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Diritto Penale. Integra il delitto di apologia dello Stato Islamico la diffusione di un documento mediante rete internet.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. Integra il delitto di apologia dello Stato Islamico la diffusione di un documento mediante rete internet.

L’interessante questione su cui si è espressa ultimamente la Cassazione, con la sentenza n. 47489/2015, prende le mosse dall’incriminazione di un soggetto per aver fatto apologia dello Stato Islamico, associazione con finalità di terrorismo internazionale, pubblicamente, ed in particolare mediante la diffusione sulla rete internet. La difesa ricorre in Cassazione adducendo la violazione dell’art. 414 c.p..

La Cassazione dichiara il ricorso infondato.

In primo luogo, nonostante il ricorrente riproponga la tesi secondo cui il documento diffuso su internet sollecitava solo un’adesione ideologica dei lettori allo “Stato Islamico” e, alle sue caratteristiche di “stato sociale”; la Suprema Corte delinea una visione del tutto opposta. Invero lo scritto presupponeva e accettava la natura combattente e di conquista violenta da parte dell’organizzazione(cioè l’esecuzione di atti di terrorismo).

D’altro canto il ricorrente fondava la tesi dell’insussistenza dell’interesse giuridico tutelato dalla norma(art. 414 c.p.), su un concetto di “Stato Islamico” diverso da quello recepito dal nostro ordinamento e, da quello internazionale; vale a dire quello di un’organizzazione terroristica operante esclusivamente all’estero. La Corte rigetta tale assunto sulla base di due considerazioni.

In primo luogo si rileva che l’apologia di reato è stata posta in essere senza alcun dubbio in Italia ed era diretta a soggetti residenti nel nostro paese(non a caso il documento era scritto in italiano). In secondo luogo si nega che l’associazione denominata ISIS sia operante esclusivamente all’estero, in quanto è connotata da strutture organizzative “cellulari” o a “rete” in grado di operare contemporaneamente in più paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici o informatici, discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete.

 

 

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-10-2015) 01-12-2015, n. 47489

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIEFFI Severo – Presidente –

Dott. CASSANO Margherita – Consigliere –

Dott. CASA Filippo – Consigliere –

Dott. ROCCHI Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. MAGI Raffaello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

H.E.M. N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 760/2015 TRIB. LIBERTA’ di TORINO, del 03/06/2015;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;

sentite le conclusioni del PG Dott. Ciro Angelillis, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

  1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Torino, provvedendo sulla richiesta di riesame proposta da H.E.M. avverso quella del G.I.P. dello stesso Tribunale applicativa della misura degli arresti domiciliari per il delitto di cui all’art. 414 c.p., comma 4, e D.L. n. 625 del 1979, art. 1, conv. in L. 15 del 1980, confermava l’ordinanza impugnata.

H.E.M. è indagato per avere fatto apologià dello Stato Islamico, associazione con finalità di terrorismo internazionale, pubblicamente, ed in particolare mediante la diffusione sulla rete internet. Su due siti internet era stato pubblicato un documento, denominato: “Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare” di propaganda di questa organizzazione.

Il G.I.P. presso il Tribunale di Brescia aveva emesso ordinanza di applicazione di misura cautelare nei confronti dell’odierno ricorrente per il reato contestato, oltre che nei confronti di tale E.E. per il reato di arruolamento con finalità di terrorismo internazionale, di cui H. era amico presso la cui abitazione in (OMISSIS) aveva trascorso un periodo nel 2013.

A seguito della declaratoria di incompetenza per territorio pronunciata dal Tribunale del riesame di Brescia ed avendo il P.M. di Ivrea trasmesso gli atti a quella di Torino, sussistendo l’aggravante di cui al D.L. n. 625 del 1979, art. 1, il G.I.P. del Tribunale di Torino emetteva nuova ordinanza.

Dalle indagini era emerso che H. era in contatto con personaggi recatisi in (OMISSIS) o espulsi dal territorio dello Stato, nonchè con cittadini italiani convertitisi all’islam radicale. La perquisizione eseguita nei suoi confronti aveva permesso il rinvenimento di attrezzatura informatica contenente materiale rilevante dello stesso tipo.

Nell’interrogatorio davanti al P.M., l’indagato, ammettendo di essere autore del documento, aveva sostenuto di aver voluto soltanto riportare ciò che il c.d. Stato islamico diceva di sè e aveva negato di avere aderito al contenuto del messaggio finale del testo, che invitava i Musulmani a supportare il “Califfato Islamico” e ad accorrere in suo aiuto; aveva negato di essersi interessato alla costruzione di esplosivi (benchè risultasse avere scaricato sul proprio computer un documento che ne trattava) nonchè di avere avuto l’intenzione di recarsi in (OMISSIS) a combattere.

