Diritto Penale. Paga al pubblico ufficiale per il timore di un pericolo “immaginario”: è truffa, non induzione indebita.
Perchè si configuri il reato di induzione indebita è necessaria la sussistenza <<dell’abuso di qualità o di poteri, il cui esercizio non corretto la parte lesa possa temere perché ne deriverebbe un danno ingiusto che intende evitare con la promessa di compenso>>.
Sulla base delle esposte linee guida, la Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha ritenuto insussistente la fattispecie criminosa ex art. 319-quater c.p. e configurato il reato di truffa, nel caso in cui la vittima abbia provato <<il timore di un pericolo immaginario>> e manchi << quello stato di soggezione al pubblico potere che induca la parte lesa ad accedere alle richieste di pagamento>>. Nel caso in esame, infatti, la vittima vi avrebbe assentito <<esclusivamente in virtù del rapporto instauratosi, per effetto dell’interessamento mostrato dai pubblici ufficiali ad una situazione di pericolo per la sua personale incolumità, prospettata con l’inganno, non risultando esserle stato indicato in alternativa, né un indebito vantaggio, né un danno in correlazione all’esercizio della funzione pubblica, ma prospettato un beneficio insussistente, il cui bisogno era stato indotto da artifici realizzati>>.
Le modalità della condotta induttiva, infatti, si concretizzano in forme di condizionamento psichico, id est nella persuasione, nella suggestione, nell’allusione, nel silenzio e, perfino, nell’inganno, purché quest’ultimo non verta sulla doverosità della dazione o della promessa, del cui carattere indebito il privato resta perfettamente conscio; diversamente si configura il reato di truffa.
Quelle condotte nel contesto della figura delittuosa di cui all’art. 319-quater c.p., sono funzionali a carpire una complicità prospettando un vantaggio indebito, che assurge al rango di ‘criterio di essenza’ della fattispecie induttiva; diversamente, la creazione di un pericolo immaginario, quale modalità dell’azione ingannatoria è espressamente prevista ex art. 640, comma 2, n.2 c.p., come circostanza aggravante dell’artificio o raggiro volto ad ottenere una prestazione economica.
Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 09-04-2015) 27-04-2015, n. 17655
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AGRO’ Antonio S. – Presidente –
Dott. ROTUNDO Vincenzo – Consigliere –
Dott. PETRUZZELLIS Anna – rel. Consigliere –
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –
Dott. VILLONI Orlando – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sui ricorsi proposti da:
M.G., nato a (OMISSIS);
S.G. F. nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 06/03/2014 della Corte d’appello di Cagliari ù sezione distaccata di Sassari;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal componente Anna Petruzzellis;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CEDRANGOLO Oscar, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Svolgimento del processo
- La Corte d’appello di Cagliari -sezione distaccata di Sassari ù con sentenza del 06/03/2014, in parziale riforma della sentenza del Gip del Tribunale di Nuoro del 28/09/2011, riqualificate le imputazioni di cui ai capi A) e B) ai sensi dell’art. 319 quater c.p., ha rideterminato la pena inflitta a M.G. per i reati richiamati, oltre che quelli previsti dagli artt. 326, 346 e 494 c.p., ascrittigli in autonomi capi di accusa, in anni due e mesi quattro di reclusione, e la sanzione inflitta a S.G. F., riconosciuto colpevole, oltre che dei reati sub A) e B), anche del reato di rivelazione di segreto d’ufficio, in anni due e mesi due di reclusione; il provvedimento ha inoltre revocato le interdizioni disposte, e confermato le statuizioni civili.
2.1. La difesa di M. ha impugnato il provvedimento denunciando violazione di legge con riferimento all’applicazione della disciplina incriminatrice di cui all’art. 319 quater c.p..
