Home Approfondimenti Riconosciuto anche in Italia il diritto di un minore ad avere due...

Riconosciuto anche in Italia il diritto di un minore ad avere due mamme.

1422
0
CONDIVIDI
Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Civile.

Riconosciuto anche in Italia il diritto di un minore ad avere due mamme.

Anche in Italia sarà possibile per un bambino avere due madri.

Infatti, con la sentenza n. 19599 del 30 settembre 2016, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su un ricorso proposto dalla Procura Generale di Torino e dal Ministero dell’Interno, ha stabilito che la trascrizione in Italia di un atto di nascita, formato in Spagna e valido per il diritto spagnolo, di un bambino che risulta figlio di due donne coniugate in quel paese – una spagnola, che l’ha partorito, e una italiana, che ha donato l’ovulo – non è contraria alla nozione di ordine pubblico.

Ad avviso della Suprema Corte, infatti, il principio di ordine pubblico deve essere rivisto in chiave europea e, pertanto, i suoi principi devono essere ricercati esclusivamente in quelli supremi e/o fondamentali della nostra Carta Costituzionale, dei Trattati fondativi e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, con la conseguenza che un contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme nel contenuto a una o più disposizioni di diritto nazionale, soprattutto se queste, come nel caso in esame, non rappresentano una minaccia reale, attuale e grave nei confronti di un interesse fondamentale della società.

Pertanto, alla luce del principio appena enunciato, i Giudici di Piazza Cavour hanno statuito che, ai fini della trascrizione o meno dell’atto di nascita formato in Spagna, alcun rilievo può avere la difformità di tale atto con la normativa nazionale in tema di procreazione medicalmente assistita (L. n. 40 del 2004), dovendosi tenere conto, solo ed esclusivamente, della tutela del superiore e preminente interesse del minore.

E, proprio in base a tale prospettiva, prosegue la Corte, non v’è dubbio che il contestato atto di nascita debba essere trascritto e spiegare i suoi effetti anche in Italia e ciò alla luce di quanto stabilito dalla Convenzione sui Diritti del Fanciullo di New York, dalla Convenzione Europea sull’esercizio dei Diritti dei Fanciulli, dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché da numerose decisioni della Corte EDU e della Corte Costituzionale, le quali hanno stabilito, non solo, che in tutte le decisioni relative ai fanciulli il giudice deve valutare come preminente l’interesse superiore del minore, ma, anche, il diritto del minore all’integrazione nella famiglia di origine fin dalla nascita e alla continuità dei rapporti con i suoi familiari.

Invero, conclude la Suprema Corte, il mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione, legalmente esistente in Spagna, determinerebbe una situazione di grave danno per il minore che influirebbe negativamente sulla definizione della sua identità personale, comportando un’inaccettabile discriminazione nei confronti di quest’ultimo, perpetrata sulla scorta di una difformità dell’atto di nascita formato all’estero con una disposizione di diritto interno e causata dalla scelta di coloro che lo hanno messo al mondo di utilizzare una pratica di procreazione assistita non consentita in Italia, comportamento del quale, come è ovvio, non può rispondere il bambino che è nato e che ha un diritto fondamentale alla conservazione dello status legittimamente acquisito all’estero.

 

 

 

Cassazione civile, sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599

 

Fatto

 

1.- Le signore R.V.M., cittadina spagnola, e B.L.I.M., cittadina italiana, hanno contratto matrimonio in Spagna il 20 giugno 2009; dal certificato di nascita del minore T., nato a (OMISSIS), risulta che entrambe sono madri: la M. (“madre A”) lo ha partorito e la B. (“madre B”), avendo donato gli ovuli necessari per il concepimento mediante procreazione medicalmente assistita, è madre genetica di T., che è cittadino spagnolo e porta i cognomi delle due donne.

Entrambe hanno chiesto congiuntamente la trascrizione dell’atto di nascita in Italia, ma l’ufficiale dello stato civile di Torino ha opposto un rifiuto per ragioni di ordine pubblico; successivamente, hanno divorziato consensualmente in Spagna, sulla base di un accordo, sottoscritto dalle parti in data 21 ottobre 2013, che prevede l’affidamento congiunto del minore ad entrambe con condivisione della responsabilità genitoriale.

2.- il ricorso avverso il diniego dell’ufficiale di stato civile è stato rigettato dal Tribunale di Torino il quale, per quanto ancora interessa, ha ritenuto infondata la domanda di trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero, perché contrastante con il principio, di ordine pubblico, in base al quale nell’ordinamento italiano madre è soltanto colei che ha partorito il bambino.

3.- il decreto del Tribunale è stato reclamato dalle signore M. e B., le quali hanno chiesto: di dichiarare esistente il rapporto di filiazione tra il minore T. e la B., a norma della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 33, (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato); di accertare la sussistenza dei requisiti di legge per il riconoscimento dell’atto di nascita nello Stato Italiano ed il conseguenziale diritto del minore di acquistare la nazionalità italiana; di ordinare all’Ufficiale dello stato civile di provvedere alla trascrizione e/o annotazione dell’atto di nascita del minore.

La Corte d’appello di Torino, con decreto del 4 dicembre 2014, in accoglimento del reclamo, ha ordinato all’Ufficiale dello stato civile di Torino di trascrivere l’atto di nascita di T..

La Corte ha premesso che il rapporto di filiazione tra la B. e il minore e la cittadinanza di quest’ultimo sono regolati dal diritto internazionale privato e, in particolare, dalla L. n. 218 del 1995, art. 33, che rimette ogni determinazione al riguardo alla legge nazionale del figlio; pertanto, essendo T. figlio (anche) di una cittadina italiana (la B.), secondo il diritto spagnolo, egli è anche cittadino italiano, a norma della L. 5 febbraio 1992, n. 91, art. 2, (Nuove norme sulla cittadinanza), e quindi l’atto di nascita è trascrivibile nei registri dello stato civile italiano, a norma del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 17, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), restando precluso al giudice italiano di sovrapporre autonomi accertamenti sulla validità di un titolo formato all’estero secondo la legge straniera.

Per i giudici di merito, la nozione di ordine pubblico, ai fini del diritto internazionale privato, deve essere valutata sotto il profilo dell’ordine pubblico internazionale e, quindi, in termini di conformità al complesso dei principi caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico e fondati sulle esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, comuni ai diversi ordinamenti e, quindi, sulla base di valori condivisi nella comunità giuridica sovranazionale, di cui parte importante è la giurisprudenza della Corte Edu ex art. 117 Cost., comma 1, e della Corte di giustizia UE, valori tutti da interpretare in correlazione all’interesse superiore del minore.

Tanto premesso, la sentenza impugnata ha escluso la violazione del principio di ordine pubblico con riguardo ai diversi profili considerati: in ordine alla presunta incomparabilità con la nozione di “famiglia”, intesa dal diritto italiano come unione di persone di sesso diverso, alle quali soltanto sarebbe data la possibilità di avere figli, la Corte di merito ha evidenziato la rilevanza costituzionale delle unioni di persone dello stesso sesso (art. 2 Cost.), i cui componenti sono titolari del diritto alla “vita familiare” (e non solo alla vita privata) e, in definitiva, del diritto inviolabile – azionabile a prescindere dall’intervento del legislatore ordinario in materia – di vivere liberamente la propria condizione di coppia e di ricevere un trattamento omogeneo a quello assicurato alle coppie eterosessuali; in ordine alla mancata derivazione del nato da un evento, come il parto, considerato dal nostro ordinamento come essenziale per il riconoscimento della filiazione materna (art. 269 c.c., comma 3), la Corte ha posto l’accento sul rilievo decrescente conferito dall’ordinamento all’aspetto biologico o genetico nella determinazione della maternità, come della paternità, e sul rilievo invece crescente attribuito ai profili della volontarietà e della responsabilità genitoriale: indicazioni in tal senso ha tratto sia dalla legittimità delle pratiche di procreazione medicalmente assistita (PMA) di tipo eterologo, che consentono di attribuire la maternità e la paternità a coloro che, indipendentemente dall’apporto genetico, abbiano voluto il figlio, accettando di sottoporsi alle regole deontologiche e giuridiche che disciplinano tali pratiche, sia dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha individuato nel concetto di responsabilità genitoriale il profilo caratterizzante il rapporto di filiazione.

