Aprire un ristorante in un condomio? Perché no…visto che il regolamento non è chiaro?
Un recentissimo intervento della Cassazione si è interessato di una questione di grande attualità: la possibilità per un condomino di poter gestire un punto ristorazione nel suo immobile (da precisare che l’immobile in questione trovasi in un condominio di civile abitazione).
La vicenda oggetto di indagine, vedeva alcuni condomini di un edificio agire in giudizio per il risarcimento dei danni e il ripristino dello status quo per intollerabili immissioni e rumori provenienti da un appartamento loro confinante. I proprietari di quest’ultimo, in violazione del regolamento condominiale, avevano adibito il loro immobile, destinato ad uso esclusivamente abitativo, a pizzeria, mediante la creazione di una scala di collegamento interna con il sottostante terreno, adibito a sua volta a pizzeria-ristorante.
La questione, mentre in primo grado vedeva parzialmente soccombenti i condomini agenti sulla base del fatto che nel regolamento sussistevano limitazioni solo per i locali cantinati e terranei; in appello invece la Corte ribadiva con forza che il regolamento era costruito sul principio dell’espressa elencazione delle destinazioni consentite, per cui, in mancanza di analoga previsione anche per gli altri locali, doveva valere il divieto di adibire l’appartamento allo svolgimento di attività commerciale. A seguito di queste conclusioni, la sentenza d’Appello veniva impugnata dai proprietari dell’immobile incriminato, soprattutto censurando l’assoluta mancanza di una disposizione regolamentare che espressamente si occupasse delle unità immobiliari poste al di sopra dei cantinati. Per tali ragioni, non poteva essere dichiarata illegittima l’attività commerciale che si stava svolgendo nell’immobile.
Giunta la questione dinanzi alla Suprema Corte, la stessa ribadiva un costante orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini della ricerca della comune intenzione delle parti, contenuta nel regolamento condominiale, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate. È proprio la natura contrattuale del regolamento, sottolinea la Corte, che richiede l’attenta valutazione delle clausole in coordinamento tra loro, a norma dell’art. 1363 c.c., dovendosi intendere per “senso letterale delle parole”, tutta la formulazione letterale della dichiarazione. Fatte queste premesse, i Supremi Giudici specificano altresì che: il regolamento condominiale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà, sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare. In quest’ultimo caso, tuttavia, per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà dei singoli condomini; i divieti e i limiti devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo più che alla clausola in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, così consentendo di apprezzare se alla compromissione delle facoltà inerenti allo statuto di proprietario corrisponda un interesse meritevole di tutela.
In ultima analisi, prosegue la Corte, la motivazione della sentenza gravata si riferisce solo ai limiti alla facoltà di utilizzo dei locali terranei e scantinati, risultando del tutto assente una chiara ed esplicita volontà di un limite estremamente rigoroso quanto alle possibilità di utilizzo degli immobili aventi diversa natura, tra cui anche l’appartamento dei ricorrenti.
Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-10-2016, n. 21307
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20516/2012 proposto da:
G.S.A., G.A., G.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TERENZIO, 7, presso lo studio dell’avvocato ORAZIO ABBAMONTE, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO RUSSO giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
C.R., F.A., elettivamente domiciliate in Roma presso la Cancelleria della Corte di cassazione, e rappresentate e difese dagli avvocati ALFONSO PEPE e FRANCESCO SENIISE, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrenti –
e contro
CONDOMINIO in (OMISSIS);
– intimato –
avverso la sentenza n. 1716/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/05/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/09/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
udito l’Avvocato Alfonso Pepe per le controricorrenti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, assorbito il secondo.
Svolgimento del processo
Fusa) Giuseppe conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli G.A., G.S.A., G.S. e Fe.An. affinchè fossero condannati al ripristino dello status quo ante oltre al risarcimento dei danni.
Assumeva di essere proprietario di un appartamento in (OMISSIS) nel condominio al Viale privato Albino Albini n. 22, confinante con quello contrassegnato dal numero interno 2 appartenente ai convenuti, i quali, in violazione del regolamento condominiale e di una delibera assembleare dell’11 giugno 2001, avevano adibito il loro immobile, destinato esclusivamente ad uso abitativo, a pizzeria, mediante la creazione di una scala di collegamento interna con il sottostante terraneo, adibito a sua volta a pizzeria-ristorante, creando in tal modo intollerabili immissioni di rumori.