Richiamata la circostanza di fatto che tra l’odierno ricorrente ed il concusso intercorreva un rapporto di lavoro privato che consentiva a quest’ultimo di essere ben conscio dell’insussistenza della sua qualità di pubblico ufficiale alla formulazione dell’istanza con la quale gli aveva rivolto le richieste di prestito di denaro, deve escludersi la configurabilità della fattispecie ritenuta, mancando il metus che caratterizza il reato, nè potendo essere lo stesso essere ravvisato nella determinazione dell’agente di seguire il consiglio formulatogli dai CC del luogo di assecondare le richieste che gli venivano da questi avanzate.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), con riferimento alla mancata argomentazione sugli elementi costitutivi della responsabilità dell’interessato in ordine al delitto di rivelazione del segreto d’ufficio, su cui la Corte ha fatto riferimento ad una mera presunzione, omettendo di individuare il necessario elemento partecipativo dell’extraneus, costituito dall’istigazione o dalla determinazione del pubblico ufficiale.
2.3. Si rileva inoltre violazione di legge, con riferimento alla mancata individuazione degli elementi costitutivi del reato di millantato credito, che non può ravvisarsi, secondo il ricorrente, nel mero richiamo a conoscenze o parentele a cui rivolgersi per il disbrigo di pratiche amministrative, senza riferire ciò alla propria possibilità di condizionamento favorevole.
2.4. Da ultimo si lamenta violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento dell’attenuante speciale di cui all’art. 323 bis c.p., e delle attenuanti generiche, decisione che ha misconosciuto, oltre che l’oggettiva tenuità dei fatti e la minima partecipazione dell’interessato all’illecito, anche il ridimensionamento della gravità delle imputazioni, intervenuto a seguito della riqualificazione del reato nel giudizio d’appello.
3.1. La difesa di S. con un primo motivo deduce violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e). A seguito dell’emissione del provvedimento di cui all’art. 415 bis c.p.p., l’interessato aveva richiesto di essere sentito, istanza a cui non era stato dato seguito, poichè il P.m. ha richiesto l’emissione del decreto a giudizio immediato.
Si assume quindi che si sia verificata una nullità in quanto l’interessato è stato privato dell’udienza preliminare, senza essere posto in grado di esporre le proprie difese, circostanza che non ha permesso al P.m. di svolgere indagini anche a suo favore, contrariamente a quanto prescritto dalla legge.
Si ritiene inoltre il Gip di Nuoro incompetente a decidere sull’ammissione del giudizio abbreviato, per essersi già incardinato il procedimento dinanzi al Tribunale, a seguito della proposizione della richiesta di giudizio immediato, per effetto del più contenuto termine concesso all’interessato per formulare la richiesta di rito alternativo.
3.2. Si deduce violazione dell’art. 327 c.p.p., per non essere stato il P.m. tempestivamente informato della qualità di confidente o agente provocatore attribuita all’accusatore dai Carabinieri che procedevano, circostanza che non ha consentito al titolare delle indagini di attivarle con tempestività.
3.3. Con ulteriore motivo si lamenta violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), per avere il giudicante respinto la richiesta di abbreviato condizionato, nel presupposto della sovrabbondanza degli elementi di prova, secondo una valutazione in termini quantitativi non prevista dalla legge.
3.4. Si rileva violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), con riguardo all’argomentazione di contrasto su quanto rilevato dalla difesa in merito alla natura di confidente o agente provocatore rivestita dalla pretesa parte offesa, e sulle modalità con le quali sono state predisposte le registrazioni delle conversazioni che poi hanno costituito la base probatoria del processo, svolte su sollecitazione dei CC e seguite dagli stessi nel suo integrale svolgimento, elementi che, oltre ad attestare l’irritualità ed inutilizzabilità delle prove assunte, evidenziano la mancanza di metus nella pretesa parte offesa, e conseguentemente l’insussistenza dell’ipotesi di reato contestata.
Tali argomenti, espressi nell’atto di appello, non avevano ottenuto alcuna confutazione nella pronuncia impugnata.
