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La recente sentenza della Cassazione sui reati culturalmente orientati

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

La recente sentenza della Cassazione sui reati culturalmente orientati  

La Corte di Cassazione penale, sez. I, con sentenza n. 24084 del 2017, torna a trattare un argomento molto delicato: i reati culturalmente orientati.

Argomento che si innesta sulla più ampia tematica della ammissibilità nel nostro ordinamento della cd. scriminante culturale ma che, ad oggi, è diventato ancor più d’attualità stante l’interesse mediatico e politico suscitato dai recenti dibattiti sui continui “sbarchi” di migranti nel nostro paese.

La vicenda trae origine dalla condanna di un cittadino straniero (sub specie indiano di etnia shink) alla pena di Euro 2000 di ammenda per il reato di cui all’art. 4 legge n. 110 del 1975 (“Controllo armi, munizioni ed esplosivi”) perché “portava fuori dalla propria abitazione senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di cm 18,5 idoneo all’offesa per le sue caratteristiche”.

Avverso tale sentenza, confermata in appello, veniva proposto ricorso ritenendo che il possesso del coltello fosse “giustificato” dai dettati della religione d’appartenenza del reo e che tale circostanza trovasse tutela sotto l’alveo dell’articolo 19 della Costituzione.

Il coltello (un kipran), come il turbante sotto cui era nascosto, era un simbolo distintivo della religione e il porto dell’arma costituiva – per l’agente – normale adempimento del dovere religioso.

Invero, preliminarmente, occorre sottolineare che la Corte, al fine di rendere coerente il percorso argomentativo seguito, pone in luce che all’interno dell’ all’art. 4 legge n. 110 del 1975- in forma di tipicità necessaria – è posta una clausola (al secondo comma) che scrimina il soggetto qualora sussista “il giustificato motivo” di detenzione dell’arma.

Il motivo di gravame, infatti, verte sull’assunto che “il porto del coltello era giustificato dal credo religioso per essere il Kirpan uno dei simboli della religione monoteista Sikh”, invocando così a propria giustificazione la garanzia posta dall’articolo 19 della Costituzione (“Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria religione” n.d.r.).

E’ la stessa Corte, però, che passa in rassegna brevemente e a titolo esemplificativo ma chiarificatore, i casi pratici in cui sussiste “il giustificato motivo” indicato dall’art 4 L.110/75 : “è giustificato il porto di un coltello da chi si stia recando in un giardino per potare alberi o dal medico chirurgo che nel corso delle visite porti nella borsa un bisturi; per converso, lo stesso comportamento posto in essere dai medesimi soggetti in contesti non lavorativi non è giustificato e integra il reato”.

E’ chiaro quindi che fuoriesce dal cd. giustificato motivo qualsiasi comportamento riconducibile ad un fattore culturale e religioso che possa orientare le azione del soggetto agente.

Fatte queste premesse, la Corte non ritiene configurabile la scriminante de quo (il simbolismo e l’adempimento del dovere religioso) per una serie di argomentazioni traslate dal piano generale dei principi propri dello stato sociale nazionale (e del nostro ordinamento) a quello particolare dell’inderogabile rispetto della sicurezza pubblica.

Partendo dal dato di fatto storico/sociale per cui ad oggi si deve accettare di vivere in un contesto di multietnicità, la Cassazione ricerca, infatti, un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza devono identificarsi se vogliono portare avanti il concetto di convivenza pacifica.

La Corte non impone agli individui stranieri accolti nei territori italiani di abbandonare le proprie usanze, in un’ottica di egualitarismo solidale propugnato nel nostro ordinamento dall’art 2 della Costituzione.

Gli ermellini, però, individuano un limite a tali pratiche religiose e culturali che non può essere valicato: il rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante.

Da qui nasce un preciso obbligo per gli immigrati di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui hanno liberamente scelto di inserirsi. Non solo. Dovranno obbligatoriamente, secondo gli interpreti, anche verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti – e la liceità di essi- con i principi che regolano la società “ospitante”.

Prosegue la Corte: “la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quelli di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”.

Di fatto si propone una netta dominanza dei valori della società in cui ci si vuole stanziare, rispetto a quelli del paese di provenienza qualora questi entrino in conflitto sul piano applicativo.

A ben vedere, però, si lascia margine, con l’inciso “e si ha consapevolezza”, per poter applicare ad altri casi concreti l’art 5 c.p. per cui scrimina l’ignoranza inevitabile della legge.

