Si è concluso il 27 settembre 2016, davanti alla Corte Penale Internazionale, il processo a carico di Ahmad Al Faqi Al Mahdi, lo jihadista condannato a nove anni di reclusione per aver intenzionalmente diretto nel 2012 l’attacco contro gli edifici dedicati al culto e i monumenti storici della città di Timbuktu, in Mali, già dichiarati patrimonio dell’UNESCO.
Una vicenda che ha calamitato su di sé le attenzioni del mondo intero per la evidente rilevanza dei fatti.
Si tratta, infatti, del primo processo nel quale la distruzione del patrimonio artistico e culturale viene qualificata “as a war crime”: come già statuito dalla Corte Penale Internazionale in sede di prima informazione, i mausolei distrutti erano considerati una parte fondamentale del patrimonio culturale di Timbuktu e non costituivano obiettivi militari. Essi, pertanto, sarebbero stati specificamente individuati proprio in considerazione del loro carattere religioso e storico e, come conseguenza dell’attacco, sono stati completamente distrutti o gravemente danneggiati.
Ma il caso Al Faqi Al Mahdi costituisce un unicum anche sotto altri aspetti: non solo l’uomo ha ammesso la propria colpevolezza rispetto ai fatti addebitatigli, ma il coinvolgimento di un gruppo fondamentalista islamico connota di particolare significato l’intervento della Corte dell’Aja, che si fa portatrice di un generale sentimento di sdegno nei confronti dei recenti attacchi contro il patrimonio culturale mondiale.
Dopo un’attenta analisi della vicenda e delle modalità attraverso le quali essa si è svolta, la Corte opera, in assenza di precedenti giurisprudenziali che possano guidare la risoluzione del caso concreto, una ricognizione del tessuto normativo esistente a tutela del patrimonio culturale e religioso dei popoli, evidenziando che lo speciale regime di tutela previsto dal diritto internazionale si applica anche ai conflitti armati di carattere non internazionale, quale è stato quello del caso di specie.
In dettaglio, in seguito ad un attacco armato iniziato a gennaio del 2012 nella parte settentrionale del territorio del Mali, i gruppi di Ansar Dine e Al-Qaeda nel Maghreb islamico (‘AQIM’) hanno preso il controllo di Timbuktu, imponendo la sharia nelle zone occupate attraverso un governo locale, comprensivo di un tribunale islamico e di una forza di polizia islamica, cd. Hesbah o “brigata della moralità”, di cui Al Mahdi era a capo.
Lo jihadista, tra il mese di aprile e quello di settembre del 2012, ha operato in stretta collaborazione con i leader dei due gruppi armati, partecipando all’esecuzione delle sentenze della corte islamica di Timbuktu e portando a termine la distruzione di monumenti storici e di edifici dedicati alla religione ritenuti idolatri, in particolare nove mausolei e una moschea, tutti patrimonio dell’umanità.
Come precisa la Corte, “the admission of guilt is supported by the facts of the case”.
Nella valutare la gravità del reato commesso, previsto dall’Articolo 8(2)(e)(iv) dello Statuto di Roma, la CPI afferma che “Timbuktu is at the heart of Mali’s cultural heritage…The mausoleums reflected part of Timbuktu’s history and its role in the expansion of Islam…” e che la circostanza che gli edifici distrutti non avessero solo un carattere religioso, ma altresì “a symbolic and emotional value” per gli abitanti del luogo, è di importanza fondamentale.
Ciononostante, la Corte, pur riconoscendo il ruolo attivo svolto dallo jihadista nella commissione del fatto di reato ha individuato nella determinazione della pena ben cinque circostanze attenuanti: l’ammissione di colpa di Al Mahdi; la sua collaborazione con la procura; il fatto che abbia chiesto perdono alle vittime; la sua iniziale riluttanza a commettere il reato e le misure adottate per limitare i danni causati e, anche se in via del tutto marginale, la sua buona condotta durante la detenzione. Tenendo conto di tutti questi fattori, la Corte ha condannato Al Mahdi a 9 anni di reclusione.
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