3.5. Il medesimo vizio di omessa motivazione viene denunciato quanto alla qualificazione della condotta di cui al capo B) quale reato impossibile, per essersi consumato a seguito della determinazione di Coppello di versare una somma da lui stesso quantificata, previa formazione di copia delle banconote da consegnare e predisposizione del servizio di controllo, che aveva impedito l’effettiva consumazione del reato.
3.6. Si deduce da ultimo non adeguata valutazione quanto al mancato contenimento del trattamento sanzionatorio, anche per effetto della concessione delle attenuanti generiche, il cui riconoscimento si fondava sulla mancanza di precedenti a carico dell’interessato.
Motivi della decisione
- I ricorsi sono infondati e tuttavia questa Corte deve esercitare il potere d’ufficio sul corretto inquadramento giuridico dei fatti, il cui materiale svolgimento risulta pienamente accertato all’esito dei due giudizio di merito.
Deve a questo proposito preliminarmente ricordarsi che dall’istruttoria svolta è emersa, in maniera univoca la ricostruzione della condotta realizzata, costituita da un accordo intercorso tra M. e S., quest’ultimo nella sua qualità di carabiniere, volto ad ingenerare un timore nella parte offesa per l’incolumità propria e delle propria famiglia, e funzionale a simulare un intervento diretto ed efficiente a tutela della sua incolumità, per ottenere quale corrispettivo un sostegno economico.
2.1. Passando all’analisi dei motivi di ricorso si segnala che la violazione di legge contestata dal M. con riferimento alla ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 319 quater c.p., riconosciuta dal Tribunale, è eccepita con riguardo all’impossibilità di attribuirgli un ruolo in tale condotta, in cui il soggetto attivo deve possedere la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, che non compete all’esponente.
Si tratta di una eccezione di fatto, che volutamente ignora egli accertamenti svolti nel corso dei giudizi di merito, ove si è chiarita la piena sinergia con la quale hanno svolto la loro attività i due imputati. In particolare risulta accertato che il rapporto di lavoro che ha formalmente sorretto la presenza di M. sul cantiere della parte lesa costituiva solo uno schermo formale, posto che nessuno dei dipendenti è stato in grado di chiarire quale materiale attività fosse stata allo stesso demandato, limitandosi questi ad affiancare il C.. Come è stato ampiamente illustrato nella pronuncia impugnata, tale elemento ha consentito di concludere che la presenza di un rapporto di lavoro costituiva una giustificazione per i terzi della presenza di M. sul posto di lavoro, che non poteva scalfire quindi la consapevolezza indotta nella parte lesa sulla sua appartenenza all’arma dei Carabinieri, peraltro avvalorata dalle ulteriori attività da questi svolti e dal suo pieno coordinamento di azione con il S., che tale qualifica rivestiva effettivamente.
Ciò impone di ritenere giuridicamente concorrente il M. nella condotta dell’intraneus in applicazione dell’art. 117 c.p..
2.2. Tale sinergia si è sviluppata anche con riferimento al reato di cui all’art. 326 c.p., atteso che la ricostruzione dei fatti ha consentito di accertare che nell’occasione i coimputati si recarono entrambi nell’abitazione di C., ancorchè poi materialmente solo il S. risulta aver provveduto alla visione del filmato unitamente alla parte lesa. La presenza di M. nell’occasione, emergente con chiarezza dalla pronuncia di primo grado, unitamente alla connessione tra tale attività illecita e quella di costante intimidazione svolta nei confronti di C., con la creazione di falsi pericoli, nella quale pienamente si iscriveva l’esibizione di filmati su attività illecite perpetrate in danno di altri, ma esibiti come rivolte alla parte lesa, danno conto della partecipazione del ricorrente all’illecito, contestata con riferimento generico alla mancanza di un’azione diretta, senza alcuna deduzione di contrasto rispetto alle condizioni di fatto richiamate, come puntualmente ricostruite nella prima pronuncia, al cui accertamento si salda la pronuncia di appello, conforme sul punto.
