Con la recentissima sentenza resa a Sezioni Unite – numero 16601 del 7 luglio 2017 – la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema del riconoscimento nell’ordinamento italiano delle sentenze straniere aventi ad oggetto la condanna al risarcimento dei danni punitivi. Questione particolarmente interessante in quando sino ad ora è stato sempre negato l’ingresso nel nostro ordinamento della categoria dei danni punitivi, estranea al sistema di responsabilità civile italiano ex articolo 2043 del cc, basatosi esclusivamente sul paradigma di risarcibilità dei danni effettivamente subiti dal soggetto danneggiato e per l’ammontare corrispondente alla perdita subita.
Il nostro ordinamento, infatti, si basa sui seguenti principi, già espressi dal giudice di legittimità in diverse occasioni a partire dall’anno 2007: “nel vigente ordinamento alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, anche mediante l’attribuzione al danneggiato di una somma di denaro che tenda a eliminare le conseguenze del danno subito, mentre rimane estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta. E’ quindi incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi che, per altro verso, non è neanche riferibile alla risarcibilità dei danni non patrimoniali o morali”(sentenza n. 1183 del 2007).
Il Supremo Collegio, per la prima volta, ha affermato – basandosi sul disposto dell’articolo 363, comma 3 del cpc – che nel vigente ordinamento italiano alla responsabilità civile non è assegnato esclusivamente il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, ma sono interne al sistema medesimo anche la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è dunque ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense del risarcimento punitivo o punitive demage. Invero, il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve, tuttavia, corrispondere alla condizione che essa sia stata emessa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscono la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi. Infatti, dette condizioni occorrono ab origine, in quanto in sede di delibazione è possibile avere riguardo unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico interno.
Questo importante principio apre la strada di ingresso nel nostro sistema di tutte quelle ipotesi risarcitorie che, fino ad ora, sono state negate proprio alla luce del principio di contrarietà all’ordine pubblico.
Occorre ricordare, brevemente, cosa sono i danni punitivi. I punitive damages, di origine anglosassone, appunto, consistono nel riconoscimento al danneggiato di una somma ulteriore rispetto a quella necessaria a compensare il danno subito (compensatory damages), nel caso il danneggiante abbia agito con malice (dolo) o gross negligence (colpa grave). Negli ordinamenti di common law, questa voce ha una sua autonomia, con una funzione spiccatamente punitiva, quasi “parapenale”.
Le Sezioni Unite, con la pronuncia in commento, affrontando il nodo del riconoscimento di tre sentenze pronunciate negli Stati Uniti in una causa di risarcimento danni per incidente motociclistico, hanno messo in evidenza come nel nostro ordinamento alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di ripristinare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito un danno «poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile».
Netta la successiva presa di posizione per una compatibilità dell’istituto statunitense dei risarcimenti punitivi. Occorre, tuttavia, per il Supremo Collegio, il rispetto delle determinate condizioni: la sentenza straniera dovrà essere ancorata a una dato normativo che permetta la tipicità delle ipotesi di condanna, la loro prevedibilità e i limiti di natura quantitativa al risarcimento stesso. È il caso della legge della Florida, lo Stato da cui provengono le tre sentenze in discussione, dove sono stati introdotti comunque limiti al fenomeno della responsabilità multipla.
Per arrivare a questa conclusione le Sezioni unite ridefiniscono la nozione di ordine pubblico, in precedenza ritenuto determinante nell’impedire l´applicazione della legge straniera. Si va, cioè, verso una maggiore permeabilità nei confronti del diritto internazionale e soprattutto comunitario, alla ricerca di punto di equilibrio tra il tradizionale controllo sull’ingresso di norme o sentenze straniere che potrebbero minare la coerenza interna dell’ordinamento giuridico e una funzione promozionale dei valori tutelati dal diritto internazionale.