Inoltre, ad avviso della Corte, la valutazione dell’interesse del bambino deve essere operata non sul piano del rapporto tra i partners, ma con riferimento allo status e alla tutela del figlio, senza introdurre ex novo una situazione giuridica inesistente, ma garantendo la copertura giuridica ad una situazione in essere da anni, nell’esclusivo interesse del bambino, cresciuto da due donne che la legge spagnola riconosce entrambe come madri: in tale interesse è implicito un divieto di disconoscimento di un rapporto, anche di fatto, validamente costituito fra la co-madre (la B.) e il figlio.

Ulteriori argomenti la Corte ha tratto dalle due sentenze della Corte Edu del 26 giugno 2014 (Mennesson e Labassee c. Francia), che hanno ravvisato la violazione dell’art. 8 della Convenzione nel diniego opposto dalla Francia al riconoscimento del rapporto di filiazione e alla registrazione nei registri dello stato civile degli atti di nascita di bambini, legalmente formati in uno Stato estero, da due coppie di sesso diverso che avevano fatto ricorso, in quei casi, alla pratica della maternità surrogata (mediante donazione dei gameti maschili a due donne, estranee alle coppie, che avevano partorito), secondo modalità conformi alla legge del luogo di nascita.

In conclusione, secondo la Corte torinese, la mancata trascrizione dell’atto di nascita di T. comprimerebbe il diritto alla sua identità personale e al suo status in Italia, sul cui territorio egli non avrebbe alcuna relazione parentale: Né con la B., che pure è la sua madre genetica (avendo donato l’ovulo), Né con i parenti di quest’ultima, con la conseguenza che nessuno potrebbe esercitare la responsabilità genitoriale nei suoi confronti e rappresentarlo nei rapporti con le istituzioni sanitarie e scolastiche e che sarebbe persino problematico per la B. tenerlo con sè e spostarsi insieme a lui, senza considerare l’incertezza giuridica in cui il bambino si troverebbe nella società italiana, anche per la perdita dei diritti successori nei confronti della famiglia della B.. Tali pregiudizi sarebbero infine aggravati in considerazione del fatto che la M. e la B. hanno divorziato consensualmente e che il bambino è stato affidato ad entrambe le madri, con condivisione della responsabilità genitoriale, cui consegue la necessità del loro reciproco consenso per prendere ed eseguire le decisioni più importanti, relative all’educazione, alla salute e agli spostamenti all’estero del minore.

Avverso il suddetto decreto hanno proposto ricorsi per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino, sulla base di un complesso motivo, e il Ministero dell’interno, sulla base di due motivi. Resistono ad entrambi i ricorsi, con distinti controricorsi, la B. e la Varella. Le parti hanno presentato memorie.

 

Diritto

 

1.- Nell’odierna udienza di discussione il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto, in via preliminare, la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, perché involgente una questione di massima di particolare importanza.

La predetta richiesta non può essere accolta.

Il Collegio osserva innanzitutto che, secondo il consolidato e condiviso orientamento di questa Corte (cfr., ex plurimis, le sent. n. 4219 del 1985, 359 del 2003, 8016 del 2012), l’istanza di parte volta all’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, formulata ai sensi dell’art. 376 c.p.c. (nella specie, ai sensi del terzo comma dello stesso art. 376) e dell’art. 139 disp. att. c.p.c., costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, che non solo non è soggetto ad un dovere di motivazione, ma non deve neppure necessariamente manifestarsi in uno specifico esame e rigetto di essa.

Fermo restando quanto ora ribadito, si deve comunque osservare che la funzione nomofilattica è attribuita anche alle sezioni semplici di questa Corte dall’art. 65 Ord. Giud., Né può ritenersi che tutte le questioni riguardanti diritti individuali o relazionali di più recente emersione e attualità siano per ciò solo qualificabili come “di massima di particolare importanza”, nell’accezione di cui all’art. 374 c.p.c., comma 2, (cfr. la sentenza n. 12962 del 2016).

2.- Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino, a sostegno del ricorso, proposto a norma dell’art. 111 Cost., comma 7, avverso un provvedimento avente carattere decisorio, incidente su diritti soggettivi, e definitivo, ha denunciato la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, art. 269 c.c., comma 3, e L. n. 218 del 1995, art. 65, imputando alla Corte di merito di avere erroneamente escluso la contrarietà all’ordine pubblico di un atto di nascita, quale quello di specie, nel quale risulta che due donne sono madri dello stesso figlio.

In particolare, il decreto impugnato avrebbe erroneamente valorizzato alcune pronunce della Corte Edu del 2014, senza tuttavia considerare che la stessa Corte aveva riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento discrezionale in materia, anche con riferimento alle pratiche di maternità surrogata, che in Italia sono vietate alle coppie dello stesso sesso, a norma della L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 12, comma 2, (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), non inciso dalla sentenza della Corte cost. n. 162 del 2014, che ha ammesso la fecondazione eterologa, al solo scopo di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana nelle coppie di sesso diverso, ma non di consentire di generare un figlio geneticamente o biologicamente riconducibile a due individui dello stesso sesso.

Inoltre, ad avviso del Procuratore Generale, la filiazione come discendenza da persone di sesso diverso è principio – desumibile dall’art. 269 c.c., comma 3, in base al quale può essere riconosciuta madre del bambino solo colei che lo partorisce – che assurge al rango di principio di ordine pubblico e di diritto naturale, fondamentale e immanente nell’ordinamento, non essendo ammissibile l’attribuzione della maternità a due donne e non rilevando Né la circostanza che la nascita sia avvenuta nell’ambito di un rapporto matrimoniale tra persone dello stesso sesso, inidoneo a produrre effetti nel nostro ordinamento, Né il richiamo all’interesse del minore di vedere garantita la conservazione del rapporto genitoriale con la madre genetica (la B.), trattandosi di una mera situazione di fatto non tutelabile.

3.- Il Ministero dell’Interno, a sua volta, ha denunciato, nel primo motivo, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, per avere la Corte torinese accolto una “definizione eccessivamente estesa di ordine pubblico”, che finirebbe per svuotare di significato la stessa norma italiana che quel limite pone a salvaguardia dell’insieme di principi e valori ritenuti fondamentali dal legislatore, tra i quali quello della imprescindibile differenza di sesso tra i genitori, quale requisito indispensabile per il riconoscimento del rapporto di filiazione nei confronti di un terzo soggetto. E non sarebbero pertinenti le due richiamate sentenze della Corte Edu (Mennesson e Labbasse c. Francia, del 26 giugno 2014), sia perché da esse non potrebbe farsi discendere automaticamente un obbligo per l’Italia di trascrivere un atto di nascita attestante una doppia maternità – che contrasterebbe con l’ordine pubblico, anche tenuto conto del notevole margine di apprezzamento che, come precisato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 24001 del 2014, riconosciuto agli Stati – sia perché le citate sentenze della Corte di Strasburgo riguardano coppie eterosessuali e, quindi, situazioni non assimilabili a quella in esame.

Nel secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione della citata L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 9, che confermerebbero il principio in base al quale la nozione di filiazione è intesa nel nostro ordinamento quale discendenza da persone di sesso diverso, avendo il legislatore posto un chiaro limite di carattere soggettivo alla possibilità di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), precludendola alle coppie dello stesso sesso con una norma (art. 5) che è ancora in vigore (anche dopo la rimozione del divieto di fecondazione eterologa da parte della Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014) e la cui violazione è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria a carico di chiunque applichi tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie di persone dello stesso sesso (art. 12, comma 2); inoltre, alla possibilità di riconoscere l’esistenza di un rapporto di filiazione tra la controricorrente B. e T. osterebbe anche l’art. 9, comma 3, il quale prevede, in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, che il donatore di gameti non acquisisca alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non possa far valere nei suoi confronti alcun diritto Né essere titolare di obblighi.

3.1.- Le controricorrenti hanno eccepito

l’inammissibilità del ricorso del Ministero dell’interno, in quanto notificato ritualmente ma tardivamente il 24 giugno 2015, quindi oltre il termine di sei mesi dal 4 dicembre 2014, di cui all’art. 327 c.p.c..

