Home Articoli L’adunanza Plenaria nega l’ammissibilità della rinuncia abdicativa espropriativa

L’adunanza Plenaria nega l’ammissibilità della rinuncia abdicativa espropriativa

3674
0
CONDIVIDI

Con la sentenza n. 2 del 2020, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sulla questione giuridica di massima circa l’ammissibilità, nell’ordinamento italiano, del fenomeno di rinuncia abdicativa espropriativa quale atto implicito pronunciando il seguente principio di diritto “per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata”.

La questione ha trovato riconoscimento in dottrina e in giurisprudenza, benché manchi un’espressa previsione normativa a riguardo. L’istituto in esame ha trovato applicazione, in particolare, nei casi in cui, a seguito di espropriazione illecita da parte della P.A., il privato abbia interesse al mero risarcimento del danno per equivalente e non anche alla restituzione del bene, tenuto conto che l’occupazione del suolo e la conseguente trasformazione del fondo fa venir meno l’interesse stesso alla riconsegna del bene.

In via preliminare, l’Adunanza Plenaria delinea i caratteri strutturali della rinuncia abdicativa e la definisce come “un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette, abdica, perde una situazione giuridica di cui è titolare, rectius esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso. Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono anche incidere sui terzi, sono, infatti, solo conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto, tant’è che la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia cd. traslativa proprio per la mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge. Per il suo perfezionamento non è, pertanto, richiesto l’intervento o l’espressa accettazione del terzo né che lo stesso debba esserne notiziato”.

Nel restringere l’oggetto di indagine alla sola rinuncia abdicativa espropriativa, poi, i giudici di Palazzo Spada hanno delineato i termini della questione, passando in rassegna le ragioni a sostegno dell’ammissibilità dell’istituto, condivise da dottrina e giurisprudenza maggioritarie. Nella specie, ammettere la rinuncia abdicativa espropriativa presenta aspetti favorevoli per il privato espropriato sia dal punto di vista processuale – potendo il privato agire nei confronti del giudice amministrativo e per la legittimità dell’atto espropriativo, e per la determinazione del quantum da corrispondere – sia dal punto di vista sostanziale – permettendo al privato di essere compensato integralmente a titolo di risarcimento del danno e non a titolo di indennizzo.

Fatte queste premesse, l’Adunanza Plenaria nega perentoriamente la configurabilità, nel nostro ordinamento, della rinuncia abdicativa espropriativa, per un triplice ordine di ragioni.

  1. La vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante.

Si rileva innanzitutto che “se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’Autorità espropriante”. Invero, l’art. 827 c.c. nel prevedere che gli immobili che non sono proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato, quale effetto giuridico conseguente ad una determinata situazione di fatto, contempla una ipotesi di acquisto a titolo originario in capo allo Stato e non all’Autorità espropriante. Si esclude, inoltre, che l’effetto traslativo possa recuperarsi con l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno, tenuto conto che la funzione della trascrizione è quella dichiarativa che ha l’effetto di rendere opponibili ai terzi gli atti giuridici dispositivi di diritti reali, e non anche quella di disciplinare la validità e l’efficacia giuridica degli stessi. In definitiva, “se l’atto non è in sé idoneo a determinare il passaggio del bene in capo all’Amministrazione espropriante non potrà già di per sé essere trascrivibile e all’eventuale ordine del giudice contenuto nella sentenza non potrebbe riconoscersi base legale”.

  1. La rinuncia abdicativa, ricostruita quale atto implicito, non ne possiede le caratteristiche essenziali.

Il provvedimento implicito è ammesso nel diritto amministrativo quando “l’Amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente, congiungendosi tra loro i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e della possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. VI, 27 novembre 2014, n. 5887 e, di recente, Cons. Stato, Sez. V, n. 589 del 2019)”.

