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Non sussiste abuso d’ufficio se la concessione edilizia illegittima è rilasciata in maniera celere.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Non sussiste abuso d’ufficio se la concessione edilizia illegittima è rilasciata in maniera celere.

La Cassazione, con la sentenza n. 87 del 2016, ha modo di delineare i contorni applicativi del reato di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p.

I fatti da cui la sentenza in argomento promana si riferiscono alla condotta del responsabile dell’ufficio tecnico comunale e del responsabile del procedimento che si sostanziava nel rilascio di una concessione edilizia illegittima.

La Corte di merito aveva ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato in argomento, ravvisandone la prova nei tempi eccezionalmente brevi per l’emanazione dell’atto.

La Cassazione, di converso, ha disconosciuto la ricorrenza dell’elemento soggettivo dell’abuso d’ufficio nel caso in esame. Infatti, secondo tale pronuncia, per l’abuso d’ufficio a seguito della trasformazione da reato di pura condotta a dolo specifico in reato di evento (avvenuta con legge n. 234/1997) il dolo richiesto è generico con riferimento alla condotta, quindi coscienza e volontà di violare norme di legge, mentre ha assunto la forma del dolo intenzionale rispetto all’evento (vantaggio o danno) che completa la fattispecie.

La prova dell’intenzionalità del dolo esige la certezza che la volontà dell’imputato sia stata orientata a procurare il vantaggio patrimoniale o in danno ingiusto. Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento non iure tenuto dall’agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenziano l’effettiva ratio ispiratrice del comportamento.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 11-12-2015) 07-01-2016, n. 87

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIAMPI Francesco Mar – Presidente –

Dott. MENICHETTI Carla – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Patrizia – rel. Consigliere –

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.R.A. N. IL (OMISSIS);

N.A. N. IL (OMISSIS);

P.R. N. IL (OMISSIS);

P.F. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 1666/2013 CORTE APPELLO di CATANIA, del 18/02/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 11/12/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;

udito il Procuratore Generale in persona del Dr. Fodaroni Maria Giuseppina, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi di P. R. e P.F.; per l’annullamento senza rinvio della sentenza per D.R. e N. per intervenuta prescrizione e l’annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello;

udito, per la parte civile non ricorrente, Avv. Tomaselli Giuseppe per G., del foro di Siracusa, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

uditi i difensori avv.ti Giuffrè Felice Alberto, e Tamburino Tommaso del foro di Catania, per D.R.; avv. Franco Andrea del foro di Venezia in sostituzione dell’avv. Galati Maria Letizia, per P. R. e P.F.; avv. Valenti Gaetano del foro di Catania per N.; tutti per l’accoglimento dei ricorsi.

 

Svolgimento del processo

 

D.R.A., P.R., P.F. e N. A.M. ricorrono avverso la sentenza di cui in epigrafe che, giudicando in sede di rinvio, dopo l’annullamento disposto dalla sentenza della Sezione 3^ di questa Corte in data 19 marzo 2013 – 14 maggio 2013 n. 2013, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di P.F. e P.R. in ordine al reato di cui al capo a) per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione; assolto P.R. dal reato ascrittole al capo c) perchè il fatto non costituisce reato; ha dichiarato D.R. A. e N.A.M. colpevoli del reato ascritto loro al capo b) (fatti del (OMISSIS)).

La contestazione di cui al capo a) concerneva il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, contestato sul presupposto che il P.F., nella qualità di amministratore unico della SEDIS spa, con il concorso della progettista P.R., aveva costruito un edificio abusivo sulla base di una concessione edilizia illegittima.

La contestazione di cui al capo b), concerneva l’addebito di cui all’art. 483 c.p., prospettato a carico della progettista P., per avere questa reso false dichiarazioni sullo stato dei lavori nella richiesta del certificato di abitabilità.

L’addebito di cui al capo c), era relativo al reato di abuso di ufficio, contestato al D.R. ed al N., nella rispettiva qualità di responsabile dell’ufficio tecnico comunale e di responsabile del procedimento relativo alla concessione edilizia rilasciata alla SEDIS spa, per avere i medesimi rilasciato una concessione edilizia illegittima così arrecando un ingiusto vantaggio ai beneficiari del titolo.

