1. Il sistema bancario dovrebbe essere ”ancillare” allo sviluppo delle attività industriali e imprenditoriali nell’economia reale. L’attivismo legislativo degli ultimi tempi in materia non va sicuramente in questo senso 1)Alla legge n. 5 del 29 gennaio 2014 (IMU-rivalutazone da 156.000 euro a 7,5 miliardi di euro del patrimonio della Banca d’Italia) hanno fatto seguito una serie di altri provvedimenti significativi (la legge del 24 marzo 2015 n.33 di riforma delle Banche Popolari, la legge 8 aprile 2016 n.49 di riforma delle BCC; di garanzia statale sulle cartolarizzazioni – GACS; il decreto legge del 3 maggio 2016 n. 59, poi convertito, che si è occupato anche di procedure esecutive e concorsuali e liquidazione della SGA). e non è servito a granchè. La Bce ha messo a disposizione oltre 1.000 miliardi di euro con operazioni di rifinanziamento a lungo termine a tassi di interesse vicini allo zero, nella speranza che queste risorse andassero a finanziare la ripresa che viceversa sono stati utilizzati male, vista la situazione attuale. Paesi come la Spagna, al contrario grazie alla tempestiva accettazione del «programma» di risanamento e con il supporto del cosiddetto Fondo salva-Stati, è riuscito ad attivare iniziative che, coordinate con altre azioni della BCE, gli hanno permesso di conseguire la stabilizzazione del sistema bancario ed il conseguente sostegno della ripresa. Viceversa l’Italia nell’ultimo lustro ha cambiato completamente il suo modello, con esempi di malgoverno del sistema bancario eclatanti che vanno dal Banco Napoli al Monte Paschi di Siena2)Cfr. al riguardo Fimmanò, Lo Stato si riprenda il governo del credito e lo metta al servizio dell’economia dei territori, in Gazz. forense, 2016, 3, 581 s.. Tutto il “male” è partito dalla famigerata gemmazione per legge delle c.d. Banche conferitarie ad opera delle Fondazioni di origine bancarie che a loro volta hanno subito una “mutazione genetica” forzata ed innaturale che avrebbe dovuto essere funzionale ad una sorta di “sviluppo etico dei territori”3)Per un’ampia disamina si veda Fimmanò-Coppola, Sulla natura giuspubblicistica delle fondazioni bancarie, in Riv. not., 2017, n. 4. .
Eppure la storia di questi istituti, come di tanti altri, parte dai Monti di Pietà che nascono come istituzioni finanziarie senza scopo di lucro nel tardo-medievo4)Da un punto di vista storico, i Monti di Pietà nascono dalla tradizione delle fondazioni religiose cristiane nel Medioevo che, attraverso gli ordini militari (in primo luogo i Templari), realizzarono una inedita combinazione di vita religiosa e azioni civili e militari, avviando la prima attività bancaria dell’Occidente., e in Italia nella seconda metà del XV secolo su iniziativa di alcuni frati francescani5)Lo scopo principale era quello di sostituirsi agli istituti di credito ebraici nell’ambito dell’attività di propaganda antiebraica dei francescani. La creazione dei Monti di Pietà era quindi preceduta da intense attività di predicazione al fine di raccogliere il consenso popolare sulla necessità di epurare la società italiana dall’usura, praticando tassi di interesse più bassi di quelli richiesti dai banchi ebraici, al solo fine di coprire le spese di gestione., con funzioni di microcredito a condizioni favorevoli rispetto a quelle di mercato. L’erogazione finanziaria avveniva in cambio di un pegno da parte dei clienti, a garanzia del prestito, che valesse almeno un terzo in più della somma da concedere in prestito. Il Monte della Pietà, fondato a Napoli nel 1539 con lo scopo di concedere prestiti gratuiti su pegno a persone bisognose, cominciò, nella seconda metà del secolo XVI, anche a ricevere depositi, dando così vita all’attività bancaria in senso proprio.
I Monti di Pietà cominciarono poi ad evolversi per divenire delle vere Casse di risparmio. Il processo fu, però, interrotto dall’arrivo in Italia di Napoleone nel 1796 che, in nome del diritto di conquista, si appropriò dei loro beni come di tutti quelli degli ordini religiosi. Nel 1807, a seguito della Restaurazione, i Monti ottennero nuovamente l’autonomia, ma ormai era troppo tardi per lo sviluppo di servizi finanziari (uniti all’impegno sociale) che passarono definitivamente alle Casse . Queste ultime nate in Italia nei primi anni del XIX secolo sempre al fine di sostenere lo sviluppo dei ceti sociali meno abbienti assunsero il ruolo di intermediari tra Stato e cittadini, indirizzando la propria attività verso scopi di natura previdenziale. In realtà si trattava di un fenomeno solo apparentemente unitario, poiché nell’ ampio genus era possibile distinguere tra casse di risparmio a struttura fondazionale, emanazione diretta di entità pubbliche o di altre istituzioni che conferivano un fondo di dotazione e nominavano un consiglio o un comitato d’amministrazione, e casse a struttura associativa, istituite da privati che, mossi da spirito solidaristico, versavano la propria quota e partecipavano attivamente nella veste di soci riuniti in assemblea. Almeno all’origine, quindi, la funzione principale delle casse era quella di raccogliere denaro risparmiato a scopo previdenziale, senza alcun intento speculativo.
