Diritto Penale – I maltrattamenti familiari e l’irrilevanza della saltuarietà della condotta.
La Corte di Cassazione è di recente intervenuta, con la sentenza n° 47209/2015, sul delicato tema dei maltrattamenti in famiglia, ponendo l’accento sui requisiti necessari affinché si possa configurare il delitto di cui all’art 572 cod. pen.
Nel caso di specie l’imputato, secondo le varie testimonianze raccolte, aveva tenuto una condotta maltrattante nei confronti della consorte, con la quale conviveva da quasi un trentennio, subito dopo la comunicazione della stessa di volersi separare.
Il giudice di prime cure aveva però assolto l’uomo sulla base della saltuarietà delle condotte maltrattanti. Tuttavia, secondo la sesta sezione penale della Cassazione – la quale conferma definitivamente la condanna dell’ uomo, pronunciata dalla Corte di Appello – non è assolutamente richiesto, per configurare il reato suddetto, che la condotta maltrattante si protragga per un periodo minimo, con la conseguenza che al di sotto di tale limite temporale il reato debba necessariamente escludersi; al contrario esso si configurerà tutte le volte in cui saranno presenti atteggiamenti violenti, disprezzanti o prevaricatori volti alla concreta volontà di mortificazione dell’autonoma valutazione del componente del nucleo familiare. Il tutto confermando quanto statuito già da costanti pronunce di legittimità, e cioè che, ove possa ravvisarsi una reiterazione di condotte disprezzanti e prevaricatrici, debba dedursi la volontà di sopruso tipica del delitto di maltrattamenti, che può realizzarsi anche in un arco di tempo breve, sempreché, però, possa ravvisarsi, in tale ambito temporale, la pluralità di condotte prepotenti e aggressive rapportabili alla fattispecie prevista dal cod. pen.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 27 ottobre – 27 novembre 2015, n. 47209
Presidente Milo – Relatore Petruzzelis
Ritenuto in fatto
- La Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza del 17/03/2014, in accoglimento
dell’appello proposto dal P.m., ed in parziale riforma della pronuncia
assolutoria di primo grado emessa dal Tribunale di Pescara, ha affermato la
penale responsabilità di O. A. in relazione all’imputazione di cui all’art. 572
cod. pen., e lo ha condannato al risarcimento del danno in favore della parte
civile.
- La difesa di O. con il primo motivo di ricorso deduce violazione di cui all’art.
606 comma 1 lett.e) cod. proc. pen. per avere la Corte mutato il giudizio
assolutorio di primo grado senza dare giustificazione riguardo all’individuazione
di elementi di accusa idonei a superare tale valutazione, in contrasto con
quanto richiesto dalla giurisprudenza di legittimità in situazioni analoghe, né
considerare gli elementi a discarico indicati dal ricorrente nel corso del giudizio
di appello.
- Si deduce inoltre violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod.
proc. pen., per omessa analisi dell’attendibilità dei testi, identificabili nella
parte lesa e nel figlio del ricorrente, che, secondo l’allegazione, non era mai
emerso dalle indagini essere stato presente agli episodi sui quali aveva riferito
nel corso del giudizio, e le cui affermazioni sono riportate in ampio stralcio nel
ricorso.
In relazione alle dichiarazioni della parte lesa si segnalano gli elementi di
scarsa credibilità valutati dal giudice di primo grado a sostegno della pronuncia
assolutoria, ed ignorati, senza specifica motivazione, dal giudice d’appello.
Considerato in diritto
- Il ricorso non è fondato.
- Deve preliminarmente escludersi che nella pronuncia in esame, riformatrice
della sentenza assolutoria di primo grado in relazione all’imputazione di cui
all’art. 572 cod.pen. sia intervenuta una non motivata difforme analisi del
risultato di prova rispetto a tale atto, in relazione alla quale possa porsi un
problema di mancata, argomentazione del superamento del ragionevole
dubbio, idoneo a consentire la pronuncia di condanna a carico dell’odierno
ricorrente.
L’esame degli atti ha consentito di verificare che, pur a fronte del medesimo
risultato di prova, il primo giudice ha escluso la ricorrenza del reato di
maltrattamenti, in considerazione della lunga durata del rapporto
matrimoniale, e della ritenuta sporadicità della condotta anche per periodo
successivo alla comunicazione da parte della donna dell’intenzione di separarsi,
verificatosi tra il giugno ed il settembre 2010, cui si riferisce il capo di
imputazione, non operando alcuna valutazione di scarsa credibilità della donna,
rispetto alla quale potesse porsi successivamente un onere di motivazione
rafforzato o di individuazione di ulteriori elementi di prova idonei a sovvertire
tale giudizio. Infatti il giudice di primo grado, pur prendendo atto di parte delle
risultanze di prova, ha escluso il connotato dell’abitualità dei maltrattamenti,
circoscrivendone la possibilità di qualificazione alla fase finale dell’imputazione,
traendo spunto, per negare la volontà prevaricatrice, dalla convivenza
protrattasi tre la parti per quasi un trentennio.
La Corte di merito, in maniera corretta ed argomentata ha invece escluso la
svalutazione di tutto quanto avvenuto in precedenza, che risulta dimostrato
dalle dichiarazioni della donna, della quale è stata ampiamente valutata
l’attendibilità sulla base sia di elementi di riscontro estrinseci provenienti dal
figlio della coppia e da alcuni conoscenti che avevano assistito a specifici
episodi aggressivi, sia intriseci, in relazione ad affermazioni liberatorie svolte
dalla teste in favore del marito su specifici aspetti della vicenda coniugale, con
valutazione che risulta completa, corretta, e scevra di vizi.
