglio il libero sviluppo personale con la mercificazione del suo corpo e l’immissione nel circuito perverso della pedofilia (Sez. U, n. 13 del 31/05/2000, PM in proc. Bove, Rv. 216337). Il delitto di violenza privata, invece, protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione (tra le più recenti, Sez. 5, n. 2283 del 11/11/2014, C, Rv. 262727). Anche se superfluo, per la ritenuta diversa qualificazione giuridica dei fatti, va brevemente evidenziato che è configurabile un’ipotesi di “concorso formale di reati” anche tra le fattispecie di cui all’art. 600 ter e 615 bis cod. pen., in tal senso risultando quindi corretta la valutazione operata dai giudici di merito. 4. Manifestamente infondato è pure il motivo di ricorso con il quale è dedotta violazione di legge processuale per inosservanza degli artt. 189 e 190 cod. proc. pen. in relazione all’art. 213. Come si è detto, è stata contestata dal ricorrente la “valenza probatoria” delle “ricognizioni” effettuate dalle persone offese, alle quali erano state mostrate le immagini nelle quali le stesse si erano riconosciute. È del tutto evidente, anche per quello che si è detto in ordine allo svolgimento delle indagini, che del tutto impropriamente viene richiamata dalla difesa la normativa in materia di ricognizioni. Infatti, correttamente i giudici di merito, anche in ragione del rito abbreviato con il quale si è proceduto, hanno utilizzato a fini probatori i verbali nei quali si è attestata l’attività con la quale le persone offese hanno visionato i filmati trovati in possesso dell’imputato e hanno riconosciuto le proprie immagini. 5. Deve precisarsi che, così come richiesto anche dalla difesa in sede di discussione, è maturato ulteriormente il termine di prescrizione in relazione ai fatti contestati sino al 14 novembre 2007. Va, quindi, annullata senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai fatti consumati sino alla suddetta data, perché il reato è estinto per prescrizione. Dovendo procedersi alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, s i impone anche l’annullamento della sentenza in relazione ai fatti commessi fino al 2009, con rinvio alla Corte di Appello di Perugia (non avendo altra sezione la Corte di Appello di L’Aquila). In ragione di ciò non viene trattato l’ultimo motivo proposto in ricorso proprio in ordine al diniego delle attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena. È del tutto ovvio che, in ragione di quanto disposto dall’art. 624 cod. proc. pen., l’annullamento con rinvio finalizzato solo alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio comporta il passaggio in giudicato della sentenza in relazione alla responsabilità dell’imputato, sicché nel giudizio di rinvio non può ulteriormente decorrere il termine di prescrizione. Invero, qualora – come nel caso in esame- venga rimessa al giudice del rinvio esclusivamente la questione relativa alla determinazione della pena, il giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l’applicazione di cause estintive sopravvenute all’annullamento parziale (Sez. U, Sentenza n. 4904 del 26/03/1997, Rv. 207640; Sez. 3, Sentenza n. 15101 del 11/03/2010 Rv. 246616; Sez. 2, Sentenza n. 8039 del 09/02/2010 Rv. 246806). Come è noto la ratio di tali conclusioni si rinviene nella specialità della forza precettiva dell’art. 624, comma 1, cod.proc.pen., che sancisce: “se l’annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata”. Quindi è tale disposizione che espressamente riconosce l’autorità del giudicato sia ai capi che ai punti della sentenza non oggetto di annullamento (Sez. un., 19.1.2000, Tuzzolino; si vedano pure Sez. 2, n. 44949 del 17/10/2013, Rv. 257314; Sez. 6, n. 45900 del 16/10/2013, Rv. 257464; Sez. 2, n. 8039 del 09/02/2010, Rv. 246806). La decisione relativa alle spese sostenu
te dalle parti civili va rimessa alla sentenza definitiva.
P.Q.M.
La Corte, qualificato il fatto come violenza privata (art. 610 cod. pen.), annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai fatti consumati sino al 14 novembre 2007, perché il reato è estinto per prescrizione. Annulla quanto ai fatti commessi fino al 2009 con rinvio alla Corte di Appello di Perugia per la determinazione del trattamento sanzionatorio.