Non trova spazio, quindi, la rinuncia abdicativa in questo ambito, considerato soprattutto che si tratta di atto del privato e non già della pubblica amministrazione. Né sarebbe possibile ricondurre automaticamente la volontà di abdicare alla proprietà privata alla domanda di risarcimento del danno e ciò sia sul piano sostanziale, sia sul piano formale. La domanda risarcitoria, infatti, “denuncia inequivocabilmente un illecito di cui la parte richiede la riparazione; ma a fronte della pluralità di strumenti offerti dall’ordinamento nonché in presenza di una disciplina legale del procedimento espropriativo, la domanda risarcitoria non può costituire univoca volontà espressa di rinuncia al bene”; inoltre, la domanda risarcitoria è effettuata dal procuratore e non dalla parte proprietaria del bene e giammai sarebbe rinvenibile una “procura a rinunciare” nel mandato difensivo della parte al difensore.

  1. Assenza di fondamento legale in un ambito (quello dell’espropriazione) in cui è centrale il principio di legalità.

A questa ultima obiezione i giudici dell’Adunanza Plenaria hanno espressamente affidato carattere assorbente rispetto agli altri rilievi critici.

Si fa leva, in primo luogo, sull’art. 42 Cost., commi 2 e 3, secondo cui la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge e può essere, “nei casi preveduti dalla legge”, espropriata per motivi di interesse generale.

È escluso categoricamente che la rinuncia abdicativa costituisca uno dei casi previsti dalla legge. Al contrario, tale fenomeno sembrerebbe richiamare – come si legge – l’istituto di origine pretoria della occupazione acquisitiva “che determinava l’acquisizione della proprietà del fondo a favore della pubblica amministrazione per “accessione invertita”, allorché si fosse verificata l’irreversibile trasformazione dell’area”, poi ritenuto illegittimo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ammetterlo, quindi, farebbe sorgere inevitabilmente una tensione con i principi delineati dalla giurisprudenza europea, da un lato, e con le tutele apprestate al diritto di proprietà della Costituzione, dall’altro.

Sul punto è altresì intervenuto lo stesso legislatore introducendo l’art. 42-bis TUEs, il quale nella specie:

“- prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato, con un procedimento d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), gli interessi in conflitto, adotti un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto;

– in altri termini, vincola l’Amministrazione occupante all’esercizio del potere ed attribuisce alla stessa un potere discrezionale in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione degli interessi;

– comporta che, nel caso di occupazione sine titulo, l’Autorità commette un illecito di carattere permanente;

– esclude che il giudice decida la ‘sorte’ del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal proprietario;

– a maggior ragione, non può che escludere che la ‘sorte’ del bene sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene, sol perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene. Come se il proprietario del bene fosse titolare di una sorta di diritto potestativo a imporre il trasferimento della proprietà, mediante rinuncia al bene (implicita o esplicita che sia), previa corresponsione del suo controvalore (non rileva, sotto questo profilo, se a titolo risarcitorio o indennitario).”

In definitiva, l’applicazione del principio di legalità, a fronte della disciplina così espressa dal legislatore, impone di escludere la configurabilità della rinuncia abdicativa con conseguente effetto indiretto di acquisizione in capo all’autorità espropriante. “La scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’autorità individuata dall’art. 42-bis”. 

Da ultimo, l’Adunanza Plenaria si preoccupa anche di definire le condotte che il g.a. è chiamato ad osservare in caso di inerzia dell’Amministrazione, sia quando sia proposto ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., sia quando si agisca per le tutele apprestate dal codice civile, restitutoria e risarcitoria.

Nel primo caso, il giudice amministrativo può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che eserciterà i poteri ex art. 42-bis d.P.R. 327/2001 (acquisizione o restituzione del bene illegittimamente espropriato).

Nel secondo caso, invece il giudice amministrativo deve pronunciarsi tenendo conto della disciplina dettata dall’art. 42-bis cit. anche se non richiamata. È interessante notare che sul punto, seppur in maniera sibillina, l’Adunanza Plenaria afferma l’inammissibilità di una richiesta solo risarcitoria, “in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in contrasto con lo stesso”.