L’eccezione è infondata. La suddetta notifica è stata preceduta da altra notifica tempestiva, in data 14 maggio 2015, non andata a buon fine, sebbene effettuata al medesimo indirizzo esatto, a causa dell’incompleta indicazione del cognome del difensore domiciliatario (Gerardo Fortunato, anziché Gerardo Fortunato Tita). Il principio (enunciato da Cass. n. 748/2015, n. 3356/2014) secondo cui è tempestiva la notifica dell’atto di impugnazione che, tentata in pendenza del termine per impugnare, non sia andata a buon fine per cause indipendenti dalla volontà del notificante, se tempestivamente rinnovata, è applicabile anche nel caso, quale quello di specie, in cui la prima notifica non sia andata a buon fine per mero errore materiale nella (incompleta) trascrizione del cognome del difensore destinatario, sebbene effettuata al medesimo indirizzo esatto, a nulla rilevando che la seconda notifica si sia perfezionata dopo lo spirare del termine per l’impugnazione.

4.- Entrambi i ricorsi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

La questione che si pone, per la prima volta all’esame di questa Corte, consiste nello stabilire se la trascrizione in Italia (nella specie, richiesta all’Ufficiale dello stato civile di Torino) dell’atto di nascita, formato in Spagna e valido per il diritto spagnolo, di un bambino che risulti figlio di due donne coniugate in quel Paese – una spagnola (la M.), che l’ha partorito, e una italiana (la Ba Y), che ha donato l’ovulo (nell’atto integrale di nascita esse sono indicate come “madre A” e “madre B”) – sia consentita oppure contrasti con l’ordine pubblico, a norma del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, e L. n. 218 del 1995, art. 65.

Premesso che T. è figlio, in Spagna, di entrambe le donne e cittadino spagnolo perché nato da cittadina di quel Paese, il decreto impugnato ha ritenuto che egli sia (anche) cittadino italiano, perché figlio anche di una cittadina italiana in base ad un atto valido secondo il diritto spagnolo e, quindi, trascrivibile in Italia, a norma del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 17, (che disciplina la trascrizione degli atti formati all’estero e relativi ai cittadini italiani).

Tale conclusione della Corte di merito è condivisibile all’ovvia condizione che l’atto di nascita straniero non sia incompatibile con l’ordine pubblico e, quindi, sia riconoscibile in Italia come titolo valido per la costituzione del rapporto di filiazione nei confronti della madre genetica (la B.), rapporto che costituisce il presupposto dell’acquisto della cittadinanza italiana, per il combinato disposto della L. n. 91 del 1992, art. 1, comma 1, lett. a), e art. 2, comma 1. In altri termini, l’essere cittadino italiano di T. dipende dall’accertamento dell’esistenza di un rapporto di filiazione che sia valido (anche) per il diritto italiano: tale accertamento costituisce il presupposto (logico e giuridico) della questione relativa alla cittadinanza italiana, che nel giudizio di merito il Ministero ha contestato in via meramente incidentale e consequenziale rispetto a quella relativa allo status filiationis di T. nel suo rapporto con la B. secondo il diritto italiano.

È opportuno precisare che sulla questione della cittadinanza non v’è uno specifico motivo di censura da parte dei ricorrenti in questa sede.

6.- La Corte torinese, in conformità alla giurisprudenza di legittimità, ha osservato che lo status di figlio, a norma della L. n. 218 del 1995, art. 33, commi 1 e 2, (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla sostituzione operata dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 101, comma 1, lett. a), determinato dalla sua legge nazionale al momento della nascita, cui è demandato di regolare presupposti ed effetti del relativo accertamento – ove, come nella specie, manchino norme di diritto interno di applicazione necessaria (citata L. del 1995, art. 17) -, sicché quello status dipende dai provvedimenti accertativi dello Stato estero di nascita, con divieto per il giudice italiano di sovrapporre propri accertamenti e fonti di informazione nazionali o estranee (cfr. Cass. n. 15234 del 2013, n. 367 e 14545 del 2003).

Tuttavia, sebbene l’atto di nascita di T. (nel quale egli risulta essere figlio di due donne) sia valido per il diritto spagnolo richiamato dalla L. n. 218 del 1995, art. 33, commi 1 e 2, ai fini del riconoscimento in Italia del suo principale effetto, che è la costituzione di un rapporto di filiazione in Italia con la B. (donatrice dell’ovulo e, quindi, madre genetica), è necessario verificare se quell’atto sia contrario all’ordine pubblico, in applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 65 (e art. 16), e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, norme in rapporto (correttamente definito dal Ministero dell’interno in termini) di complementarietà: l’atto di stato civile formato all’estero validamente secondo la legge straniera ma, in ipotesi, contrario all’ordine pubblico non produrrebbe effetti in Italia, da ciò conseguendo l’impossibilità di trascriverlo. Questa verifica è stata adeguatamente compiuta dalla Corte torinese sulla base di argomentazioni infondatamente censurate dai ricorrenti.

A quest’ultimo riguardo, è indispensabile soffermarsi sul contenuto e sull’evoluzione della nozione di ordine pubblico nella giurisprudenza di legittimità.

7.- Si è avuta una progressiva evoluzione nell’interpretazione della nozione di ordine pubblico (cui si aggiungeva, nell’abrogato art. 31 disp. gen., il richiamo al buon costume), inteso originariamente come espressione di un limite riferibile all’ordinamento giuridico nazionale, ai fini della salvaguardia di determinate concezioni di ordine morale e politico, particolarmente affermate nella società statuale e assunte dal legislatore (ordinario) a criteri direttivi e informatori della sua opera. Specialmente intorno agli anni Trenta dello scorso secolo, la nozione di ordine pubblico era funzionale ad escludere l’applicabilità delle norme straniere costituenti espressione di principi etici contrastanti con quelli dell’ordinamento interno in un determinato momento storico, o più precisamente con quei principi a cui lo Stato “non può o non crede di dover rinunziare” ovvero con i “sommi inderogabili canoni del nostro sistema positivo” (Cass., sez. un., n. 1220 del 1964; n. 3881 del 1969). La nozione di ordine pubblico in senso internazionale veniva ritenuta non pertinente, in quanto troppo astratta (cfr. Cass. n. 818 del 1962), oppure legata ai principi dell’ordinamento interno, cioè alle regole di contenuto rigido, aderenti alle esigenze peculiari del singolo Stato e perciò destinate ad operare solo nel suo ambito. La conseguenza era di impedire l’applicazione, nel territorio dello Stato, di qualsiasi disposizione del diritto straniero non conforme a quelle norme di diritto interno che dal giudice fossero ritenute rappresentative di uno stabile assetto normativo nazionale.

A questa concezione di ispirazione statualista se ne è opposta un’altra, di maggiore apertura verso gli ordinamenti esterni e più aderente agli artt. 10 e 11 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, e alla corrispondente attuale posizione dell’ordinamento italiano in ambito internazionale. Tale più aperta concezione si fonda su una maggiore partecipazione dei singoli Stati alla vita della comunità internazionale, la quale sempre meglio è capace di esprimere principi generalmente condivisi e non necessariamente tradotti in norme interne, così da sottrarre la nozione di ordine pubblico internazionale sia ad un’eccessiva indeterminatezza sia ad un legame troppo rigido con i mutevoli contenuti delle legislazioni vigenti nei singoli ordinamenti nazionali. Se l’ordine pubblico si identificasse con quello esclusivamente interno, le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto analogo a quelle italiane, cancellando la diversità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato (cfr. Cass. n. 10215 del 2007, n. 14462 del 2000).

Questa evoluzione della nozione di ordine pubblico segna un progressivo e condivisibile allentamento del livello di guardia tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di norme, istituti giuridici e valori estranei. Se ne ha conferma nella normativa comunitaria, che esclude il riconoscimento delle decisioni emesse in uno Stato membro (ora previsto come automatico) nei soli casi di “manifesta” contrarietà all’ordine pubblico (cfr., ad es., l’art. 34 del regol. CE 22 dicembre 2001 n. 44, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; l’art. 26 del regol. CE 11 luglio 2007 n. 864, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali; l’art. 22 e 23 del regol. CE 27 novembre 2003, n. 2201, in tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e della responsabilità genitoriale; l’art. 24 del regol. CE 18 dicembre 2008, n. 4/2009, in materia di obbligazioni alimentari). Nella giurisprudenza comunitaria il ricorso al limite dell’ordine pubblico presuppone l’esistenza di una minaccia reale, attuale e grave nei confronti di un interesse fondamentale della società (cfr. Corte giust. UE, 4 ottobre 2012, C-249/11, per giustificare le deroghe alla libera circolazione delle persone invocabili dagli Stati membri).