Sul piano della disciplina giuridica solo con la c.d. legge Crispi del 1888 venne introdotta una normativa organica, in base alla quale le casse venivano qualificate come “Istituti” ben distinti, anche per la funzione sociale assolta, dalle altre aziende di credito, con lo scopo di raccogliere depositi a titolo di risparmio. L’intervento legislativo era finalizzato da un lato a sottrarre l’attività delle casse all’influenza diretta dei fondatori e agli interessi privati, e dall’altro ad accrescerne la solidità in modo da fornire strumenti idonei a fronteggiare i rischi correlati all’attività creditizia, divenuta col tempo prevalente rispetto all’originario scopo mutualistico.
Nel perseguire questi obiettivi la legge Crispi sottoponeva le casse alla vigilanza del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, al quale venivano attribuite funzioni ispettive e di controllo. La Corte di Cassazione che nel 1930 riconobbe la natura pubblica delle Casse, segnando la loro attrazione nell’alveo del diritto pubblico. È con la legge bancaria del 1936 che viene definitivamente fatta luce sulla natura delle casse, le quali, proprio in virtù dell’ esercizio dell’attività bancaria, definita dal legislatore di “pubblico interesse”, vengono equiparate formalmente alle banche ordinarie e vengono inserite, unitamente agli istituti di credito di diritto pubblico e ai Monti di Credito su Pegno, tra i soggetti pubblici sottoposti ad un penetrante controllo statale. Questo impianto normativo ha modellato il sistema bancario nazionale per oltre cinquant’anni. La legge è il frutto delle trasformazioni politiche dello stato italiano in senso autoritario, cui fa da pendant un’economia fortemente dirigista realizzata attraverso l’ampio sistema di partecipazioni statali e la proprietà della banche pubbliche.
La riforma del 1936 si poneva, tra gli altri, l’arduo compito di riorganizzare il lavoro degli istituti di credito, soprattutto sotto il profilo del coordinamento geografico fra gli stessi, in vista di un rafforzamento del mercato nazionale. In questa prospettiva ben si comprende la scelta di campo operata dal legislatore di sottoporre ad approvazione governativa gli statuti degli enti creditizi, poiché, per questa via, l’organo deputato all’approvazione degli statuti (il Ministro del Tesoro) poteva esercitare penetranti poteri di controllo sulla gestione degli istituti di credito, in particolare di quelli pubblici, riservando a sé ampi poteri di nomina.
Se l’intento legislativo di preservare l’unitarietà del sistema creditizio era decisamente encomiabile, non fu tale, però, il risultato raggiunto, dal momento che il meccanismo delle nomine pubbliche, sia centrali che periferiche, ha garantito ai partiti politici e alla classe dirigente di creare e alimentare per decenni una fitta rete di legami, e spesso di scambi, tra banche e politica.
La storia delle casse di risparmio, e più in generale del sistema bancario nazionale, non subisce forti scosse almeno fino agli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, quando il vento delle “pseudo-liberalizzazioni” iniziò a soffiare sul nostro sistema economico . A quell’epoca il mondo finanziario viveva trasformazioni profonde. Basti pensare che proprio in questo frangente storico, negli Stati Uniti l’industria bancaria si batteva per l’ abrogazione del Glass-Steagall Act, la legge del 1933 che, per arginare le conseguenze disastrose della crisi finanziaria del 1929, aveva introdotto, a tutela dei risparmiatori, la separazione tra l’attività bancaria tradizionale e l’attività di elaborazione e distribuzione di strumenti finanziari, nota come investment banking.