Posta quindi la necessità di una società multietinca, essa non deve mai tradursi in un molteplice dedalo di impostazioni culturali diverse tra loro tali da poter entrare potenzialmente e continuamente in conflitto, essendo questo il rischio che si deve necessariamente evitare.

Ciò che primariamente ed inderogabilmente si deve tutelare – secondo la Corte- è la sicurezza pubblica quale bene giuridico ed oggettivo da proteggere, che viene ricavato concettualmente dall’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese.

Dunque, seppur mancando nella decisione in oggetto un riferimento normativo costituzionale in cui far rientrare l’argomentazione della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, nell’ottica di bilanciamento/prevalenza con l’art 19 Cost. invocato a propria giustificazione dal reo, la decisione pare chiara su un punto.

I culti e le religioni, e la loro consequenziale frammentazione, non possono fungere da scriminanti e minare l’unicità dei valori giuridici e culturali del paese ospitante (nella fattispecie, l’Italia) incontrando un limite invalicabile nella pacifica convivenza e sicurezza, compendiate nell’ordine pubblico.

Infatti anche la Corte Costituzionale, con sentenza numero 63 del 2016 ritiene che “tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto – nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra – sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza”

La sezione, ad abundatiam, riprende anche il dato normativo europeo che sul punto sembra ancora più chiaro, all’ art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nella parte in cui dispone che “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui”.

Concluso l’iter argomentativo, la Corte poi cala i principi su enunciati al caso concreto, focalizzando più l’attenzione su binomio conoscibilità- non conoscibilità dei precetti normativi.

Deduce, infatti, che la norma di cui all’art. 4 legge n. 110 del 1975 sulle armi in realtà ha una formulazione ben precisa che non permette la sua non conoscenza.

Difatti, è una disposizione che è “accessibile alle persone interessate e presenta una formulazione abbastanza precisa per permettere loro – circondandosi, all’occorrenza, di consulenti illuminati – di prevedere, con un grado ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un atto determinato e di regolare la loro condotta”.

Va affermato, in conclusione, “il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere.”

In conclusione secondo gli interpreti il fattore culturale, non integrando una scriminante, non osta ad un giudizio di punibilità per una condotta lesiva di beni interessi tutelati dall’ordinamento, da valutare nella sua unicità.

Fattore culturale sentenza n. 14960/2015.

E’ utile ricordare che la Cassazione con sentenza n. 14960/2015 è già stata investita nel passato del problema circa la possibilità o meno di riconoscere il fattore culturale quale scriminante basata, stavolta, sulla forza normativa dell’art. 51 cp (in particolare nei delitti contro la persona).

La corte, in questo caso compie un’ operazione di bilanciamento, individuando nell’art 3. Cost. la norma cardine da cui far partire ogni valutazione.

Sottolinea che è lo stesso art. 3 Cost. che impone di ritenere centrali per l’ordinamento i diritti connessi alla incolumità personale, i quali prevalgono e non possono essere superati da una società multiculturale.

Per la corte non è ammissibile una scomposizione dell’ordinamento in tanti statuti individuali quante sono le etnie che lo compongono, ma si deve formare una società multiculturale avvinta da profili di unicità del tessuto sociale.

Anche secondo questa sentenza vi è un obbligo giuridico di chiunque si inserisca in tale contesto sociale di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che lo regolano e quindi della liceità degli stessi in relazione all’ordinamento giuridico.

Non è possibile quindi riconoscere una posizione di buona fede a chi “presume” senza accertarsene di avere un diritto- non riconosciuto da nessuna norma internazionale- di concretizzare condotte incompatibili seppur lecite, perché culturalmente accettate, nel paese d’origine.

Rispetto alla sentenza in esame, questo dictum individua come si è detto nell’art 3 Cost. il punto di partenza da cui negare valore scriminante al fattore culturale.

È una soluzione, secondo la Corte, costituzionalmente orientata poiché viene in gioco l’art. 3 cost. che difatti è una norma che, se è vero che attribuisce a tutti i cittadini pari dignità ed uguaglianza innanzi alla legge, può anche essere letta nel senso che occorre armonizzare i comportamenti individuali rispondenti alla varietà di culture sotto però un principio unificatore della centralità della persona umana, come denominatore minimo comune fondante la società civile.

Da ciò scaturisce l’obbligo preventivo di verifica dei propri comportamenti in termini di liceità.

Viene così, anche qui, rigettata la tesi per cui chi a causa delle sua differenti abitudini culturali del paese di origine, il reo abbia una diversa percezione della liceità dei fatti che quindi avrebbero potuto integrare una situazione di scriminante erroneamente supposta.