Nella giurisprudenza di legittimità più recente prevale il riferimento all’ordine pubblico internazionale, da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati a un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria (cfr., tra le tante, Cass. n. 1302 e 19405 del 2013, n. 27592 del 2006, n. 22332 del 2004, n. 17349 del 2002). Il legame, pur sempre necessario con l’ordinamento nazionale, è da intendersi limitato ai principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione (già secondo Corte cost. n. 214 del 1983, la verifica del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale costituisce un “passaggio obbligato della tematica dell’ordine pubblico”), ma anche – laddove compatibili con essa (come nella materia in esame) – dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

In altri termini, i principi di ordine pubblico devono essere ricercati esclusivamente nei principi supremi e/o fondamentali della nostra Carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario (non sarebbe conforme a questa impostazione, ad esempio, l’orientamento espresso da Cass. n. 3444 del 1968 che, in passato, negava ingresso alle sentenze straniere di divorzio, solo perché la legislazione ordinaria dell’epoca stabiliva l’indissolubilità del matrimonio, sebbene detta indissolubilità non esprimesse alcun principio o valore costituzionale essenziale; v. Corte cost. n. 169 del 1971 sulla dissolubilità degli effetti civili del matrimonio concordatario).

Ciò significa che un contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituto (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario. La ricerca di tali principi – è opportuno precisare – richiede una delicata operazione ermeneutica che non si fermi alla lettera della disposizione normativa, seppure di rango costituzionale, com’è dimostrato dal fatto che esistono in Costituzione norme dalle quali non si evincono principi inviolabili e che, quindi, non concorrono ad integrare la nozione di ordine pubblico (è il caso, ad esempio, dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali che, sebbene sancito dall’art. 111 Cost., comma 6, non rientra tra i principi inviolabili fissati a garanzia del diritto di difesa, cfr. Cass. n. 3365 del 2000).

Il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico. Da tempo, infatti, questa Corte ha precisato che le norme espressive dell’ordine pubblico non coincidono con quelle imperative o inderogabili (cfr. Cass. n. 4040 del 2006, n. 13928 del 1999, n. 2215 del 1984), sicché il contrasto con queste ultime non costituisce, di per sè solo, impedimento all’ingresso dell’atto straniero; il giudice deve avere riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano, bensì “ai suoi effetti” (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), in termini di compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento.

Si tratta di un giudizio (o di un test) simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con l’ordine pubblico soltanto nel caso in cui il giudice possa motivatamente ritenere che al legislatore ordinario sarebbe ipoteticamente precluso di introdurre, nell’ordinamento interno, una norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con valori costituzionali primari.

La progressiva riduzione della portata del principio di ordine pubblico – tradizionalmente inteso come clausola di sbarramento alla circolazione dei valori giuridici cui tende, invece, il sistema del diritto internazionale privato – è coerente con la storicità della nozione e trova un limite soltanto nella potenziale aggressione dell’atto giuridico straniero ai valori essenziali dell’ordinamento interno, da valutarsi in armonia con quelli della comunità internazionale.

Al riguardo, può osservarsi che in tale prospettiva si colloca una condivisibile pronuncia della Corte federale di giustizia tedesca (10-19 dicembre 2014, X c. Land di Berlino, in www.personaedanno.it, 2015), la quale, in tema di valutazione dell’interesse del minore alla conservazione dello status di filiazione legittimamente acquisito all’estero, ha stabilito che i giudici tedeschi si devono adeguare non all’ordire pubblico nazionale, ma al più liberale principio dell’ordine pubblico internazionale, con il quale una sentenza straniera non è inca patibile solo perché il giudice, giudicando sulla base delle norme imperative tedesche, sarebbe giunto a un risultato diverso, essendo invece determinante che il risultato dell’applicazione del diritto straniero non sia in contraddizione radicale con principi fondamentali di giustizia.

Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero (nella specie, dell’atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma della L. n. 218 del 1995, artt. 16, 64 e 65, e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

Si tratta, in particolare, della tutela dell’interesse superiore del minore, anche sotto il profilo della sua identità personale e sociale, e in generale del diritto delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, valori questi già presenti nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 31 e 32 Cost.) e la cui tutela è rafforzata dalle fonti sovranazionali che concorrono alla formazione dei principi di ordine pubblico internazionale.

8.- La ratio principale alla base del decreto impugnato sta, infatti, nella tutela del superiore e preminente interesse del minore che, come evidenziato dalla Corte costituzionale (sent. n. 31 del 2012), è complesso e articolato in diverse situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento internazionale sia in quello interno.

Quanto al primo, vengono in rilievo: innanzitutto, la Convenzione sui diritti del fanciullo (cioè di “ogni essere umano avente un’età inferiore a diciotto anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile”, ai sensi dell’art. 1), fatta a New York il 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia dalla L. 27 maggio 1991, n. 176; la Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, resa esecutiva dalla L. 20 marzo 2003, n. 77, che nell’art. 6, nel disciplinare il processo decisionale nei procedimenti riguardanti i fanciulli, detta le modalità cui l’autorità giudiziaria deve conformarsi “prima di giungere a qualunque decisione”, stabilendo in particolare che l’autorità stessa deve acquisire “informazioni sufficienti al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore”; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e riproclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che nell’art. 24, par. 2, prescrive che “in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente”.

E non diverso è l’indirizzo dell’ordinamento interno, nel quale l’interesse morale e materiale del minore (la cui tutela è già implicita nell’art. 30 Cost., comma 1, sul diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli) ha assunto carattere di piena centralità, specialmente dopo la riforma attuata con la L. 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e dopo la riforma dell’adozione realizzata con la L. 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), come modificata dalla L. 28 marzo 2001, n. 149 (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184), cui hanno fatto seguito varie leggi speciali che hanno introdotto forme di tutela dei diritti del minore sempre più incisive (cfr. artt. 336 bis e 337 quater c.c., Inseriti dal D.Lgs. n. 154 del 2013, artt. 53 e 55, e, da ultimo, la L. 19 ottobre 2015, n. 173, sul diritto alla continuità dei rapporti affettivi dei minori in affido familiare).

L’obiezione, sostanzialmente richiamata dai ricorrenti – secondo cui l’interesse del minore rileverebbe esclusivamente nelle decisioni relative alla valutazione della capacità e responsabilità genitoriale (ad esempio, ai fini dell’adozione) e non ai fini del riconoscimento dello status di filiazione, che si fonderebbe soltanto sulla discendenza biologica (da persone di sesso diverso) -, è smentita sia dai ricordati dati normativi, che impongono al giudice di valutare come “preminente” l’interesse “superiore” del minore “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi” (art. 3, par. 1, della Convenzione di New York), sia dalla constatazione che l’interesse del minore “trascende le implicazioni meramente biologiche del rapporto con la madre (e) reclama una tutela efficace di tutte le esigenze connesse a un compiuto e armonico sviluppo della personalità” (Corte cost. n. 205 del 2015, al p. 4).

Contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, l’interesse del minore ha un valore non di mero fatto, ma giuridico e preminente, com’è ulteriormente confermato da solidi indici di rilievo sistematico: dalla necessità di valutare gli stessi “principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori (…) in relazione al superiore interesse del minore” (L. n. 184 del 1983, art. 35, commi 3 e 4, in tema di adozione di minori stranieri); dalla illegittimità costituzionale della norma del codice penale (art. 569) che faceva derivare, dalla condanna del genitore per il delitto di alterazione di stato (previsto dall’art. 567, comma 2), l’automatica perdita della potestà genitoriale, in tal modo pregiudicando il best interest del minore “a vivere e crescere nella propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori” (Corte cost. n. 31 del 2012, al p. 3).