Si costituivano i convenuti i quali insistevano per il rigetto, chiedendo di essere autorizzati a chiamare in causa il condominio, anche al fine di vedere accolta la domanda riconvenzionale di annullamento della citata delibera assembleare.
Tale domanda veniva poi rinunziata dai convenuti, ed il giudizio si interrompeva per il decesso dell’attore, al quale subentravano le credi F.A. e C.R..
Il Tribunale con sentenza del 18/9/2008 rigettava la domanda ed a seguito di gravame proposto dalle istanti, la Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 1716 del 19 maggio 2012, in riforma della pronuncia impugnata, condannava i convenuti, anche quali credi della Fe., deceduta nelle more del giudizio, al rispristino della destinazione abitativa per l’immobile di loro proprietà ubicato al primo piano interno 2.
Rilevavano i giudici di appello, che, attesa la pacifica vincolatività del regolamento condominiale, in quanto trascritto anche nei registri immobiliari, e richiamato anche nel titolo di provenienza dei convenuti, non poteva condividersi l’interpretazione dell’art. 5 del regolamento offerta da parte del giudice di primo grado, il quale aveva ritenuto che le limitazioni ivi contemplate valessero solo per i locali cantinati e terranei, non sussistendo quindi analoghi vincoli per l’utilizzo degli immobili posti ai piani superiori.
Invece, secondo la Corte distrettuale, la previsione di una specifica possibilità di utilizzo solo per i detti locali, imponeva di ritenere che ab implicito per gli altri locali, quale appunto l’appartamento degli appellati, fosse vietata una diversa destinazione.
Il regolamento era costruito sul principio dell’espressa elencazione delle destinazioni consentite, sicchè in mancanza di un’analoga previsione anche per gli altri locali diversi dai cantinati e dai terranei, doveva concludersi per il divieto di adibire l’appartamento per cui e causa allo svolgimento di attività commerciale.
Quanto poi alla domanda delle appellanti finalizzata a denunziare l’intollerabilità delle immissioni, che il giudice di prime cure aveva ritenuto inammissibile, in quanto avanzata solo con le memorie istruttorie, ad avviso della Corte partenopea doveva invece ritenersi che la stessa era invece ammissibile, in quanto alle immissioni si faceva già riferimento nell’atto di citazione.
Tuttavia, la domanda era infondata in quanto rimasta priva di prova, non apparendo in grado di documentare l’effettiva intollerabilità delle immissioni, i generici capi di prova articolati dagli appellanti.
Avverso la indicata sentenza della Corte di Appello di Napoli hanno proposto ricorso per cassazione G.S., G.S.A. e G.A., anche quali eredi di Fe.An., articolandolo su due motivi.
C.R. e F.A. hanno resistito con controricorso.
Motivi della decisione
- Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1369 e 1370 c.c., nonchè dell’art. 832 c.c., in merito alla corretta interpretazione fornita dalla Corte territoriale dell’art. 5 del regolamento di condominio.
Ed, infatti, l’interpretazione dei regolamenti condominiali di origine contrattuale, quale quello in esame, richiede al fine della individuazione di limiti all’utilizzo dei beni di proprietà esclusiva, che siano adoperate espressioni non equivoche, occorrendo che una limitazione al diritto di proprietà derivi da una precisa volontà del predisponente il regolamento.
Nel caso in esame, la clausola oggetto di interpretazione da parte della Corte distrettuale, e precisamente l’art. 5 del regolamento così dispone “I locali cantinati e i terranei potranno essere destinati ad autorimesse, a deposito, ad officina tecnicamente organizzata con rumorosità però da non superare i limiti consentiti dalle disposizioni di P.S. e comunale ed all’esercizio di qualsiasi attività commerciale, industriale, artistica e professionale, nonchè ad uffici, senza alcuna limitazione.
Sia i locali terranei che agli (incomprensibile) potranno essere destinati a scuole”.
Rilevano i ricorrenti che manca una previsione specificamente rivolta a disciplinare l’uso delle unità immobiliari collocate dal primo piano in su e clic l’interpretazione offerta dalla Corte di merito violi l’art. 1363 c.c., nella parte in cui ha omesso di valutare il complesso delle previsioni contrattuali, l’art. 1367 c.c., in quanto, in violazione del principio della conservazione del contratto, gli immobili dal primo piano a salire non avrebbero alcuna destinazione, e l’art. 1369 c.c., poichè deve privilegiarsi l’interpretazione più coerente con la natura del contratto, essendo viceversa priva di coerenza la soluzione per la quale verrebbe ad essere impedito l’utilizzo di gran parte delle unita immobiliari presenti nell’edificio.