Questa apertura della Suprema Corte non significa però che da domani anche per cause solo nazionali i giudici italiani saranno autorizzati a un significativo incremento delle somme dovute da titolo di risarcimento. La sentenza lo precisa e circoscrive gli effetti di una «curvatura deterrente/sanzionatoria» comunque individuabile nella giurisprudenza, anche costituzionale. Per un´applicazione su larga scala servirebbe un intervento normativo, visto che «ogni imposizione personale esige una “intermediazione legislativa”», per effetto del principio costituzionale sancito dall’articolo 23 della Carta Costituzionale, che istituisce una riserva di legge sulla previsione di nuove prestazioni patrimoniali e impedisce un «incontrollato soggettivismo giudiziario».
Per comprendere più correttamente la portata del principio affermato occorre riassumere ciò che accadde all’estero. Il caso in esame trae origine da un incidente avvenuto durante in una gara automobilistica nel corso della quale, per un vizio del casco prodotto da una società italiana e rivenduto da un’altra, un motociclista subiva lesioni.
Il giudice statunitense, avendo la società rivenditrice accettato la proposta transattiva del motociclista, aveva ritenuto che detta società dovesse essere manlevata dalla società italiana produttrice del casco. La Corte di Appello di Venezia veniva, dunque, adita per la delibazione della sentenza straniera. La società produttrice proponeva ricorso per Cassazione avverso la delibazione della Corte d’Appello.
La Corte di Cassazione adita, dopo aver ripercorso i precedenti giurisprudenziali in tema di applicabilità dei punitive damages, nonché dopo aver ripercorso l’ambito applicativo del principio di ordine pubblico a norma degli articoli 16, 64 e 65 della legge 218 del 1995, ha ritenuto opportuno rimettere la decisione al Primo Presidente affinché, sulla questione, si pronunziassero le Sezioni Unite in quanto implicante la soluzione di una questione “di particolare importanza”.
Nell’ordinanza di rimessione la Sezione ha ribadito l’orientamento – contrario – della medesima Corte in tema di riconoscibilità delle sentenze straniere di condanna al pagamento di somme a titolo di danni punitivi richiamando, a tal uopo, l’orientamento seguito nelle decisioni numero 1183/2007 e 1781/2012.
La medesima Corte, a Sezioni Unite, ha premesso che tale orientamento contrario espresso a partire dall’anno 2007 è rinforzato dall’affermazione secondo cui a giustificare il diniego di riconoscimento è sufficiente, in sostanza, anche solo il dubbio dell’esistenza di una condanna ai punitive damages, non essendo “sintomatica l’assenza nella pronuncia straniera di esplicito rinvio all’istituto” in esame, richiamando sul punto la decisione del 2012.
Tuttavia, infine, è giunta alla conclusione opposta, sia pur contemperando vari criteri.
Per comprendere meglio la rivoluzionaria decisione, rispetto all’orientamento giurisprudenziale passato, si riporta brevemente quanto affermato nella sentenza del 2007: “nel vigente ordinamento l’idea della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tende ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato, ma occorre altresì la prova dell’esistenza della sofferenza determinata dall’illecito”.
L’ordinanza di rimessione ha citato e richiamato anche la sentenza del 2012 la quale così statuiva: “nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non é riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive — restando estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta — ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l’arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all’altro. E quindi incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi”.
La Sezione della Corte, nel rimettere gli atti al Primo Presidente, ha anche richiamato ulteriori pronunce rispetto a quelle già analizzate, citando la numero 15814 del 2008. Secondo tale pronuncia “nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso né il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro”.
A seguito dei richiami giurisprudenziali effettuati, tuttavia, la stessa Corte ha posto dubbi sulla posizione di netta negazione circa la previsione dei danni punitivi. La Corte si è domandata, invero, se la funzione riparatoria-compensativa, prevalente nel nostro ordinamento, sia davvero l’unica attribuibile al rimedio risarcitorio e se sia condivisibile la tesi che ne esclude, in origine, qualsiasi sfumatura punitiva-deterrente. Altro interrogativo è stato se al riconoscimento di statuizioni risarcitorie straniere, con funzione sanzionatoria, possa opporsi un principio di ordine pubblico interno.