8.2.- L’interesse superiore del minore che, come detto (v. n. 8), è complesso e articolato in diverse situazioni giuridiche, nella specie si sostanzia nel diritto a conservare lo status di figlio, riconosciutogli da un atto validamente formato in un altro Paese dell’Unione Europea.

Il diritto alla continuità di tale status è conseguenza diretta del favor filiationis, scolpito nella L. n. 218 del 1995, artt. 13, comma 3, e art. 33, commi 1 e 2, ed è implicitamente riconosciuto nell’art. 8, par. 1, della Convenzione di New York sul “diritto del fanciullo a preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari, così come riconosciute dalla legge, senza ingerenze illegali”.

La Corte Edu (Marckx c. Belgio, 13 giugno 1979) e la Corte costituzionale (da ultimo, con la citata sentenza n. 31 del 2012) hanno affermato da tempo il diritto del minore all’integrazione nella famiglia di origine fin dalla nascita e alla continuità dei rapporti con i suoi familiari; la Corte di Strasburgo ha evidenziato la “relazione diretta” tra il diritto alla “vita privata” e quello all’identità, non solo fisica, ma anche sociale del minore (Mikulic c. Croazia, 7 febbraio 2002, p. 34-36), essendo la filiazione un “aspetto essenziale dell’identità delle persone” (nel caso Mennesson c. Francia del 2014, p. 80 e anche 46, 77, 96 ss.); il diritto alla conservazione del cognome costituisce un profilo complementare del diritto all’identità e alla circolazione delle persone (Corte giust. UE, 2 ottobre 2003, C-148/02, Garcia Avello c. Belgio; 14 ottobre 2008, C-353/06, Grunkin c. Germania); e poiché, come nella specie, la nazionalità dipende – si è detto (cfr., supra, p. 4) – dalla sussistenza del rapporto di filiazione, il mancato riconoscimento di quest’ultimo avrebbe l’effetto di compromettere quel diritto all’identità personale del figlio di cui la nazionalità è un elemento costitutivo (Corte Edu, Genovese c. Malta, 11 ottobre 2011, p. 33).

Il mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione, legalmente e pacificamente esistente in Spagna, tra T. e uno dei genitori (la B.), determinerebbe una “incertezza giuridica”, già stigmatizzata dalla Corte Edu (nel più volte menzionato caso Mennesson c. Francia, p. 96 ss.), ovvero una “situazione giuridica claudicante” (Corte federale tedesca del 2014 cit.), che influirebbe negativamente sulla definizione dell’identità personale del minore, in considerazione delle conseguenze pregiudizievoli concernenti la possibilità, non solo di acquisire la cittadinanza italiana e i diritti ereditari, ma anche – come accertato dalla Corte torinese e non censurato dai ricorrenti – di circolare liberamente nel territorio italiano e di essere rappresentato dal genitore nei rapporti con le istituzioni italiane, al pari degli altri bambini e anche di coloro che, nati all’estero abbiano ottenuto il riconoscimento negato al piccolo T..

Su questi aspetti, connessi al rapporto di filiazione tra il minore e il proprio genitore, non incide lo scioglimento del rapporto matrimoniale medio tempore intervenuto tra i coniugi M. e B., come rilevato dalla Corte di merito, la quale ha implicitamente e plausibilmente desunto la meritevolezza dell’interesse di T. ad essere riconosciuto figlio della B. (in Italia) anche dal consenso manifestato dall’altro genitore.

Neppure si può trascurare che precludendosi al minore di avere un secondo genitore (a lui, tra l’altro, legato geneticamente), oltre a quello che l’ha partorito, per considerazioni legate a finalità preventive e repressive, si violerebbe il suo interesse ad avere due genitori e non uno solo, in contrasto cui la regola posta nell’art. 24, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo il quale “il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo quando ciò sia contrario al suo interesse” (questa prospettiva è stata valorizzata anche nell’ordinamento interno fin dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso, ed ora dal D.Lgs. n. 154 del 2013: cfr. il previgente art. 155, comma 1, ed il vigente art. 337 ter c.c., comma 1).

8.3.- I ricorrenti hanno, poi, sottolineato 1 ampio “margine di apprezzamento” riconosciuto dalla Corte Edu agli Stati nelle materie eticamente sensibili, al fine, non solo, di autorizzare o no le pratiche di fecondazione assistita e di riconoscere o no un legame di filiazione nei confronti dei minori concepiti all’estero, ma anche di scoraggiare i loro cittadini dall’accedere all’estero alle pratiche di fecondazione assistita vietate nel loro territorio.

Tuttavia, la Corte di Strasburgo ha precisato che, quando sono in gioco aspetti importanti dell’esistenza o dell’identità degli individui, il margine di apprezzamento degli Stati è di norma ristretto (cfr. sentenza Mennesson cit., p. 77 e 80) e che, in ogni caso, “il riferimento all’ordine pubblico non può essere preso come una carta bianca che giustifichi qualsiasi misura, in quanto l’obbligo di tenere in considerazione l’interesse superiore del minore incombe allo Stato indipendentemente dalla natura del legame genitoriale, genetico o di altro tipo” (sentenza 27 gennaio 2015, Paradiso e Campanelli c. Italia, p. 80).

Non si può ricorrere alla nozione di ordine pubblico per giustificare discriminazioni nei confronti dei minori e, nella specie, del piccolo T., qualora fosse disconosciuto il suo legittimo status di figlio della B., a causa nella scelta di coloro che lo hanno messo al mondo mediante una pratica di procreazione assistita non consentita in Italia: delle conseguenze di tale comportamento, imputabile ad altri, non può rispondere il bambino che è nato e che ha un diritto fondamentale alla conservazione dello status legittimamente acquisito all’estero (v., intra, p. 10.3). Vi sarebbe altrimenti una violazione del principio di uguaglianza, intesa come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali.

8.4.- Il Ministero dell’interno ha ulteriormente obiettato che, riconoscendo l’atto di nascita di T., si finirebbe per introdurre in Italia, di fatto e surrettiziamente, la possibilità di trascrivere atti di nascita da persone dello stesso sesso, nonostante l’assenza di una previsione legislativa che lo consenta e regoli la fattispecie. È agevole replicare che il giudizio riguardante la compatibilità con l’ordine pubblico secondo il diritto internazionale privato – è finalizzato non già ad introdurre in Italia direttamente la legge straniera, come fonte autonoma e innovativa di disciplina della materia, ma esclusivamente a riconoscere effetti in Italia ad uno specifico atto o provvedimento straniero relativo ad un particolare rapporto giuridico tra determinate persone.

Si deve enunciare il seguente principio di diritto: il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato in Spagna, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne – in particolare, da una donna italiana (indicata come madre B) che ha donato l’ovulo ad una donna spagnola (indicata come madre A) che l’ha partorito, nell’ambito di un progetto genitoriale realizzato dalla coppia, coniugata in quel paese – non contrastano con l’ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano, dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, dell’interesse superiore del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello statua filiationis, validamente acquisito all’estero (nella specie, in un altro paese della UE).

9.- È senz’altro vero, sul piano assiologico, che l’interesse del minore presenta un rilievo costituzionale primario e, quindi, sovraordinato a valori confliggenti espressi dalla legislazione nazionale ordinaria. Tuttavia, il PG di Torino e il Ministero dell’interno deducono l’esistenza di altri principi e valori fondamentali, di pari rango, a livello costituzionale, con i quali anche il principio del best interest del minore si dovrebbe confrontare, con un esito interpretativo che si invoca in senso opposto a quello cui è approdata la Corte d’appello di Torino nel decreto impugnato.

In effetti, il principio dell’interesse del minore “da solo non può essere decisivo” (in tal senso, Corte Edu, 3 ottobre 2014, Jeunesse c. Olanda, P. 109): altrimenti, tale diritto diventerebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente garantite alla persona, che costituiscono nel loro insieme la tutela della sua dignità; infatti, tutti i diritti costituzionalmente protetti si trovano in rapporto di integrazione reciproca e sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco (Corte cost. n. 85 del 2013, n. 10 del 2015, n. 63 del 2016).