L’inevitabile interazione con sistemi produttivi differenti rese evidenti i limiti del nostro sistema creditizio ed innescò il dibattito sul suo riordino, che è durato circa un ventennio e che ha trovato nella Banca d’Italia un King maker. La banca centrale italiana, infatti, rimarcava la necessità di superare il sistema degli enti pubblici economici, caratterizzati dalla sovrapposizione tra disciplina privatistica dell’attività e disciplina pubblicistica del soggetto. Furono, così, tracciate le linee di riforma del settore che, senza incidere sul piano legislativo, convergevano verso una revisione statutaria degli istituti di credito di diritto pubblico, invitati all’adozione del modello societario, in particolare della società per azioni, ritenuto più appropriato per l’esercizio dell’attività economica. La riorganizzazione degli istituti di credito, ed in particolare delle casse di risparmio, secondo il modello societario avrebbe dovuto garantire, secondo questa impostazione, l’efficientamento delle risorse e del sistema di gestione, nonché l’apertura all’apporto esterno di capitali di rischio, passaggio giudicato necessario per il consolidamento della loro base patrimoniale.
2. È interessante notare come le indicazioni contenute nei provvedimenti della Banca d’Italia siano poi confluite nella legge Amato del 1990 che ha dato il via alla fase della c.d. “privatizzazione fredda o formale”. La legge Amato, infatti, non mirava ad una privatizzazione della proprietà ma, con un intervento di soft-law, promuoveva l’adozione di un modello privatistico di gestione (una sorta di aziendalizzazione), rimodulando, quindi, la veste giuridica degli enti coinvolti, per giungere alla netta separazione dell’impresa bancaria dalle altre attività non qualificabili come tali. Agli enti conferenti veniva, così, assegnato un compito primario, con l’attribuzione e la gestione del pacchetto di controllo della banca – controllo che sugellava un legame necessario tra ente conferente ed spa bancaria –, ed uno secondario, con la promozione dello sviluppo economico, sociale e culturale della comunità. Di fatto gli enti conferenti, pur spogliandosi dell’attività bancaria, ne conservavano il controllo strategico, assumendo il ruolo di investitori stabili nelle banche ed accrescendo la propria influenza sul piano economico e politico. Il profilo derivante vedeva, quindi, una duplicità di soggetti che, distinti strutturalmente, erano tra loro strettamente legati tramite una partecipazione di controllo, che determinava una continuità funzionale tra di essi.
Gli interventi normativi che si sono susseguiti hanno modificato notevolmente il modello originale, tradendo i principi cardine della legge del 1992 ed assegnando agli enti conferenti un nuovo ruolo giuridico. Già con l’entrata in vigore del successivo decreto delegato n. 356, infatti, i problemi connessi alla natura e all’oggetto dell’attività degli enti conferenti iniziano a complicarsi. È in sede governativa, infatti, che si realizza un’inversione del fine con il mezzo: scopo dell’ente conferente non è più la holding ma il perseguimento di fini di “interesse pubblico e di utilità sociale”, rispetto ai quali le partecipazioni azionarie servono solo per trarre gli utili necessari al loro perseguimento.
Da un lato, si ritrova una qualificazione expressis verbis in termini pubblicistici degli enti conferenti posto che il Titolo III viene rubricato “Enti pubblici economici”, dall’altro l’art. 11, 2° comma stabilisce che detti enti «hanno piena capacità di diritto pubblico e di diritto privato» palesando dunque una intrinseca contraddittorietà sulla natura delle fondazioni di origine bancaria che, se da un versante erano autorizzate a compiere operazioni finanziarie, dall’altro, erano ancora sottoposte alla vigilanza del Ministro del Tesoro. L’incertezza era tanta e non è un caso che il padre riformatore del sistema creditizio definì le fondazioni bancarie come “mostri senza anima”, richiamando alla memoria la figura letteraria del dottor Frankenstein e della sua creatura, proprio per sottolinearne la natura giuridica, frutto di una contaminazione tra pubblico e privato.
Per porre un freno alla confusione dilagante, fu accreditata in dottrina la qualificazione dell’ ente conferente come figura ibrida di diritto speciale: «l’ente pubblico conferente, pur appartenendo più al diritto pubblico che al diritto privato, subisce anche le suggestioni e le provocazioni delle categorie privatistiche dando vita ad una figura ibrida di diritto speciale».
Le tappe normative che seguirono se, da un lato consentirono la rimozione degli ostacoli ad una privatizzazione sostanziale delle nuove società bancarie – prevedendo il passaggio della proprietà dei relativi pacchetti azionari a soggetti privati –, dall’ altro sembrano indirizzare gli enti conferenti verso un processo di “ripubblicizzazione”.
Anche perché, ed è questo un punto baricentrico della prospettiva, sarebbe quanto mai strano che una entità bancaria pubblica che non è stata trasformata semplicemente in una società per azioni, ma ha gemmato una società per azioni bancaria, acquisendo nuove funzioni e rimanendo soggetta a controllo pubblico ed a una governance di designazione sostanzialmente pubblica, subisse essa stessa una mutazione genetica della natura giuspubblicistica.