Non è sfuggita alla Suprema Corte l’evoluzione che, negli anni, ha subito la responsabilità civile con l’introduzione di rimedi risarcitori con funzione non riparatoria, ma sostanzialmente sanzionatoria – come, ad esempio, l’articolo 96, comma 3 del c.p.c. É stato uno dei motivi determinanti del revirement dell’orientamento da sempre seguito ed indubbiamente segnato in modo significativo l’intero sistema della responsabilità civile nel nostro ordinamento.
Altri esempi citati nella pronuncia sono: il decreto legislativo numero 206 del 6.09.2005 c.d. Codice del Consumo che all’articolo 140, comma 7 prescrive di tener conto della “gravità del fatto”; nonché l’articolo 187 undecies, comma 2 del decreto legislativo numero 58 del 24.02.1998 in tema di intermediazione finanziaria. Senza entrare nel merito delle ipotesi citate occorre ribadire il principio enunciato dal Supremo Collegio: “vi è dunque un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza nell’ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un’esigenza di effettività (cfr. Corte Cost. 238/2014 e Cass. n. 21255/13) della tutela che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell’angustia monofunzionale. Infine va segnalato che della possibilità per il legislatore nazionale di configurare “danni punitivi” come misura di contrasto della violazione del diritto euro unitario parla Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5072”.
Ciò non significa che l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni di risarcimenti che vengono liquidati.”
I Supremi Giudici, invero, rispettando il principio cardine nell’ordinamento italiano di separazione dei poteri, sottolineano essere compito del solo legislatore di intervenire in materia con le modifiche sostanziali occorrenti.
Infatti, prosegue la decisione: “diviene, quindi, necessaria una “intermediazione legislativa”, secondo il principio degli artt. 23,24 e 25 della Costituzione traendo la questione della compatibilità con l’ordine pubblico delle sentenze di condanna per i punitive demages. Un ordine pubblico, configurato come “complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico, e nei principi inderogabili immanenti nei più importanti istituti giuridici” (così Cass. 1680/84) è divenuto il distillato del “sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali della Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell’Unione Europea dall’art. 6 TUE (Cass. 1302/13)”.
Le Sezioni Unite, a riprova della coesistenza tra l’ordine pubblico dell’Unione Europea e quello nazionale, citano, infatti, l’articolo 67 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che afferma testualmente: “l’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri”.
Infine, si sottolinea come la Corte sia ben consapevole che la prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente non può essere imposta al giudice italiano senza espressa previsione legislativa, così come per ogni pronuncia straniera. Il principio di legalità postula che una condanna straniera a “risarcimenti punitivi” provenga, invero, da fonte normativa conoscibile, cioè che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate, rispondenti ai principi di tipicità e prevedibilità. Pertanto, è necessaria la presenza di una legge o simile fonte che regoli la materia sulla base di principi e soluzioni di quel paese ma che non produca effetti contrastanti con l’ordinamento italiano.
In conclusione, si vuole sottolineare la complessità della questione oggetto della sentenza in commento e, come sia necessario riconsiderare tutto il sistema di responsabilità aquiliana del nostro ordinamento anche alla luce dei ripensamenti giurisprudenziali e dottrinali degli ultimi anni e degli obblighi di coordinamento ed armonizzazione verso il diritto straniero incombenti.
Sicuramente sarà molto interessante analizzare quale sarà la reazione delle corti di merito ai principi espressi dalle Sezioni Unite e se in un prossimo futuro, proprio sull’invito della Corte, anche il legislatore intervenga a modificare l’intero sistema di responsabilità extracontrattuale e contrattuale con l’apertura verso la concezione punitiva del danno risarcibile, avvicinando il nostro diritto interno al sistema tipico della common law.