2.3. Generiche, e quindi inammissibili risultano le contestazioni formulate con riferimento al millantato credito attribuito all’interessato, con la richiesta di pagamento di Euro 1.400 per il rilascio del porto d’armi in favore del C., da ottenere tramite le proprie conoscenze. Come è stato chiarito nella pronuncia impugnata l’elevata entità della somma richiesta, unitamente al richiamo alle proprie conoscenze rende ragione della sussistenza degli elementi costitutivi del reato ritenuto, nella forma di cui all’art. 346 c.p., comma 1, in relazione al quale non si contesta la configurabilità della fattispecie, ma si ripropongono rilievi di merito, senza confrontarsi con le prove assunte sul punto.
2.4. L’applicabilità della diminuente di cui all’art. 323 bis c.p., oltre ad essere rivendicata sulla base di difformi valutazioni di merito, adeguatamente contrastate nella pronuncia impugnata, è superata in fatto dalla necessità di riqualificare il reato contestato ai capi A) e B), secondo quanto successivamente illustrato.
3.1 L’eccezione procedurale proposta nel’interesse di S. risulta formulata negli stessi termini già esposti nei gradi di merito, in assenza di confronto con quanto emerge dai provvedimenti pronunciati sul punto dal Gip e dalla Corte d’appello.
Sotto un primo profilo di fatto si deve osservare che S., sottoposto a misura cautelare, era già stato udito nel corso dell’interrogatorio di garanzia; pur dovendosi ammettere la diversa natura di tale acquisizione rispetto a quella prevista dall’art. 415 bis c.p.p., deve però rilevarsi che nel concreto, preliminarmente, manca l’individuazione di qualsivoglia acquisizione sopravvenuta alle indagini del P.m. che imponesse la sottoposizione di queste all’interessato, non essendoci alcuna specificazione al riguardo da parte della difesa (sul punto Sez. 4, n. 18660 del 19/02/2004, Montanari ed altro, Rv. 228352), che in proposito ha formulato un’eccezione priva di concreti riferimenti di fatto, e pertanto generica.
Si deve in ogni caso rilevare che tale causa di nullità anche ove verificatasi, risulta pacificamente superata dalla richiesta dell’interessato di essere giudicato con il rito abbreviato, scelta che assorbe eventuali motivi di nullità di ordine generale a regime intermedio, tra i quali deve ascriversi quello eccepito (nello stesso senso Sez. 2, n. 39474 del 03/07/2014, Acquavite e altri, Rv. 260786 in linea con quanto stabilito da Sez. U, n. 39298 del 26/09/2006, Cieslinsky e altri, Rv. 234835) in quanto con essa non si mira ad evitare il giudizio dibattimentale, ma si richiede di essere giudicati nel merito, richiesta che supera le eccezioni di nullità non assolute verificatesi nella fase precedente.
Manifestamente infondata è l’eccezione di incompetenza funzionale del Gip di Nuoro a deliberare nel merito, per effetto della già intervenuta emissione del decreto di giudizio immediato in quanto tale condizione è del tutto fisiologica, all’atto in cui è consentito all’interessato di richiedere, dopo tale emissione, di essere giudicato con rito abbreviato, come pacificamente risulta essere avvenuto nella specie; del resto, l’ammissione del rito esclude la rilevanza della corretta indicazione del termine per proporre l’istanza (di sette in luogo che di quindici giorni) contenuto nel decreto inviato all’interessato, posto che la relativa eccezione risulta formulata senza specifica individuazione dell’interesse leso nella situazione di fatto, ove alla richiesta dell’interessato risulta essersi acceduto, con deduzione che risulta conseguentemente generica, mentre è del tutto pacifico che eventuali irregolarità verificatesi nella fase antecedente l’ammissione del rito non ne inficiano la validità stante l’autonomia dei presupposti (Sez. 1, n. 15157 del 03/04/2012, Hewa Walimunige e altro, Rv 252234).