3. In questo quadro, ancora poco chiaro, intervenne il d.lgs 153/99 (c.d. legge Ciampi) che, nello statuire che le fondazioni non potessero più svolgere il ruolo di holding di partecipazioni bancarie, intese qualificare detti istituti quali enti di diritto privato. Così, le fondazione di origine bancaria vengono ex lege trasformate in “persone giuridiche private senza scopo di lucro con piena autonomia statutaria e gestionale”, ed assumono la struttura della fondazione grant-making, che utilizza i frutti del proprio patrimonio per erogare risorse a favore di progetti gestiti da terzi soggetti. Le fondazioni bancarie, private dell’originario ruolo di holding di partecipazioni bancarie e della possibilità di assumere il controllo di imprese, vengono poste al servizio delle comunità locali. L’assetto derivante dal plesso Ciampi – Amato ha costretto la dottrina a polarizzare il confronto tra chi, pur salutando favorevolmente la collocazione nell’ambito privatistico delle fondazioni bancarie, rimproverava la mancanza di una disciplina coerente con il riscoperto principio autonomistico, e chi, all’opposto, considerava la nuova disciplina un vero e proprio modello da seguire per la futura riforma del diritto delle persone giuridiche private, posto che per superare lo squilibrio esistente in relazione al riconoscimento della personalità giuridica tra fondazioni ed associazioni da un lato, e società di capitali, dall’altro, occorre che venga dettata una normativa ben più dettagliata di quella esistente.
Lo scenario era destinato a complicarsi ulteriormente con l’avvento della c.d. riforma Tremonti (poi l. 28 dicembre 2001, n. 448), severamente criticata dalla dottrina e dal Consiglio di Stato poiché ebbe l’effetto di rendere ancora più invasiva l’ingerenza del potere pubblico a discapito dell’autonomia delle fondazioni, tanto che alcuni commentatori hanno parlato di una vera e propria “controriforma”. Nello specifico, l’intervento legislativo operato con la finanziaria del 2002 «rafforza il penetrante controllo politico sulla composizione dell’organo di indirizzo delle fondazioni, trasformandole, di fatto, “in meri strumenti finanziari a disposizione dei politici locali». In particolare l’art. 11 della l. n. 448 del 2001 ed il regolamento adottato con d.m. 217 del 2002, in attuazione del 14° comma del predetto articolo, interviene su differenti aspetti della disciplina delle fondazioni bancarie, comprimendo la loro piena autodeterminazione fin quasi ad annullarla. Per quanto concerne, infatti, i settori di intervento, le fondazioni sono chiamate ad individuare fra i nuovi venti settori ammessi tre nei quali operare in via prevalente per un triennio. Tale previsione non conosce modulazioni diversificate che tengano conto delle dimensioni specifiche degli enti e della loro vocazione territoriale, ma si applica indistintamente a tutte le fondazioni, impedendo una programmazione degli interventi efficace, efficiente e sostenibile.
4. La Corte costituzionale con la sentenza n. 300 del 2003, in difformità a quanto precedentemente statuito (sent. 341 e 342 del 2001) ha affermato che, essendo concluso il periodo transitorio per la totale dismissione delle partecipazioni nelle banche conferitarie previsto dall’art. 25, comma 1, del d.lgs. n. 153 del 999, le fondazioni non possono più considerarsi come soggetti caratterizzati dall’appartenenza all’organizzazione del credito e del risparmio, a nulla rilevando eventuali partecipazioni «di atto» ancora esistenti, in quanto la Corte giudica sulle leggi e non, potrebbe dirsi, sulla «realtà effettuale». Ciò comporta che i richiami ai settori legislativi delle «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale» (competenza concorrente) e della «tutela del risparmio e dei mercati finanziari» (competenza esclusiva statale) sono fuori luogo; e ancora che le fondazioni di origine bancaria, in quanto definite dalla legge come «persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale», hanno ormai assunto natura giuridica privata. Pertanto, il richiamo al settore legislativo degli «enti pubblici nazionali» (competenza esclusiva statale) è fuori luogo, dovendo invece farsi riferimento, per stabilire la competenza legislativa in ordine alle fondazioni, all’art. 117, comma 2, lett. l), intitolato all’«ordinamento civile», nel cui ambito va ricondotta, giusta la loro natura giuridica, la disciplina delle fondazioni di origine bancaria. Essendo quest’ultimo ambito materiale di competenza legislativa esclusiva statale, nessuna censura può essere mossa, sotto questi profili, all’art. 11 della l. n. 448 del 2001.