Assumono poi che il canone ermeneutico, richiamato n motivazione “ubi vouit dixit, ubi noluit tacuit” sarebbe stato erroneamente applicato, atteso che il discorso della volontà implicita poteva avere ad oggetto solo le unità immobiliari espressamente richiamate nell’art. 5, ma non poteva estendersi ai locali posti ai piani superiori, di cui non vi è menzione alcuna.
Infine, atteso il principio costantemente affermato dalla Corte di legittimità per il quale le limitazioni alle facoltà di uso della proprietà individuale previste nel regolamento condominiale devono connotarsi per chiarezza ed inequivocità, la soluzione raggiunta nella sentenza gravata contravviene evidentemente allo stesso, in quanto manca una disposizione regolamentare che si occupi espressamente delle unità immobiliari poste ai piani superiori, essendo peraltro presenti altre disposizioni (quali gli artt. 2 e 4 del regolamento) che hanno invece espressamente disposto anche in ordine alle restanti unità immobiliari.
- Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., art. 163 c.p.c., nn. 3 e 4, e art. 184 c.p.c., e dell’art. 844 c.c., e dei principi che presiedono all’interpretazione degli atti giudiziari, nonchè la insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine all’affermazione secondo cui, ad avviso della sentenza impugnata, sarebbe stata tempestivamente avanzata la domanda di intollerabilità delle immissioni.
Si assume che, ancorchè la domanda sia stata poi respinta nel merito in quanto non provata, in realtà la domanda è da reputarsi inammissibile. Nell’atto di citazione manca un’esplicita richiesta in tal senso, in quanto con il petitum ci si limitava a chiedere l’accertamento dell’illegittimità del cambio di destinazione dell’immobile alla luce del regolamento di condominio e della volontà assembleare, sicchè l’affermazione secondo cui la domanda de qua era già contenuta in citazione è frutto di un’erronea interpretazione dell’atto introduttivo del giudizio e viola pertanto le previsioni di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c..
- Il secondo motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile atteso il difetto della condizione legittimante la sua proposizione costituito dalla soccombenza dei ricorrenti.
Ed, infatti, ancorchè la Corte d’Appello abbia ritenuto ammissibile la domanda de qua, è poi pervenuta al suo rigetto nel merito, per difetto di prova, con la conseguenza che sulla stessa non si concretizza la condizione di soccombenza sostanziale in capo agli appellati, i quali pertanto non sono legittimati a proporre ricorso al mero fine di ottenere una declaratoria di inammissibilità sotto il profilo processuale, trattandosi di statuizione che peraltro non offrirebbe alcuna utilità a fronte di quella offerta dal rigetto nel merito, con la formazione del giudicato sostanziale, e non solo processuale formale, che invece discenderebbe dalla richiesta declaratoria di inammissibilità.
- Passando alla disamina del primo motivo di ricorso, deve premettersi che costituisce orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui (cfr. da ultimo Cassazione civile, sez. 2^, 08/01/2016, n. 138) non è censurabile in Cassazione l’interpretazione del regolamento di condominio compiuta dai giudici di merito salvo che per violazione dei canoni ermeneutici o per vizi di motivazione (conf. Cassazione civile, sez. 2^, 23/05/2012, n. 8174; Cassazione civile, sez. 2^, 04/04/2011, n. 7633).
Inoltre, e proprio in relazione all’interpretazione del regolamento condominiale di origine contrattuale, si è ribadito che (cfr. Cassazione civile, sez. 2^, 19/10/2012, n. 18052) ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicchè le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte cd in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato.
Una volta ribadita la necessità di fare applicazione delle regole legali di interpretazione in materia di contratti anche al caso in esame, va altresì ricordato che costituisce principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte di legittimità, quello secondo il quale, con riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in se, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore all’art. 1362 c.c. e ss., e sulla (in)coerenza e (il)logicità della motivazione addotta (cosi, tra le tante, Cass., Sez. 3, 10 febbraio 2015, n. 2465): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo.
Orbene, pur a fronte di tali doverose premesse, reputa il Collegio che l’interpretazione che della clausola regolamentare di cui sopra è stata offerta dalla Corte distrettuale, non possa essere condivisa, ponendosi la stessa in contrasto con i principi che debbono presiedere l’interpretazione, tenuto conto in particolare dei consolidati principi espressi da questa Corte in tema di limitazioni convenzionali al diritto di proprietà, scaturenti per l’appunto da un regolamento condominiale di natura contrattuale.