Da ultimo inammissibile è la contestazione riguardante l’esclusione dell’integrazione probatoria sollecitata con la richiesta di abbreviato condizionato, del tutto pacifico essendo che l’istanza di ammissione al rito contratto, formulata successivamente, in assenza di condizioni, renda non più discutibile la validità della decisione giudiziale sul punto, in quanto la sua opzione per il procedimento senza integrazione probatoria è equiparata al mancato rinnovo, nel termine previsto dall’art. 438 c.p.p., comma 6, della richiesta di accesso al rito subordinata all’assunzione di prove integrative. (Sez. 1, n. 37244 del 13/11/2013 – dep. 08/09/2014, Altamura, Rv. 260532).
3.2. Manifestamente infondati risultano altresì i rilievi riguardanti la motivazione della pronuncia sulla qualificazione della parte lesa quale collaboratore delle forze dell’ordine, in quanto specificamente nella sentenza si esclude che tale condizione di fatto sia stata dimostrata. Peraltro sul punto i motivi di appello risultavano a loro volta generici, in quanto la stessa qualificazione del C. come confidente è espressa in forma ipotetica, in assenza di qualsivoglia indicazione, desumibile dalle indagini svolte, che consentisse di fornire un sostegno a tale inquadramento.
In conseguenza di tale indimostrato presupposto nel ricorso si denuncia la violazione dell’art. 327 c.p.p., la cui inosservanza, oltre che insussistente, risulta priva di conseguenze processuali sulla validità degli atti di indagine, trattandosi previsione di natura ordinamentale ed organizzativa dell’attività.
3.3. Nello stesso senso deve concludersi con riguardo alla contestazione di merito attinente alla mancata integrazione probatoria decisa dalla Corte d’appello, poichè nell’ambito del giudizio abbreviato l’unica possibilità di ampliamento del tema di indagine è rimessa alla Corte territoriale per la sua funzionalità rispetto alla necessità della decisione, che non risulta mai prospettata, nè appare posta in discussione nel ricorso.
3.4. Ulteriormente generiche risultano le contestazioni svolte con riferimento al difetto di motivazione sulla natura di collaboratore delle forze dell’ordine attribuibile all’interessato, per quanto si è già esposto in argomento, oltre che sulla mancanza di metus nella parte offesa, che viene adombrata per effetto della sua reazione, successiva al primo episodio, al più rilevante riguardo all’ipotesi di cui al capo B) della rubrica, e non attinente al primo episodio.
3.5. Su tale ultimo aspetto giova evidenziare l’insussistenza del dedotto vizio di motivazione sulla qualificabilità quale reato impossibile dell’ultima imputazione, in quanto nessuna eccezione al riguardo risulta svolta nell’atto di appello, condizione di fatto che esclude la rilevabilità del difetto argomentativo, poichè l’onere di motivazione è necessariamente circoscritto a quanto eccepito, per effetto della natura devolutiva del gravame di merito.
3.6. Inammissibile, anche solo per le modalità di espressione del vizio che non si confrontano con quanto analizzato in proposito nella sentenza impugnata, risultano i rilievi formulati quanto alla determinazione della pena ed all’applicabilità delle attenuanti generiche, posto che la richiesta è fondata sull’allegazione di elementi di fatto di cui si chiede la valutazione in questa sede, sollecitando una determinazione di merito estranea al giudizio di legittimità.
- Come si accennava in premessa, pur a fronte dell’infondatezza dei ricorsi, in conseguenza della sua funzione nomofilattica, questa Corte deve porsi ex officio un problema di corretta qualificazione giuridica dei fatti contestati sub A) e B), che, originariamente inquadrati nella fattispecie di cui all’art. 317 c.p., sono stati definiti nella pronuncia impugnata quali induzione indebita ai sensi dell’art. 319 quater c.p.. Come in precedenza riassunto gli odierni ricorrenti, sulla base degli accertamenti di merito, risultano aver creato un pericolo immaginario, inducendo conseguentemente la parte lesa a riconoscere loro un profitto, e ciò hanno fatto utilizzando la qualità di pubblico ufficiale che M. ha falsamente vantato, e che caratterizzava il solo S., della quale la parte lesa, oltre che il coimputato, erano pienamente consapevoli.