La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso del Procuratore generale e della parte civile, a fronte di sentenza liberatoria che aveva mandato assolti gli imputati con la formula perchè il fatto non costituisce reato (in primo grado, per tutti, la formula assolutoria era stata quella dell’insussistenza del fatto), valorizzava il dato della illegittimità della concessione edilizia che doveva desumersi dal principio univoco e consolidato secondo cui l’asservimento di un fondo in caso di edificazione costituisce una qualità oggettiva dello stesso,in modo tale che detta qualità continua a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti con conseguente inutilizzabilità (ai fini di ulteriore edificazione) della porzione del suolo già computata per il calcolo della cubatura in riferimento alla edificazione di un precedente manufatto.

In ragione di tal principio pacifico, imponeva un rivalutazione della decisione liberatoria, giacchè le competenze professionali degli imputati chiamati a rispondere dell’abuso d’ufficio avrebbe dovuto indurre ad un miglior apprezzamento sulla sussistenza del dolo intenzionale; mentre analoghe considerazioni si imponevano, dal punto di vista soggettivo, anche per i reati agli altri imputati rispettivamente contestati.

La Corte di appello, in sede di rinvio, valorizzava il dato della ritenuta palese illegittimità della concessione edilizia, siccome in contrasto con le norme del piano regolatore comunale, in ragione della ritenuta dimostrata situazione di pregresso sfruttamento dell’indice di edificabilità, tale da avere determinato una obiettiva riduzione della cubatura ulteriore legittimamente autorizzabile.

Per l’effetto, il giudicante ravvisava i presupposti dell’abuso edilizio, siccome commesso in presenza di concessione edilizia, tra l’altro rilasciata sulla base di un progetto che aveva rappresentato falsamente la situazione dei luoghi ai fini dell’ottenimento del titolo. Abuso sostanziatosi nel superamento dei limiti di edificabilità ridotta per effetto dei precedenti atti di asservimento (sulla cui obiettiva sussistenza il giudice si soffermava).

L’abuso edilizio, peraltro, doveva considerarsi ormai prescritto.

Soffermandosi poi sulla falsità addebitata al progettista P. R., di cui pure si era esaminata la rilevanza ai fini del rilascio del titolo concessorio, la Corte perveniva alla pronuncia assolutoria (con la formula che il fatto non costituisce reato) evidenziando che gli elementi acquisiti non fornivano riscontro satisfattivo del dolo richiesto dalla fattispecie incriminatrice, vertendosi piuttosto in tema di colpa.

Quanto all’abuso di ufficio, la Corte ravvisa la sussistenza del reato valorizzando l’omessa attivazione da parte degli imputati dei controlli necessari per verificare la corrispondenza tra il progetto oggetto della concessione e gli strumenti urbanistici e la circostanza della ritenuta evidente violazione della normativa di settore, con riguardo alla disciplina dei fondi asserviti di cui si è detto, Irrilevanti erano considerate le diverse conclusioni cui era pervenuto il perito di ufficio nominato dal Gip, che aveva concluso in termini favorevoli e coerenti con la legittimità del titolo.

Irrilevanti, ancora, erano le circostanze delle non complete trascrizioni degli atti di vincolo.

Gli imputati, per la loro qualità, non potevano avere agito in buona fede e di ciò veniva anche tratta conferma dai tempi considerati inusitatamente brevi per il completamento della procedura.

Da ciò l’affermazione di responsabilità.

Con ricorso congiunto P.R. e P.F. contestano l’affermazione di responsabilità, ritenendo sussistente l’interesse all’impugnazione nonostante la formula terminativa.

In particolare, con il primo motivo, si contesta il giudizio di illegittimità della concessione argomentando sul differente significato da attribuirsi all’atto di asservimento rispetto alla cessione di cubatura e agli effetti che ne dovrebbero conseguire.

La condotta degli imputati, in ogni caso, doveva ritenersi priva del requisito di offensività in conformità a quanto emergente dall'”Atto ricognitivo di asservimento” prodotto in giudizio dal dante causa della SEDIS, dal quale era rilevabile che il venditore aveva ceduto alla SEDIS la potenzialità edificatoria spettante alla propria restante proprietà.

Con il secondo motivo contesta l’addebito colposo posto a fondamento della decisione risultando dagli atti che gli imputati avevano fatto tutto il possibile in un contesto difficile per osservare la legge e non era pertanto sostenibile quanto affermato in sentenza sul fatto che l’amministratore ed il progettista avrebbero dovuto allarmarsi circa la condizione giuridica del terreno acquistato a causa della pluralità di frazionamenti cui era stato sottoposto ed in forza di tale circostanza attivarsi con l’indagine storico giuridica visto che il certificato catastale allegato all’atto di vendita non faceva alcuna menzione dei precedenti frazionamenti.