Davanti al G.I.P., H. aveva ammesso di essere consapevole che in Occidente l’IS non è riconosciuto come Stato ed è considerato organizzazione terroristica e aveva sostenuto di dissentire su alcune azioni poste in essere dalla stessa organizzazione.

La difesa aveva contestato che la condotta posta in essere dall’indagato potesse essere qualificata ai sensi dell’art. 414 c.p., che richiede l’apologià di uno o più delitti; si osservava che, anche volendosi intendere la contestazione riferita all’apologià del delitto di cui all’art. 270 bis c.p., l’associazione non era operante in Italia e quindi la condotta non era punibile.

Il difensore aveva negato il carattere apologetico del documento nonchè il carattere pubblico della condotta, in mancanza della volontà dell’autore di raggiungere un numero elevato e indiscriminato di soggetti; aveva infine contestato la sussistenza delle esigenze cautelari.

Il Tribunale riteneva il documento apologetico del reato di cui all’art. 270 bis c.p., con particolare riferimento all’associazione terroristica denominata Stato Islamico, così definita da numerose risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e avente tra i suoi obiettivi quelli di cui all’art. 270 sexies c.p.; riteneva irrilevante la prospettiva territoriale alla luce di quest’ultimo articolo.

Il fatto che il c.d. Stato Islamico sia radicato territorialmente fuori dal territorio italiano, da una parte non incide sull’apologià che ne viene fatta, che è punibile ai sensi dell’art. 414 c.p., dall’altra non è affatto un dato acquisito, attesa l’operatività internazionale dell’associazione, la diffusione di suoi aderenti nei Paesi Europei e la realizzazione di condotte significative in Europa.

Secondo il Tribunale, la natura apologetica del documento era evidente: non si trattava affatto di documento informativo o giornalistico; piuttosto, l’utilizzo di testi provenienti direttamente dall’organizzazione terroristica e le parti redatte dall’imputato avevano il fine manifesto di convincere il lettore che l’adesione allo Stato Islamico è la sola scelta corretta, anche sotto il profilo strettamente religioso.

Il documento, per il suo contenuto, possedeva una intrinseca capacità di indurre nei lettori l’interesse e l’adesione all’IS e, pertanto, a favorire nuove adesioni all’organizzazione terroristica.

A questo scopo era stato scritto in italiano – circostanza mai accaduta in precedenza – ed esaltava non singoli atti, ma l’intera organizzazione, sostenendone la positività e la piena legittimazione sul piano religioso: in definitiva, la sua diffusione aveva come destinatari soggetti radicati sul territorio nazionale e risultava particolarmente incisiva.

L’ordinanza riteneva sussistenti l’elemento soggettivo del reato contestato nonchè l’aggravante della finalità di terrorismo, compatibile con l’art. 414 c.p., comma 4; esistenti le esigenze cautelari ed adeguata la misura adottata.

  1. Ricorre per cassazione il difensore di H.E.M., deducendo distinti motivi.

In un primo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 414 c.p., comma 3, e vizio di motivazione con riferimento all’affermata sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato e della situazione di concreto pericolo richiesto dalla norma.

Il ricorrente ripropone la questione della tipicità della fattispecie: sia il capo di imputazione che la motivazione dell’ordinanza impugnata non indicano come oggetto di apologià comportamenti o atti criminosi specifici, ma alcuni profili ideologici, in particolare esaltando lo Stato Islamico e non le modalità terroristiche attraverso le quali i profili ideologici sono storicamente perseguiti; quindi si sollecita un’adesione ideologica all’IS, ma non ai suoi metodi terroristici.

Di conseguenza, manca il pericolo concreto richiesto nella norma.

In un secondo motivo si deducono analoghi motivi con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’interesse giuridico tutelato dalla norma.

Poichè il delitto di cui all’art. 414 c.p.p., comma 3, è reato contro l’ordine pubblico, esso è riferibile esclusivamente allo Stato e al suo territorio; l’adesione allo Stato Islamico è, invece, finalizzata ad esplicare i propri effetti turbativi all’estero. Si tratta di associazione costituita ed operante all’estero e non punibile in Italia ai sensi degli artt. 7, 8 e 10 c.p..

L’interpretazione proposta dal Tribunale imporrebbe allo Stato italiano una attivazione ed una potestà di repressione del fenomeno terroristico – eversivo ovunque si manifesti, facendolo ergere a difensore di qualsiasi stato estero.

In un terzo motivo il ricorrente deduce analoghi vizi con riferimento alla sussistenza dell’elemento materiale della pubblicità della condotta.

In effetti, la messa a disposizione del testo su un sito internet non integra la condotta descritta dall’art. 414 c.p., che richiede una volontà di comunicare che si esplichi oggettivamente cercando di raggiungere attivamente il maggior numero di soggetti.

Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

 

Motivi della decisione

 

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

  1. Il primo motivo di ricorso fa leva sulla necessità, affermata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 65 del 1970, che l’apologià, per le modalità in cui viene realizzata, integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti, trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero.

In forza di tale insegnamento, questa Corte ha ripetutamente affermato che, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 414 c.p., comma 3, non basta l’esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa apparire alla generalità delle persone dotate di sensibilità umana, ma occorre che il comportamento dell’agente sia tale per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell’autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della consumazione di altri reati e, specificamente, di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato; (Sez. 1, n. 8779 del 05/05/1999 – dep. 08/07/1999, Oste, Rv. 214645); il medesimo principio è stato affermato per il delitto di istigazione per delinquere.

Si è, peraltro, ripetutamente ricordato che l’accertamento del pericolo concreto di commissione di delitti in conseguenza dell’istigazione o dell’apologià è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato (Sez. 1, n. 25833 del 23/04/2012 – dep. 04/07/2012, Testi, Rv.

253101; Sez. 1, n. 26907 del 05/06/2001 – dep. 03/07/2001, Vencato, Rv. 219888).

Premesso che – come è incontestato – l’apologià può avere ad oggetto anche un reato associativo e, quindi, anche il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale di cui all’art. 270 bis c.p., cosicchè il pericolo concreto può concernere non solo la commissione di atti di terrorismo, ma anche la partecipazione di taluno ad un’associazione di questo tipo (art. 270 bis c.p., comma 2), occorre avere riguardo alla motivazione adottata dal giudice di merito. Ebbene, nonostante il ricorrente riproponga la tesi secondo cui il documento diffuso su internet sollecitava solo un’adesione “ideologica” dei potenziali lettori allo “Stato islamico” e alle sue caratteristiche di “stato sociale”, attento al benessere dei suoi “cittadini” (che tali non sono: si tratta delle persone che vivono sul territorio occupato dall’organizzazione terroristica), l’ordinanza – dopo aver ricordato la natura terroristica dell’IS consacrata dai provvedimenti internazionali – motiva ampiamente (pagg. 10 e ss., ma anche analisi del documento a pagg. 2 e ss.) in senso opposto: lo scritto presupponeva e accettava la natura combattente e di conquista violenta da parte dell’organizzazione (cioè l’esecuzione di atti di terrorismo), esaltava la sua diffusione ed espansione, anche con l’uso delle armi, distingueva l’umanità tra “un campo di Iman esente da ipocrisia e un campo di miscredenza esente da Iman” e valorizzava “la mappa della futura espansione del Califfato, che in poche parole è l’intero pianeta Terra”; faceva esplicito riferimento alle “molteplici fazioni militari Islamiche” alleate con il Califfo e riportava una frase del Portavoce ufficiale evocativa della conquista (“Vi promettiamo che, con il permesso di Allah, questa sarà la ultima vostra campagna.

Verrà annientata e sconfitta come successe con tutte le vostre ultime campagne. Eccetto per cui questa volta saremo noi ad assaltarvi e non ci assalterete mai più. Se non saremo noi a raggiungervi saranno i nostri figli o i nostri nipoti”); ancora, il documento presentava personaggi ufficialmente classificati come terroristi nei documenti internazionali e conteneva diversi link a siti internet facenti capo all’organizzazione terroristica.

L’ordinanza ha cura di dimostrare che l’adesione che veniva sollecitata nei destinatari non era affatto soltanto “ideologica”, per usare l’espressione del ricorrente, evidenziandone la caratteristica di documento scritto in italiano e rivolto ad un pubblico di soggetti radicati sul territorio nazionale, realizzato con stile incisivo e capace di suscitare interesse e condivisione:

documento che indicava l’adesione al “Califfato” come obbligatoria sulla base di un’interpretazione corretta di tipo religioso (“Sappi che non hai diritto di opporre l’autorità di un Califfo scelto su una metodologia corretta, scelto dai Musulmani, dagli Ahlul-Halli wal- Aqd che gli hanno dichiarato la Bay’a”) e che esplicitamente sosteneva l’adesione all’associazione (“Fratello e sorella in Allah, non è forse giunto il momento di supportare la Ummah? Non è forse il momento di aiutare i Musulmani e supportare il loro Califfato? Accorri al supporto del Califfato Islamico”).

In definitiva, il ricorrente non fa che riproporre la versione difensiva, resa nell’interrogatorio, di una sorta di esposizione “giornalistica” della realtà dello “Stato Islamico”, ampiamente e dettagliatamente smentita, sulla base dell’analisi dell’intero documento, dall’ordinanza impugnata.