Così schematizzati gli elementi di fatto accertati ed oggetto delle contestazioni richiamate, deve escludersi la loro riconducibilità nello schema tipico del reato ritenuto, che impone per la sua verificazione l’abuso di qualità o di poteri, il cui esercizio non corretto la parte lesa possa temere perchè ne deriverebbe un danno ingiusto che intende evitare con la promessa di compenso, o auspicare, in quanto foriero di un indebito vantaggio ottenuto grazie alla disponibilità dimostrata, elementi di fatto nella specie non identificabili. Quel che risulta assente nella specie è lo stato di soggezione al pubblico potere, poichè non è stata tale condizione delle controparti che ha indotto la parte lesa ad accedere alle richieste di pagamento, a cui questi risulta aver assentito esclusivamente in virtù del rapporto instauratosi, per effetto dell’interessamento mostrato dagli odierni ricorrenti alla situazione di pericolo per la sua personale incolumità prospettata con l’inganno, non risultando esserle stato indicato in alternativa alla parte lesa, nè un indebito vantaggio, nè un danno in correlazione all’esercizio della funzione pubblica, ma prospettato un beneficio insussistente, il cui bisogno era stato indotto da artifici realizzati.
In tale contesto proprio la creazione di tale situazione di pericolo fittizio, sulla cui suggestiva formazione, pur espressamente contenuta nel capo di imputazione, non è stata svolta alcuna contestazione dalle parti, diviene preminente per la realizzazione della condotta tipica dell’illecito e rispetto ad essa non è dato ravvisare quella condizione di assoggettamento alla potestà altrui che è tipica anche della diversa, più attenuata fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., ritenuta in grado d’appello e che costituisce l’elemento differenziale di tale figura di reato.
La condotta realizzata risulta invece possedere il contenuto caratterizzante del delitto di truffa, in quanto l’azione congiunta dei due autori ha indotto la parte lesa, con l’inganno e la specifica simulazione di situazioni per lei pericolose, a fidarsi di loro per una più pregante azione di controllo, così ottenendo l’ingiusto profitto della riscossione delle somme richieste, in virtù di tale rapporto di fiducia, a compenso delle attenzioni simulate, modalità di condotta che non risulta contestata dalle parti se non con un riferimento alla inutilizzabilità in rito delle affermazioni della parte lesa, per quanto detto insussistenti.
La creazione di un pericolo immaginario, quale modalità dell’azione ingannatoria è specificamente prevista dall’art. 640 c.p., comma 2, n. 2, come circostanza aggravante dell’artificio o raggiro volto ad ottenere una prestazione economica, e rispetto a tale condotta deve ravvisarsi nel caso concreto l’ulteriore aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9, risultando il reato commesso da un pubblico ufficiale, che ha abusato della sua funzione e dei doveri inerenti alla carica, qualità di cui era consapevole anche il concorrente extraneus.
Tale diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati, proprio in quanto del tutto aderente agli elementi di fatto illustrati per caratterizzare l’ipotesi di reato individuata nell’imputazione, costituiva un prevedibile sviluppo dell’accertamento giudiziale rispetto al quale deve ritenersi pienamente dispiegato il diritto di difesa, secondo l’ampia formulazione di cui all’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte Edu.
La fattispecie ritenuta, pur nella forma aggravata, costituisce norma più favorevole, in quanto prevede limiti edittali inferiori a quelli considerati per la fattispecie criminosa applicata, che ha costituito oggetto di determinazione della pena base quale reato più grave, circostanza che impone l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alla misura della pena che deve individuare la sanzione base del reato continuato ascritto, ed il conseguente rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Cagliari, per nuova determinazione sul punto.
P.Q.M.
Qualificata l’imputazione di cui ai capi A) e B) ai sensi dell’art. 640 c.p., comma 2, n. 2, e art. 61 c.p., n. 9, annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena, e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Cagliari.
Così deciso in Roma, il 9 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2015