Riepilogando, quindi, nella sentenza n. 300 la Corte, mediante un rinvio alle norme del decreto delegato 153 del 1999, esclude che le fondazioni di origine bancaria ricadano più nell’ambito pubblicistico, dato che il corso dell’evoluzione legislativa nel settore creditizio dimostra l’interruzione del “vincolo genetico e funzionale” esistente tra ente conferente e società bancaria conferitaria. Lo stesso vincolo cui la Corte aveva fatto riferimento nelle sentenze del 2001 per evidenziare, al contrario, la natura di enti creditizi delle fondazioni bancarie, ma che, in quella fase intermedia di adeguamento, veniva interpretato alla luce del contesto storico di riferimento. Utilizzando le parole della Consulta, le considerazioni dalla stessa formulate nel 2001 «non possono proiettarsi oltre la fase di ordinaria ristrutturazione degli enti conferenti-fondazioni di origine bancaria».
5. Ciò detto, ad oggi appare che le fondazioni abbiano assunto il ruolo di enti espressione della società nel suo complesso: di quella politica, essendo in parte gli amministratori espressione degli enti pubblici territoriali, ma anche dell’insieme delle altre realtà con cui la società persegue la realizzazione dei propri fini. Per questo anche le istituzioni culturali – università, accademie – economiche – camere di commercio – del volontariato, diocesi pure concorrono alla formazione degli organi di indirizzo delle fondazioni.
Sembra, dunque, che le fondazioni bancarie si collochino nella lunga (e mutevole) linea di confine che separa il diritto pubblico dal diritto privato in quanto si tratta di istituzioni che hanno formalmente la veste privatistica cui vengono assegnati compiti di cura di interessi pubblici, ma che soprattutto hanno la prevalenza degli organi nominati da soggetti pubblici, sono vigilati da Autorità pubbliche e godono talora di provvidenze pubbliche. Ciò senza dimenticare che vengono fuori da un originario ente pubblico che ha gemmato una banca in forma societaria e che come mera entità gemmante è stata qualificata fondazione di diritto privato con una forzata mutazione genetica nonostante per alcuni versi la connotazione delle attività e della struttura sia stata di fatto ancora più connotata dall’interesse pubblico o almeno collettivo.
Le fondazioni bancarie rappresentano delle zone d’ombra, frutto dell’ambiguità derivata dalla scelta arbitraria di amministrare patrimoni miliardari secondo logiche privatistiche al fine di destinarne gli utili ad attività pubbliche. Le stesse erogano annualmente centinaia di milioni di euro determinando le politiche pubbliche locali specie dopo la fine della spesa pubblica locale ed i patti di stabilità. Recuperando l’etimo della parola “politica”, che afferisce all’organizzazione e amministrazione della vita pubblica, è evidente che ci trova dinanzi a veri e propri soggetti politici che, grazie alla veste privatistica, sfuggono a qualsiasi controllo democratico.
Ma è dunque davvero possibile considerare le fondazioni bancarie soggetti di diritto privato “speciale”? Per poter rispondere a questa domanda appare doveroso fornire una definizione, orientativa, del concetto di autonomia. L’autonomia privata si configura come il potere di autodeterminazione dell’attività e dei comportamenti di uno o più soggetti alla stregua di prescrizioni poste dagli stessi soggetti i cui comportamenti risultano da esse condizionati. Scegliendo tale definizione come parametro di riferimento possiamo verificare se l’autonomia delle fondazioni bancarie, come designata dal legislatore, è ad esso riferibile.
6. Chi colloca in modo netto e definitivo le fondazioni bancarie nel mondo del non profit privato , non tiene conto di un aspetto che, a parere di chi scrive, è tutt’altro che marginale.
Molte fondazioni sono a tutt’oggi gli azionisti di riferimento delle maggiori banche italiane, così che risultano portatrici di ulteriori e differenti interessi rispetto agli scopi di “utilità sociale e di promozione dello sviluppo”, nonché detentrici di un enorme potere economico e politico reso opaco dalle scelte di una classe politica poco incline ad abbandonare gli spazi di influenza sulla finanza concessi dalla legislazione vigente.
È quindi doveroso spingersi oltre le affermazioni di principio, idonee a garantire investiture formali non sorrette però da argomentazioni convincenti, e indagare la realtà per verificare la natura del rapporto che sussiste tra politica, fondazioni bancarie e banche conferitarie.
È evidente, infatti, che per inquadrare le fondazioni bancarie nel settore del non profit è necessario rifondare la loro disciplina a partire dalla necessità di recidere il legame tra politica e finanza, legame che, come dimostra la vicenda di Monte Paschi di Siena, ha indebolito l’intero sistema bancario nazionale. La compresenza di finalità di interesse pubblico e scopi rispondenti a logiche di natura politica è un aspetto che si collega all’attribuzione dei diritti di voto in assemblea e alle procedure di nomina dei vertici delle aziende bancarie.