La dottrina ha opportunamente evidenziato come il principio dell’interesse del minore, anche se preminente, debba essere bilanciato con altri valori e principi, di pari rango, che – nella fattispecie – i ricorrenti hanno indicato: nelle regole inderogabili stabilite dalla L. n. 40 del 2004, in tema di procreazione medicalmente assistita; nel principio secondo cui, nel nostro ordinamento, è madre solo colei che partorisce e, implicitamente, nel fatto che nella tutela riconoscibile (e ora riconosciuta dalla legge 20 maggio 2016, n.76) alle coppie dello stesso sesso non è compresa quella di generare e allevare figli.

Se tali principi avessero davvero una rilevanza costituzionale primaria e, quindi, fossero vincolanti per lo stesso legislatore ordinario, allora – seguendo il delineato percorso metodologico (cfr., supra, p.7) – si dovrebbe ammettere il contrasto con l’ordine pubblico dell’atto straniero di nascita da due donne, dal momento che una disciplina analoga a quella spagnola non sarebbe – in tesi introducibile in Italia dal legislatore nazionale.

Si tratta, allora, di valutare se quelli invocati dai ricorrenti integrino principi e valori essenziali o irrinunciabili del nostro ordinamento, oppure soltanto opzioni legislative in ambiti materiali nei quali – come in quelli disciplinati dalla legge n. 40 del 2004 o dall’art. 269 c.c., comma 3, – non esistano “rime costituzionali obbligate”.

10.- I ricorrenti partono dal presupposto che quella realizzata dalle signore M. e B. sia stata una surrogazione di maternità o maternità surrogata o una pratica ad essa assimilabile, poiché a rivendicare lo status di madre è una donna (la B.) diversa da colei che ha partorito; evidenziano che la sentenza della Corte cost. n. 162 del 2014, che ha dichiarato incostituzionale il divieto incondizionato della fecondazione eterologa nelle coppie eterosessuali, non abbia inciso sui persistenti divieti per le coppie saure – sex di fare ricorso alle pratiche di PMA, essendo rimasta ferma la punibilità sia dei terzi che le applichino con una sanzione amministrativa pecuniaria (L. n. 40 del 2004, art. 5, e art. 12, comma 2), sia di coloro che realizzino una “surrogazione di maternità” con una sanzione penale (art. 12, comma 6); osservano che, alla possibilità di riconoscere l’esistenza di un rapporto di filiazione tra la B. e T., osterebbe anche l’art. 9, comma 3, della stessa legge, che prevede, in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, che il donatore di gameti non acquisisca alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non possa far valere nei suoi confronti alcun diritto Né essere titolare di obblighi; di conseguenza, non potrebbe riconoscersi lo status di figlio a chi è nato in conseguenza della violazione delle richiamate norme imperative dell’ordinamento italiano.

Tali argomentazioni sono infondate.

10.1.- Si deve ribadire che la difformità della legge spagnola rispetto a quella italiana non è causa, di per sè sola, di violazione dell’ordine pubblico, a meno che non si dimostri che la L. n. 40 del 2004, contenga principi fondamentali e costituzionalmente obbligati e che, quindi, non sarebbe consentito al legislatore italiano porre una disciplina analoga o assimilabile a quella spagnola. Questa evenienza è da escludere, trattandosi di materia in cui ampio è il potere regolatorio e, quindi, lo spettro delle scelte possibili da parte del legislatore ordinario, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale (nella sent. n. 162 del 2014, p. 3.5), la quale ha osservato che si tratta di temi eticamente sensibili, in relazione ai quali “l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore”.

Quest’ultima è una condivisibile constatazione che conduce ad un esito opposto a quello invocato dai ricorrenti, poiché, se è ampia la discrezionalità del legislatore nella concreta disciplina della materia, ciò significa che non esiste un vincolo costituzionale dal punto di vista dei contenuti, ed allora non si può opporre l’ordine pubblico per impedire l’ingresso nell’ordinamento interno dell’atto di nascita di T., solo perché formato all’estero secondo norme non conformi a quelle attualmente previste dalle leggi ordinarie italiane, seppure imperative, ma astrattamente modificabili dal legislatore futuro.

Si deve affermare il seguente principio di diritto: l’atto di nascita straniero (valido, nella specie, sulla base di una legge in vigore in un altro paese della VE) da cui risulti la nascita di un figlio da due madri (per avere l’una donato l’ovulo e l’altra partorito), non contrasta, di per sè, con l’ordine pubblico per il fatto che la tecnica procreativa utilizzata non sia riconosciuta nell’ordinamento italiano dalla legge n. 40 del 2004, la quale rappresenta una delle possibili modalità di attuazione del potere regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una materia, pur eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale, sulla quale le scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate.

10.2.- La L. n. 40 del 2004, non consente alle coppie dello stesso sesso di accedere alle tecniche di PMA (art. 5) e punisce chi le “applica” con una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 12, comma 2). Di “surrogazione di maternità” e di “commercializzazione di gameti o di embrioni” parla l’art. 12, comma 6, che le vieta con una norma che – come sottolineato dalla Corte cost. n. 162 del 2004 (al p. 9) – è attualmente in vigore e le punisce con una sanzione penale detentiva nei confronti di “chiunque, in qualsiasi forma, (le) realizza, organizza o pubblicizza”.

Per surrogazione di maternità o maternità surrogata (o gestazione per altri) si intende la pratica con la quale una donna assume l’obbligo di provvedere alla gestazione e al parto per conto di altra persona o di una coppia sterile, alla quale si impegna a consegnare il nascituro: in tal caso, una donna utilizza il corpo di un’altra donna che presta il proprio al solo fine di aiutarla a realizzare il suo esclusivo desiderio di avere un figlio.

Nel caso in esame, invece una donna (la Matti) ha partorito un bambino (anche) per sè, sulla base di un progetto di vita della coppia costituita con la sua partner femminile (la B.): quest’ultima non si è limitata a dare il consenso alla inseminazione da parte di un donatore di gamete maschile (evidentemente esterno alla coppia), ma ha donato l’ovulo che è servito per la fecondazione ed ha consentito la nascita di T. (partorito dalla M.), frutto dell’unione di due persone coniugate in Spagna.

È questa una fattispecie diversa e non assimilabile ad una surrogazione di maternità: tale conclusione non è contraddetta dalla constatazione degli elementi di diversità (ma anche di comunanza) rispetto alle tecniche di PMA riconosciute dalla legge italiana.

Quella utilizzata dalle signore M. e B. è una tecnica fecondativa simile sia a una fecondazione eterologa (consentita alle coppie eterosessuali a certe condizioni) – in virtù dell’apporto genetico di un terzo (ignoto), donatore del gamete per la realizzazione del progetto genitoriale proprio di una coppia che, essendo dello stesso sesso, si trovi in una situazione assimilabile a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile -, sia a una fecondazione omologa, in virtù del contributo genetico dato da un partner all’altro nell’ambito della stessa coppia. E, tuttavia, si distingue da entrambe: da quest’ultima, perché il gamete maschile è stato fornito necessariamente da un donatore terzo; dalla prima, avendo la B. donato l’ovulo e, quindi, contribuito geneticamente all’attuazione di un progetto genitoriale comune con la partner partoriente (contrariamente a quanto accade nella comune fecondazione eterologa, nella quale è anche possibile che il feto non sia geneticamente legato a nessuno dei due genitori legali, in caso di utilizzazione di entrambi i gameti esterni alla coppia, ove la donna della coppia si limiti a portare avanti la gravidanza fino al parto). E ciò rende non pertinente il richiamo, nella fattispecie, all’art. 9, comma 3, che esclude che il donatore di gameti acquisisca relazioni giuridiche parentali con il nato e possa far valere nei suoi confronti diritti o essere titolare di obblighi.

Pertanto, la pratica fecondativa utilizzata nel caso in esame non è configurabile come una maternità surrogata, presentando aspetti comuni ad una fecondazione eterologa e il fatto che sia disciplinata dal legislatore spagnolo (che riconosce il nato come figlio di due madri) in modo difforme rispetto alla nostra attuale L. n. 40 del 2004, come s’è detto, non significa, di per sè, che l’atto di nascita spagnolo contrasti con l’ordine pubblico italiano. La previsione di una sanzione amministrativa pecuniaria (L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 2) per i terzi che applichino le tecniche di fecondazione eterologa alle coppie composte da persone dello stesso sesso, non esprime un valore costituzionale superiore e inderogabile, idoneo ad assurgere a principio di ordine pubblico.