11d, infatti, anche di recente si è ribadito che (cfr. Cass. n. 19229/2014) il regolamento condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare. In quest’ultimo caso, peraltro, per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sè, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentate intende impedire, così consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela. Si è infatti ribadito che la compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze (cfr. Cass. nn. 20237/09 non massimata, Cass. n. 16832/09 non massimata, Cass. n. 9564/97, Cass. n. 1560/95; Cass. n. 11126/94; Cass. n. 23/04 e Cass. n. 10523/03).
Ciò implica che nella ricerca della comune intenzione, o come nella fattispecie, nell’individuazione della regola dettata dal regolamento contrattuale, non possa prescindersi dall’univocità delle espressioni letterali utilizzate, dovendosi in linea di principio rifuggire da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto attiene all’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, ma ancor più per quanto concerne la corretta individuazione dei beni effettivamente assoggettati alla limitazione circa le facoltà di destinazione di norma spettanti al proprietario.
Orbene, come si ricava in maniera evidente dal tenore della motivazione della sentenza gravata, la previsione del divieto di utilizzo delle unità immobiliari poste a partire da) primo piano del fabbricato, ad un uso diverso da quello abitativo, è stata tratta da una previsione che, come si evidenzia dalla lettura del sopra riportato art. 5 del Regolamento, si occupa specificamente solo dei limiti alla facoltà di utilizzo dei locali terranei e dei cantinati, ricavandosi quindi da una previsione, che pur lascia ampie facoltà di utilizzo dei suddetti locali, cd in assenza di una chiara ed univoca volontà esplicitata, l’esistenza di un limite estremamente rigoroso quanto alle possibilità di utilizzo degli immobili aventi diversa natura, tra cui anche l’appartamento dei ricorrenti.
D’altronde, come correttamente evidenziato da parte della difesa dei ricorrenti, lo stesso regolamento, laddove ha inteso disporre dei limiti alle facoltà di utilizzo di tutti i locali, ivi inclusi anche gli appartamenti posti a partire dal primo piano, lo ha chiaramente esplicitato, come appunto nelle previsioni di cui agli artt. 2 e 4 del regolamento, quanto alla possibilità per la società costruttrice di apporre cartelli o bandiere luminose anche in corrispondenza della facciata dell’edificio, ovvero quanto alla possibilità di ospitare solo animali quali cani, gatti ed uccelli.
La necessità, in ragione della esigenza di limitare al massimo la compressione delle proprietà individuali, in considerazione della storica configurazione del diritto di proprietà, imponeva quindi un’interpretazione del regolamento fondata sulla chiarezza ed univocità del tenore e delle espressioni letterali, dovendosi rifuggire quindi da un’esegesi invece ancorata alla ricostruzione di una volontà implicita, come invece accaduto nella fattispecie, trascurandosi altresì l’adeguamento al canone interpretativo di cui all’art. 1363 c.c., che, tenuto conto dell’esistenza di altre previsioni in materia di limitazioni della proprietà individuale, avrebbe dovuto impone di salutare le limitazioni alla proprietà individuale dal coacervo delle previsioni regolamentari, secondo un principio di tendenziale e rigida tassatività. Tradisce evidentemente l’elaborazione giurisprudenziale circa la portata ed i limiti suscettibili di essere dettati dal regolamento condominiale, la premessa alla quale dichiara volersi rifare nell’interpretazione dell’art. 5 il giudice di appello, laddove afferma che il regolamento condominiale sarebbe costruito sul principio, non già dell’espressa individuazione delle limitazioni imposte, come suggerito dai precedenti sopra citati, ma dell’espressa elencazione delle destinazioni consentite.
Alla luce dei suesposti principi, proprio il brocardo, ubi voluiti dixit, ubi noluit tacuit, richiamato nella motivazione del giudice adito, avrebbe dovuto condurre ad una conclusione affatto diversa da quella raggiunta, dovendosi appunto reputare che solo le limitazioni espressamente previste possono reputarsi operative, essendo il silenzio sintomatico, più che di una volontà di porre dei limiti, piuttosto della necessità di preservare integre le facoltà tipiche del diritto di proprietà. La sentenza deve essere quindi cassata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Napoli per un nuovo giudizio attenendosi ai suesposti principi.
- Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il secondo motivo di ricorso, accoglie il primo motivo e per l’effetto cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 20 settembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2016