Attenta dottrina ha evidenziato come la principale criticità della legislazione in tema di fondazioni bancarie riguardi la governance delle stesse ed in particolare l’importanza strategica assegnata all’ organo di indirizzo i cui componenti vengono cooptati con meccanismi di carattere prevalentemente politico poiché, insieme alle Università, alla Chiesa e alle Camere di commercio, anche gli enti locali hanno ampi poteri di designazione. Per tale via non è difficile immaginare come, al di là del principio di indipendenza cui devono ispirare il loro agere all’interno della fondazione i “rappresentanti” degli enti territoriali, gli interventi dell’ente possano essere piegati ai meccanismi di consolidamento del consenso politico.
Le fondazioni bancarie continuano quindi a catalizzare l’attenzione del mondo politico in quanto risultano ancora oggi, nonostante le finalità poste a base degli interventi di privatizzazione, importanti centri di potere per i patrimoni milionari di cui dispongono, nonché interlocutori privilegiati del sistema bancario grazie ai meccanismi di nomina dei vertici aziendali, condizionando gli indirizzi strategici delle società conferitarie. Tanto più che l’attuale regime delle incompatibilità di cui all’ art. 4, comma 2-bis del d.lgs. 153/1999, esclude il cumulo delle cariche ma non impedisce il passaggio di un componente dell’ente conferente alla banca conferitaria, come fossero vasi comunicanti.
Quest’ultimo aspetto si collega al problema di fondo derivante dall’effettivo assolvimento dell’ obbligo posto a carico delle fondazioni bancarie di dismettere le partecipazioni di controllo nelle società conferitarie. A distanza di oltre quindici anni dall’entrata in vigore della riforma Ciampi qual è lo stato dell’arte?
Innanzitutto si segnala che nel 2003 con il d.l. 143 fu approvato l’emendamento Volonté che introduce all’art. 25 del d.lgs. 153 il comma 3-bis a mente del quale “alle fondazioni con patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio approvato non superiore a 200 milioni di euro, nonché a quelle con sedi operative prevalentemente in regioni a statuto speciale, non si applicano le disposizioni” sugli obblighi di dismissione delle partecipazioni di controllo. È evidente che con tale norma si autorizza, in concreto, il rafforzamento dei rapporti tra fondazione bancaria e società conferitaria.
Secondo parte della giurisprudenza il possesso da parte delle fondazioni bancarie delle partecipazioni di controllo sulle banche conferitarie assumerebbe i tratti della mera attività di amministrazione delle stesse avente carattere strumentale e servente rispetto agli scopi statutari di pubblica utilità e non ne forma pertanto l’oggetto principale.
Tuttavia questo aspetto, come rilevato dalla giurisprudenza tributaria, «non può eliminare il dato che emerge dal sistema, e cioè che i c.d. enti conferenti, qualunque sia la loro forma giuridica e benché privi di scopi di lucro, sia geneticamente che funzionalmente assolvono al compito di assumere la titolarità e l’amministrazione di un rilevante numero di imprese bancarie, esercitando i poteri di controllo sulle stesse, fra cui la nomina e la revoca degli amministratori». A nulla rileverebbe, sul piano interpretativo, la conclusione cui giunge la Corte costituzionale del 2003 poiché il venir meno del vincolo genetico funzionale che lega le fondazioni bancarie, qualificate come persone giuridiche private senza scopo di lucro, e le società bancarie presuppone la totale dismissione delle partecipazioni conferitarie.
Ciò significa che le fondazioni bancarie operano in bilico tra l’impiego di erogazioni con finalità sociale e di investimento per lo sviluppo territoriale e la necessità di scelte finanziarie e di credito alla base della normale attività bancaria.
In questa prospettiva occorre svolgere un’indagine sul permanere del controllo delle fondazioni bancarie sulle banche conferitarie. Volgendo lo sguardo ai più grandi gruppi bancari del sistema italiano, Intesa, Unicredit ed MPS, e prendendo spunto dall’analisi condotta dalla migliore dottrina il primo dato che balza agli occhi è che nei relativi statuti trova accoglienza il “voto di lista”, introdotto dalla legge sul risparmio n. 262 del 2005 per garantire la “rappresentanza di azionisti di minoranza nell’organo di amministrazione delle società quotate”.
Da un’analisi fattuale emerge un quadro ambiguo che sembra rendere evanescente la volontà del legislatore e le indicazioni della Corte costituzionale . Le riflessioni che precedono evidenziano un forte e problematico discostamento tra l’essere delle fondazioni bancarie, che in concreto operano come centri di allocazione del potere, e il dover essere degli enti privati appartenenti al mondo del non profit.