  1. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

Il ricorrente, in realtà, fonda la tesi dell’insussistenza della lesione all’interesse giuridico tutelato dalla norma su un concetto di “Stato islamico” diverso da quello recepito nel nostro ordinamento e in quello internazionale, vale a dire da quello di un’organizzazione terroristica internazionale; in effetti, per sostenere che “la associazione in parola è costituita ed operante all’estero”, il ricorrente implicitamente riconosce – coerentemente con quanto sostenuto dall’indagato negli interrogatori – che esiste uno Stato islamico il cui territorio si estende su parte della (OMISSIS) e dell'(OMISSIS).

Evidentemente non occorre una confutazione di questo assunto da parte dell’Autorità Giudiziaria, in quanto la natura di associazione terroristica dell’IS – e non di Stato – è sancita da Autorità internazionali (cui l’ordinanza genetica e quella oggi impugnata fanno correttamente riferimento) vincolanti nell’ordinamento.

Ciò premesso, esattamente l’ordinanza confuta la tesi riproposta nel secondo motivo di ricorso sulla base di due considerazioni: in primo luogo, osservando che l’apologià di reato oggetto della contestazione è stata posta in essere, senza alcun dubbio, in Italia ed era diretta a soggetti residenti nel nostro Paese (tanto che il documento era stato scritto in italiano); in secondo luogo, negando che l’associazione denominata ISIS sia operante esclusivamente all’estero.

In effetti, il ricorrente si spinge a sostenere che non vi sarebbe punibilità di tale associazione nel nostro Paese ai sensi degli artt. 7, 8 e 10 c.p.: ma la giurisprudenza di questa Corte, applicando il principio generale secondo cui, in relazione a reati commessi in parte anche all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato l’evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte, l’azione, con la conseguenza che, in ipotesi di concorso di persone, perchè possa ritenersi estesa la potestà punitiva dello Stato a tutti i compartecipi e a tutta l’attività criminosa, ovunque realizzata, è sufficiente che in Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti (Sez. 1, n. 41093 del 06/05/2014 – dep. 03/10/2014, Cuomo e altri, Rv. 260703), ha già ritenuto integrante il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative “cellulari” o “a rete”, in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all’assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, all’arruolamento, all’addestramento, con l’affermazione della giurisdizione italiana in caso di cellula operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell’attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all’occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti del “Jihad” all’estero (Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012 – dep. 29/11/2012, Chabchoub e altri, Rv. 253944; cfr. anche Sez. 5, n. 31389 del 11/06/2008 – dep. 25/07/2008, Bouyahia e altri, Rv. 241175 di conferma della condanna per il delitto di cui all’art. 270 bis c.p., per imputati che avevano collegamenti con una associazione di natura terroristica, che aveva posto in essere azioni di chiaro stampo terroristico nel (OMISSIS)).

Del resto, è conoscenza comune che lo svolgimento dell’attività dell’organizzazione terroristica in oggetto ha luogo – con il notevole aiuto costituito dalla disponibilità di un territorio sottoposto al suo controllo – in tutta Europa e anche nel nostro Paese.

  1. Appare infondato anche il terzo motivo di ricorso.

Il ricorrente contesta che le modalità di diffusione del documento – presente su due siti web – possano integrare la natura pubblica dell’apologià: esattamente l’ordinanza osserva che l’accesso ai siti era libero, senza che esistesse alcun filtro di accesso e che, per di più, lo stesso indagato era consapevole della potenzialità diffusiva della pubblicazione sui siti internet, tanto da sollecitarla su un altro sito chiedendo di “aiutarlo ad espandere (questo lavoro) e farlo leggere ad altri fratelli o sorelle”.

L’art. 266 c.p., comma 4, definisce il reato avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso “col mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda”: ebbene, è evidente che un sito internet liberamente accessibile ha una potenzialità diffusiva indefinita, tanto da poter essere equiparato alla stampa; non a caso, recentemente le S.U. di questa Corte hanno affiancato le due forme di manifestazione pubblica del pensiero, affermando che, mentre la testata giornalistica telematica, funzionalmente assimilabile a quella tradizionale in formato cartaceo, rientra nella nozione di “stampa” di cui alla L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 1, e, pertanto, non può essere oggetto di sequestro preventivo in caso di commissione del reato di diffamazione a mezzo stampa, in tale ambito non rientrano i nuovi mezzi di manifestazione del pensiero destinati ad essere trasmessi in via telematica quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list e social network, che, pur essendo espressione del diritto di manifestazione del pensiero, non possono godere delle garanzie costituzionali relative al sequestro della stampa (Sez. U, n. 31022 del 29/01/2015 – dep. 17/07/2015, Fazzo e altro, Rv. 264090).

Del resto, non si comprende l’inserimento di un documento su un sito internet privo di vincoli di accesso se non con la volontà di diffonderlo ad una pluralità indefinita di persone.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2015