Inoltre il secondo giudice ha esaminato quanto proveniente dal figlio sul
rapporto coniugale, aspetto minimamente considerato nella pronuncia di primo
grado, senza idonea giustificazione. Né coglie nel segno il rilievo operato in
ricorso riguardante la mancanza di una convivenza del teste con la coppia nel
periodo nel quale è stata circoscritta l’affermazione di responsabilità per il
reato in esame, atteso che quel che si ricava dalla pronuncia è che attraverso
le sue dichiarazioni si sia ricostruita la presenza di un atteggiamento di
complessiva svalutazione della moglie, tenuto dall’uomo durante tutto il corso
della vita coniugale, che, unitamente a quanto riferito sullo stesso profilo dai
testi estranei, ha fornito un adeguato elemento di inquadramento anche degli
episodi verificatisi tra il giugno ed il settembre 2010, consentendone la
qualificazione in termini di abitualità.
Sul punto giova evidenziare che tale caratteristica non richiede lo svolgimento
della condotta maltrattante per un periodo minimo, al di sotto del quale la
sussistenza del reato debba necessariamente escludersi, ma può ravvisarsi
tutte le volte in cui atteggiamenti prevaricatori, svalutanti o violenti si
susseguano e risultino connessi alla concreta volontà di mortificazione
dell’autonoma valutazione del componente del nucleo familiare, situazione che
nella specie, risulta non negabile alla luce sia del complessivo atteggiamento
tenuto nei confronti della moglie nell’arco della vita matrimoniale, che da
quanto risultante dichiarato dalla donna, ed accertato in fatto dallo stesso
giudice di primo grado, che ha sostenuto la decisione assolutoria
esclusivamente sulla base di una determinazione di non abitualità superata in
maniera argomentata e conforme ai principi applicativi della giurisprudenza di
questa Corte sul punto dalla Corte territoriale.
Conseguentemente, in maniera corretta, la Corte valorizzando elementi già
presenti in atti e non valutati dal primo giudice, ne ha corretto l’impostazione
giuridica, ritenendo, in conformità a quanto statuito in argomento da costanti
pronunce di legittimità, che-ove possa ravvisarsi una reiterazione di condotte
prevaricatrici e svalutanti-debba desumersi la volontà di sopraffazione tipica
del delitto di maltrattamenti, che si realizza anche in archi di tempi limitati, ove
in tale ambito si possa ravvisare la pluralità di condotte aggressive rapportabili
ad unico elemento determinatore, nella specie individuabile nell’aggressività
maggiore scatenata a seguito della decisione della donna di separarsi.
- Manifestamente infondati risultano i rilievi di scarsa credibilità delle
deposizioni testimoniali, sulle quali si lamenta la mancata confutazione delle
osservazioni difensive svolte»1 nel corso del giudizio d’appello.
Quanto alla deposizione del figlio della coppia, la Corte d’appello ha colmato
una lacuna contenuta nella pronuncia di primo grado che non si era in alcun
modo espresse sul punto, semplicemente ed immotivatamente ignorando il
dato di prova. Del resto sul punto la difesa, attraverso il richiamo di stralci di
tale deposizione, sollecita in questa sede un non consentito giudizio di merito,
laddove non emerge da tali richiami testuali la smentita alle condotte
svalutanti nei confronti della madre, che vengono riferiti sia pure senza
ricostruzione di specifichi episodi, per effetto del loro numero e risalenza nel
tempo.
Anche la credibilità della parte lesa non è stata in alcun modo posta in
discussione dal primo giudice, che è pervenuto all’assoluzione, come già
accennato, con valutazione in diritto; in tal senso conseguentemente non
coglie nel segno la censura di difetto di motivazione sulle deduzioni difensive
operate dall’odierno ricorrente in grado di appello, e riguardanti
documentazioni non valutate in primo grado, poiché la Corte territoriale non
risulta aver sovvertito alcun giudizio in proposito.
Le deduzioni richiamate in ricorso, e riguardanti accertamenti sopravvenuti al
giudizio di primo grado sullo stato patrimoniale dei coniugi, risultano
generiche, in quanto richiamano condizioni del tutto autonome rispetto a quelle
ritenute rilevanti nel corso del presente procedimento.
Inoltre sul punto l’impugnazione risulta priva del requisito dell’autosufficienza,
poiché fa richiamo a documentazione imprecisata, senza individuazione della
sua collocazione nel fascicolo processuale, contrariamente a quanto
pacificamente richiesto a sostegno dell’allegazione (per tutte Sez. 6, n. 29263
del 08/07/2010, Cavanna e altro, Rv. 248192) ed in mancanza dell’indicazione
specifica del suo oggetto, poiché si richiama la presenza di conti personali
intestati alla donna, che contraddirebbero la sua affermazione di poter fare
disporre solo di un conto cointestato, senza indicare i tempi nei quali i conti
personali sarebbero stati accesi, così da potere consentire la valutazione in
questa sede della rilevanza della deduzione al fine di decidere, e
conseguentemente, della mancata confutazione dell’argomentazione che si
assume proposta nel corso del giudizio di gravame di merito, nella sentenza
impugnata.
- L’infondatezza del ricorso ne impone il rigetto, con condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod. proc pen. Per
l’effetto l’interessato è tenuto alla rifusione delle spese di rappresentanza della
parte civile in questa fase, determinate nella misura indicata in dispositivo,
ritenuta equa.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali,
nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile
Dibattuto Liliana, liquidate in euro 3.000, oltre spese generali, IVA e CPA.