Non è un caso, quindi, che nel 2014 il presidente dell’ Autorità Garante della concorrenza e del mercato nelle “Segnalazioni per la legge annuale per il mercato e la concorrenza 2014” abbia sentito l’esigenza di ribadire la necessità di un effettivo rafforzamento della “separazione tra fondazione e banca conferitaria, ampliando la portata del divieto di detenere il controllo di una banca anche alle ipotesi di controllo di fatto esercitato congiuntamente con altri azionisti”.
Sulla necessità di mettere mano ad una riforma strutturale del fondazioni bancarie si siano pronunciati due tra i più influenti organismi del settore bancario esistenti al mondo il Fondo Monetario Internazionale e la BCE.
Il primo in uno studio del 2014 ha evidenziato come le fondazioni non avendo azionisti siano “soggette all’influenza politica, che finisce così per colpire la composizione dei corpi decisionali e le attività delle banche italiane, dal momento che sono azioniste di maggioranza nel 23% delle attività bancarie italiane attraverso la partecipazione in oltre il 20% del capitale bancario”.
A sua volta gli stress test sui requisiti patrimoniali delle banche europee condotti dalla BCE condotti nel 2014 e volti a verificare lo stato di salute del sistema creditizio europeo hanno mostrato come, ad esempio, la bocciatura di Banca Carige sia stata determinata da una carenza patrimoniale a sua volta riconducibile agli “aspetti degenerativi del legame che a seguito della c.d. riforma della banca pubblica “ha caratterizzato il rapporto tra le fondazioni disciplinate dalla legge Carli-Ciampi e le società loro conferitarie”.
In una ricerca della European Foundation Centre emerge che “nonostante pochi casi di buone pratiche, le fondazioni di origine bancaria rappresentano un quadro istituzionale molto asimmetrico ed irregolare, di recente colpito da gravi scandali, caratterizzato da una ambivalenza istituzionale tra la definizione statutaria di entità private ed il loro “pratico” comportamento come enti pubblici che frequentemente tratta o interagisce con questioni politiche e potere pubblico regionale o locale, che ha prodotto un livello crescente di biasimo”.
La descrizione che precede mostra chiaramente uno scenario impietoso difronte al quale la stipula del Protocollo di intesa tra Acri e MEF risulta parva res. Certo si tratta di un passo avanti rispetto alle mere dichiarazioni d’intenti ma l’esigenza di ricondurre a coerenza un sistema fortemente condizionato da logiche di potere come quello delle fondazioni bancarie, munite di una grande dovizia di mezzi patrimoniali e finanziari, andrebbe soddisfatta con la predisposizione di una nuova disciplina di rango legislativo e non mediante forme negoziali, posto che il modello convenzionale si risolve in una regola giuridica prodotta inter partes.
I dati riportati nelle pagine precedenti inchiodano gli operatori del diritto ad una realtà in cui le fondazioni bancarie continuano, nonostante l’emorragia finanziaria degli ultimi anni, ad adoperarsi per conservare posizioni di rilievo nell’assetto proprietario delle banche conferitarie, incidendo sulle politiche di governance, anche ricorrendo alla stipula di “patti di sindacato” con soggetti in possesso di partecipazioni rilevanti.
A riprova della volontà delle fondazioni di mantenere una parte residua – ma pur sempre rilevante -all’interno della compagine sociale delle banche conferitarie vi sono le discutibili strategie di «riduzione della partecipazione da esse detenuta, al fine di reinvestire quanto risulta dalla dismissione nelle operazioni di aumento di capitale, piuttosto che nella riduzione di debiti pregressi (assunti nei confronti di una pluralità di soggetti creditori)»
Vi sono, quindi, dei dati incontrovertibili rispetto ai quali la connotazione privatistica delle fondazioni appare una forzatura studiata a tavolino. Si pensi all’origine oggettivamente pubblica dei loro patrimoni il cui controllo è oggetto di contese politiche, alla loro sottoposizione alla vigilanza del Ministero dell’economia e delle finanze, al loro ruolo di investitori stabili sia nelle società bancarie che nella Cassa depositi e prestiti società per azioni a controllo pubblico, possedendo il 15,93% del relativo capitale, alla possibilità di essere considerate organismi di diritto pubblico per quanto concerne la disciplina dei contratti ad evidenza pubblica. Tutti questi elementi non possono essere ignorati e sollecitano risposte efficaci, che esulino da definizione preconfezionate e di generalizzata applicazione.