Si deve affermare il seguente principio di diritto: in tema di PMA, la fattispecie nella quale una donna doni l’ovulo alla propria partner (con la quale, nella specie, è coniugata in Spagna) la quale partorisca, utilizzando un gamete maschile donato da un terzo ignoto, non costituisce un’ipotesi di maternità surrogata o di surrogazione di maternità, ma un’ipotesi di genitorialità realizzata all’interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne registrate come madri in Spagna (per averlo l’una partorito e per avere l’altra trasmesso il patrimonio genetico).

10.3.- Inoltre, è decisivo il rilievo (cui si è accennato supra, p.8.3) che le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 – imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia – non possono ricadere su chi è nato, il quale ha un diritto fondamentale, che dev’essere tutelato, alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero nei confronti della madre genetica e alla continuità dei rapporti affettivi. Di ciò è ben consapevole lo stesso legislatore che, alla L. n. 40 del 2004, art. 9, comma 1, ha previsto che, in caso di ricorso a tecniche (allora vietate) di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, il coniuge o convivente consenziente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità Né impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità.

È significativo che la Corte Edu (nel caso Mennesson, cit.), pur escludendo la violazione del diritto alla vita familiare lamentata dagli aspiranti genitori che avevano fatto ricorso all’estero ad una tecnica di PMA vietata in Francia abbia affermato la violazione del diritto alla vita privata dei figli minori, per avere la Francia disconosciuto il loro status filiationis acquisito all’estero.

È opportuno richiamare la sentenza n. 494 del 2002 (al P. 5), con la quale la Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità dell’art. 278 c.c., comma 1, che escludeva la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità nei casi in cui era vietato il riconoscimento dei tigli incestuosi, ha affermato che imporre una capitis deminutio perpetua e irrimediabile ai figli (in quel caso incestuosi) come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti, costituirebbe “una evidente violazione del diritto a uno status filiationis, riconducibile all’art. 2 della Costituzione, e del principio costituzionale di uguaglianza, come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali”.

11.- Al superiore interesse del minore alla continuità dello status filiationis, validamente acquisito all’estero nei confronti della madre genetica (donatrice dell’ovulo), e alla connessa tutela della sua identità personale e sociale, non può validamente opporsi – come invece sostenuto dai ricorrenti – il principio secondo cui, nell’ordinamento italiano, è madre solo colei che partorisce (art. 269 c.c., comma 3), con la conseguenza che non può esserlo anche colei che abbia contribuito alla nascita del figlio con la donazione dell’ovulo. Secondo i ricorrenti, questo sarebbe un principio di diritto naturale e, comunque, fondamentale dell’ordinamento nazionale e, come tale, rilevante sotto il profilo dell’ordine pubblico, in quanto espressione dell’importanza imprescindibile che per lo sviluppo e la formazione dell’essere umano assume la relazione del tutto particolare e insostituibile con la madre durante il periodo della gestazione. Il Collegio ritiene che tale impostazione debba essere in parte rimeditata.

11.1.- Quello enunciato dall’art. 269 c.c., comma 3, ha costituito per millenni un principio fondamentale (Mater semper certa est), idoneo a fotografare gli effetti, sul piano del diritto, della piena coincidenza in una sola donna di colei che partorisce e di colei che trasmette il patrimonio genetico. Questa coincidenza, tuttavia, nel tempo è divenuta non più imprescindibile, per via dell’evoluzione scientifico-tecnologica che ha reso possibile scindere la figura della donna che ha partorito da quella che ha trasmesso il patrimonio genetico grazie all’ovulo utilizzato per la fecondazione. Se è indiscutibile l’importanza della gravidanza per il particolarissimo rapporto che si instaura tra il feto e la madre, non si può negare l’importanza del contributo dato dalla donna che ha trasmesso il patrimonio genetico, decisivo per lo sviluppo e per l’intera vita del nato.

L’art. 269 c.c., citato comma 3, impedisce a colei che ha contribuito alla nascita, trasmettendo il patrimonio genetico, di rivendicare lo status di madre, con i connessi diritti, ma anche con le responsabilità nei confronti del nato. Il problema che si pone è se questa disposizione esprima un principio che trovi un diretto fondamento nella nostra Costituzione, al punto di non consentire al legislatore ordinario di modificarla per adeguarla ai tempi e al mutato contesto sociale: perché solo in tal caso (seguendo il percorso metodologico delineato supra, al p.7) essa potrebbe assurgere al rango di principio di ordine pubblico, idoneo quindi ad impedire, nella specie, il riconoscimento in Italia di un atto di nascita spagnolo difforme, che riconosca la qualità di madre anche alla donna che ha donato l’ovulo alla propria partner, in attuazione di un progetto genitoriale comune.

Collegio non condivide l’impostazione dei ricorrenti, seguendo la quale si dovrebbe concludere che la Costituzione – che pure, all’art. 31, comma 2, “protegge la maternità” direttamente (cioè senza l’intermediazione del legislatore) e nelle diverse declinazioni che essa può assumere nell’evoluzione del costume sociale – tuteli esclusivamente la maternità che si manifesti con il parto, relegando nel mondo dell’irrilevanza giuridica la trasmissione del patrimonio genetico racchiuso nell’ovulo donato dalla donna. Tanto più quando ciò sia avvenuto deliberatamente nell’ambito di un progetto di vita comune e responsabile, il cui esito – consentito dalla legge straniera – è stato quello della bigenitorialità materna (avendo entrambe le donne contribuito a dare la vita al nato, l’una con la gravidanza e il parto, l’altra trasmettendo il proprio patrimonio genetico e avendolo entrambe allevato e accudito). Ed è nota l’importanza assunta nell’evoluzione normativa, quale profilo caratterizzante il rapporto di filiazione (cfr. il D.Lgs. n. 154 del 2013), dal concetto di responsabilità genitoriale, che si manifesta nella decisione di colei che la assume in proprio, accudendo e allevando il nato nella propria famiglia.

L’intuizione di una parte della dottrina, secondo la quale l’art. 269 c.c., comma 3, è una norma riguardante la prova della maternità, trova conferma nel comma 2, del medesimo articolo, il quale stabilisce che “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo” (analoga disposizione è contenuta nell’art. 241 c.c., sulla “prova in giudizio” della filiazione “quando mancano l’atto di nascita e il possesso di stato”); questa Corte ha avuto occasione di affermare che la prova del parto “non costituisce l’unica prova ammissibile al predetto fine, potendo, in mancanza di quella dimostrazione, la prova della filiazione essere data con ogni altro mezzo, anche presuntivo, ed in particolare attraverso altra sentenza civile o penale da cui la maternità indirettamente risulti, salva restando la prova contraria da parte del controinteressato” (cfr. Cass. n. 1465 del 1983).

Neppure si può negare l’importanza del legame genetico sotto il profilo dell’identità personale, nella quale sono compresi il diritto di accertare la propria discendenza biologica (Corte Edu, 14 gennaio 2016, Mandet c. Francia), il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini (Corte cost. n. 278 del 2013) e il diritto del nato di vivere ed essere allevato nella famiglia di origine, essendo l’adozione una extrema ratio (da ultimo, Cass. n. 7391 del 2016). L’imprescrittibilità riguardo al figlio delle azioni di stato (art. 270 c.c., comma 1; art. 263 c.c., comma 2; art. 244 c.c., comma 5) dimostra l’importanza della discendenza biologica e della connessa identità personale, la cui tutela rientra a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla nostra Costituzione, prima ancora che dalle fonti internazionali. La Corte costituzionale, infatti, ha ritenuto (nell’ordinanza n. 7 del 2012) che “la crescente considerazione del favor veritatis (la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini: sentenze n. 50 e n. 266 del 2006) non si ponga in conflitto con il favor minoris, poiché anzi la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad esso il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze 322 del 2011, n. 216 e n. 112 del 1997)”.

Infine, dalla giurisprudenza Europea emerge un principio di favore per il riconoscimento degli atti stranieri di nascita formati all’estero, in conformità alla lex loci, quantomeno quando vi sia un legame genetico tra l’aspirante genitore e il nato, a prescindere dalla tecnica procreativa utilizzata (Corte Edu, Mennesson, cit.; Corte di cassazione federale tedesca 10 dicanbre 2014, cit.; Corte di cassazione francese, Assemblea Plenaria, 3 luglio 2015, n. 620 e Corte federale svizzera, 21 maggio 2015, n. 748/2014, in Report of the February 2016 Meeting of the Expert’s Group on Parentage/Surrogacy).

Si deve affermare il seguente principio di diritto: la regola secondo cui è madre colei che ha partorito, a norma dell’art. 269 c.c., comma 3, non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale, sicché è riconoscibile in Italia l’atto di nascita straniero dal quale risulti che un bambino, nato da un progetto genitoriale di coppia, è figlio di due madri (una che l’ha partorito e l’altra che ha donato l’ovulo), non essendo opponibile un principio di ordine pubblico desumibile dalla suddetta regola.

12.- Nelle censure proposte dai ricorrenti è implicita quella secondo la quale le unioni tra persone dello stesso sesso sarebbero costituzionalmente tutelabili (a norma dell’art. 2 Cost.) soltanto come relazione orizzontale tra persone maggiorenni, non come luogo di accoglienza di figli, sia adottivi che naturali; vi sarebbe, anzi, un divieto costituzionale, desumibile dall’art. 29 Cost., che vede nella famiglia matrimoniale l’unica comunità riconosciuta idonea ad accogliere figli.

12.1.- Queste censure non sono pertinenti al caso di specie.

Nel presente giudizio, infatti, non si tratta di verificare la conformità alla legge italiana della legge spagnola, in base alla quale è stato formato all’estero l’atto di nascita di un bambino da due madri, essendo evidente la difformità delle rispettive discipline: la legge italiana non consente alle nostre autorità di formare un atto di nascita del genere.

La questione che si pone – è opportuno ribadire (cfr., supra, p.7) – è se questa difformità di disciplina renda incompatibile con l’ordine pubblico l’ingresso in Italia (non della legge straniera come nuova disciplina della materia ma) di un particolare e specifico atto giuridico riguardante il rapporto di filiazione tra determinati soggetti. Si è detto che una simile incompatibilità potrebbe sussistere soltanto qualora la norma straniera (costituente fonte normativa dell’atto di cui si tratta) fosse contrastante con principi fondamentali della nostra Costituzione, da enuclearsi in armonia con quelli desumibili dalle principali fonti internazionali, poiché solo in tal caso potrebbe opporsi un principio di ordine

pubblico, a norma della L. n. 218 del 1995, artt. 16 e 65, e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, idoneo ad impedire all’atto straniero di produrre effetti in Italia.

Tanto ribadito, non è possibile sostenere l’esistenza di un principio costituzionale fondamentale – in tal senso, di ordine pubblico e, quindi, immodificabile dal legislatore ordinario – idoneo ad impedire l’ingresso in Italia dell’atto di nascita di T., in ragione di un’asserita preclusione ontologica per le coppie formate da persone dello stesso sesso (unite da uno stabile legame affettivo) di accogliere, di allevare e anche di generare figli.

Si è detto che la contraria scelta manifestata in tale senso dalla legislazione vigente (con la L. n. 40 del 2004, art. 5) – ispirata all’idea di fondo che l’unica comunità nella quale sarebbe possibile generare figli sia quella formata da persone di sesso diverso, sul presupposto che le altre unioni beneficerebbero della, in tesi, più limitata tutela prevista dall’art. 2 Cost. – non esprime una opzione costituzionalmente obbligata.

Se l’unione tra persone dello stesso sesso è una formazione sociale ove la persona “svolge la sua personalità” e se quella dei componenti della coppia di diventare genitori e di formare una famiglia costituisce “espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi” delle persone, ricondotta dalla Corte costituzionale (sent. n. 162 del 2014, p. 6, e n. 138 del 2010, p. 8) agli artt. 2, 3 e 31 Cost. (e, si noti, non all’art. 29 Cost.), allora deve escludersi che esista, a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli. Infatti, “il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti tra i coniugi e figli (…) identico essendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri” (v. Corte cost. n. 166 del 1998): di conseguenza, l’elemento di discrimine rappresentato dalla diversità di sesso tra i genitori – che è tipico dell’istituto matrimoniale – non può giustificare una condizione deteriore per i figli Né incidere negativamente sul loro status.

Inoltre, questa Corte (sent. n. 601 del 2013) ha escluso che vi siano certezze scientifiche, dati di esperienza o indicazioni di specifiche ripercussioni negative sul piano educativo e della crescita del minore, derivanti dall’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale, atteso che l’asserita dannosità di tale inserimento va dimostrata in concreto e non può essere fondata sul mero pregiudizio.

Che le coppie di persone dello stesso sesso ben possano adeguatamente accogliere figli e accudirli, è ora confermato dalla possibilità di adottarli, a norma della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d) (cfr. Cass. n. 12962 del 2016).

La famiglia è sempre più intesa come comunità di affetti, incentrata sui rapporti concreti che si instaurano tra i suoi componenti: al diritto spetta di tutelare proprio tali rapporti, ricercando un equilibrio che permetta di contemperare gli interessi eventualmente in conflitto, avendo sempre come riferimento, ove ricorra, il prevalente interesse dei minori.

La nozione di “vita familiare”, nella quale è ricompresa l’unione tra persone dello stesso sesso (cfr. Corte Edu, 24 giugno 2010, S&K Co. c. Austria e, da ultimo, 27 luglio 2015, Oliari c. Italia), neppure presuppone necessariamente la discendenza biologica dei figli, la quale non è più considerata requisito essenziale della filiazione (secondo la Corte Cost. n. 162 del 2016, p. 6, “il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa”). E, comunque, tale requisito – è opportuno ribadire – sussiste nel caso in esame, avendo una dona partorito e l’altra donato il proprio patrimonio genetico.

Pertanto, al riconoscimento di un atto di nascita straniero, formato validamente in Spagna, da cui risulti che il nato è figlio di due donne (avendolo l’una partorito e l’altra contribuito alla nascita, donando l’ovulo alla prima, nell’ambito di un progetto genitoriale realizzato da una coppia coniugata in quel paese), non è opponibile un principio di ordine pubblico, consistente nella pretesa esistenza di un vincolo o divieto costituzionale che precluderebbe alle coppie dello stesso sesso di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie di persone di sesso diverso.

13.- I ricorrenti hanno richiamato, a sostegno delle proprie tesi, la sentenza di questa Corte n. 24001 del 2014, la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato lo stato di adottabilità di un minore, generato da una donna ucraina su commissione di una coppia italiana, ritenendo contraria all’ordine pubblico la pratica della maternità surrogata.

Questo precedente, tuttavia, riguarda una fattispecie non assimilabile a quella oggi in esame e, quindi, non è pertinente, almeno per due ragioni: la prima, perché, in quel caso, non esisteva alcun legame biologico tra i coniugi, aspiranti genitori, e il nato; la seconda, perché l’atto di nascita era invalido secondo la stessa legge del paese (Ucraina) nel quale esso era stato formato, che falsamente attestava che il nato era figlio di quei coniugi.

14.- Si rileva, infine, che la L. 20 maggio 2016, n. 76, (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), entrata in vigore il 5 giugno 2016, non contiene disposizioni applicabili, anche ratione temporis, nella fattispecie dedotta in giudizio, ivi compreso l’art. 1, comma 28, lett. a) e b).

15.- In conclusione, il ricorso è rigettato.

16.- Non v’è luogo a provvedere sulle spese del presente grado di giudizio nei confronti dell’ufficio del Pubblico Ministero, alla luce del principio secondo cui tale ufficio non può essere condannato al pagamento delle spese del giudizio in caso di soccombenza, trattandosi di un organo giurisdizionale al quale sono attribuiti poteri, diversi da quelli svolti dalle parti, meramente processuali, esercitati per dovere d’ufficio e nell’interesse pubblico (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19711 del 2015).

Sussistono gravi ragioni per compensare le spese nel rapporto con il Ministero dell’interno, in considerazione della novità, complessità e rilevanza delle questioni trattate.