Sotto una prospettiva sostanzialista il fenomeno appare riconducibile ad una sorta di fondi sovrani all’italiana. Così mentre alcuni autori rivendicano la natura privatistica delle fondazioni bancarie, altri propongono un’espropriazione dei loro patrimoni per ripianare il debito pubblico, altri ancora forniscono una lettura del fenomeno secondo il paradigma dei “beni comuni” quale diversa dimensione del possedere. In particolare quest’ ultima tesi ricostruttiva, che appare più interessante, quanto meno per la sua innovatività, si fonda sul presupposto che, essendo il risparmio un bene comune di cui va garantita la fruibilità anche alle generazioni future, sarebbe opportuno stabilizzare le fondazioni bancarie, che ne sono custodi, nel ruolo di investitori stabili nelle banche italiane, rendendole, al contempo, più trasparenti e democratiche. Il superamento del principio autoreferenziale di cooptazione dovrebbe, cioè, cedere il passo a forme di partecipazione pluralista delle comunità di riferimento attraverso propri rappresentanti scelti tra i migliori esponenti delle associazioni civili dei cittadini.
Le fondazioni bancarie sono state istituite come enti pubblici aventi il compito specifico di gestire il pacchetto azionario delle banche e non come enti non profit; il loro patrimonio deriva dal risparmio pubblico e comunque appartiene ad un ente che era pubblico e solo normativamente riqualificato “in vitro”.
Permane ancora oggi quell’“abbraccio mortale” con le banche conferitarie che ha determinato un loro drastico impoverimento; l’influenza dei pubblici poteri si coglie, prescindendo dal dato quantitativo, sol considerando che da un lato permane il potere di nomina in capo agli enti pubblici (a niente rilevando il divieto formale di mandato a rappresentare gli interessi dell’ente esterno alle fondazioni a meno di non voler credere, ingenuamente, che non si determini commistione di intenti nei processi decisionali) e dall’altro le fondazioni, grazie alle ingenti somme che possono erogare, nei rispettivi territori di pertinenza fanno ormai molta più politica di quanto non ne riesca a fare un sindaco e un presidente di provincia, stretti come sono dalla morsa del patto di stabilità. Tutto questo per non parlare del livello e della formale invasività delle norme sulla vigilanza pubblica. Insomma come per le società a partecipazione pubblica fanno comodo fondazioni “double face” che gestiscono patrimoni pubblici ma erogano senza alcun procedimento di evidenza pubblica, assumono senza concorsi e spendono senza vincoli effettivi, non subendo la normativa sanzionatoria in tema di reati contro la P.A. né il controllo della corte dei conti.
Ma se il loro patrimonio è tutto di origine pubblica perché non tornare al passato e risolvere la crisi del sistema bancario con semplici fusioni tra banche e fondazioni? Non crediamo che queste fondazioni abbiano dato grande prova di utilità nel “governo sociale” dei territori, almeno farebbero qualcosa di utile sostenendo un sistema economico che “comunque” rimane banco-centrico.
Note
1. | ↑ | Alla legge n. 5 del 29 gennaio 2014 (IMU-rivalutazone da 156.000 euro a 7,5 miliardi di euro del patrimonio della Banca d’Italia) hanno fatto seguito una serie di altri provvedimenti significativi (la legge del 24 marzo 2015 n.33 di riforma delle Banche Popolari, la legge 8 aprile 2016 n.49 di riforma delle BCC; di garanzia statale sulle cartolarizzazioni – GACS; il decreto legge del 3 maggio 2016 n. 59, poi convertito, che si è occupato anche di procedure esecutive e concorsuali e liquidazione della SGA). |
2. | ↑ | Cfr. al riguardo Fimmanò, Lo Stato si riprenda il governo del credito e lo metta al servizio dell’economia dei territori, in Gazz. forense, 2016, 3, 581 s. |
3. | ↑ | Per un’ampia disamina si veda Fimmanò-Coppola, Sulla natura giuspubblicistica delle fondazioni bancarie, in Riv. not., 2017, n. 4. |
4. | ↑ | Da un punto di vista storico, i Monti di Pietà nascono dalla tradizione delle fondazioni religiose cristiane nel Medioevo che, attraverso gli ordini militari (in primo luogo i Templari), realizzarono una inedita combinazione di vita religiosa e azioni civili e militari, avviando la prima attività bancaria dell’Occidente. |
5. | ↑ | Lo scopo principale era quello di sostituirsi agli istituti di credito ebraici nell’ambito dell’attività di propaganda antiebraica dei francescani. La creazione dei Monti di Pietà era quindi preceduta da intense attività di predicazione al fine di raccogliere il consenso popolare sulla necessità di epurare la società italiana dall’usura, praticando tassi di interesse più bassi di quelli richiesti dai banchi ebraici, al solo fine di coprire le spese di gestione. |