Si contesta, ancora, con il terzo motivo, quanto alla posizione di P.R., la ravvisata sussistenza dell’elemento materiale del reato, pur escluso sub specie dell’elemento soggettivo. Si sostiene sul punto un travisamento della prova sul rilievo che l’imputata non aveva mai dichiarato che i lavori di costruzione erano conformi agli strumenti urbanistici vigenti ma, trattandosi di una perizia giurata ai sensi della L. 31 maggio 1994, n. 17, art. 3, aveva attestato la conformità al contenuto della concessione ed alla variante e ad ogni norma di legge o di regolamento connessi al rilascio del certificato di conformità ed abitabilità.

D.R. contesta, con plurimi motivi, la ravvisata sussistenza dell’abuso d’ufficio Con il primo motivo lamenta la violazione dell’art. 323 c.p. e la manifesta illogicità della motivazione laddove il giudice di appello aveva ritenuto l’illegittimità della concessione edilizia. Sul punto sì critica innanzitutto l’assimilazione operata dalla Corte di merito tra la natura giuridica del contratto di cessione di cubatura e l’atto unilaterale d’obbligo.

Si sostiene che la Corte di merito, discostandosi dai principi affermati dal perito del Tribunale, aveva ritenuto che l’atto di asservimento – a prescindere dalla circostanza che scaturisca da un contratto di cessione di cubatura, che è senz’altro ad effetti reali, o da un atto unilaterale d’obbligo, come sostenuto dalla difesa – non può venire meno per il solo fatto della perdita di efficacia della concessione edilizia cui era preordinato.

Da tale principio contraddittoriamente non aveva fatto discendere il riconoscimento di un maggior beneficio di cubatura per la porzione di terreno di interesse in quanto lotto beneficiario di una cubatura di 3180 me mai utilizzata, poi maggiorata dell’incremento previsto con i nuovi indici di P.R.G..

Con il secondo motivo censura gli argomenti posti a supporto del dolo intenzionale lamentando il vizio di motivazione con riferimento agli elementi sintomatico dell’abuso (i tempi eccezionalmente brevi per il rilascio della concessione, le reiterata condotta omissiva).

Si lamenta, altresì, che la Corte di merito non aveva approfondito il contributo offerto da ciascun imputato alla formazione dell’atto ritenuto illegittimo, arrivando a ritenere responsabile anche colui che si era limitato ad emettere il provvedimento finale. Con il terzo motivo si duole della manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata valutazione delle risultanze della documentazione prodotta dalla difesa ed acquisita dalla Corte di appello in relazione alla sussistenza del dolo intenzionale. Il riferimento è in particolare alla richiesta di rinvio a giudizio formulata in data 11.12.2013 dalla Procura della Repubblica di Catania nei confronti di nove persone tra cui la parte civile costituita,in particolare censurando gli argomenti posti a supporto del dolo intenzionale, in cui è contestato al D.R. di aver procurato intenzionalmente a G.C. (parte civile) un ingiusto vantaggio patrimoniale;

parte offesa in tale procedimento è il P., che nel caso in esame sarebbe stato favorito dal D.R..

Con il quarto motivo si lamenta del diniego delle attenuanti generiche nonchè del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Con il quinto motivo si duole della violazione di legge con riferimento al riconosciuto risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, fondato sulla violazione dei rapporti di vicinato, argomento mai esaminato nel corso del giudizio di merito.

Anche N. censura il giudizio di responsabilità per il reato di abuso di ufficio. Con il primo motivo lamenta la violazione dell’art. 323 c.p.p. sostenendo la legittimità della concessione alla luce del principio urbanistico, applicato in primo grado, secondo il quale la costruzione già realizzata non esauriva la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento dell’ulteriore richiesta del permesso di costruire.

Con il secondo motivo si sofferma sull’elemento del dolo intenzionale, che si assume erroneamente ritenuto sussistente dalla Corte di merito che aveva individuato la prova dell’elemento psicologico del reato nei tempi eccezionalmente brevi per l’emanazione dell’atto, mentre la concessione era stata rilasciata nell’arco di cinque mesi. Si contesta anche l’altro elemento sintomatico dell’abuso individuato dal giudicante nella reiterata condotta omissiva, con riferimento a delle missive inviate dalla parte civile senza tener conto che l’imputato era solo deputato ad esprimere un parere non vincolante al dirigente poi chiamato al rilascio della concessione.

Anch’egli, in subordine, si duole del trattamento sanzionatorio:

diniego delle attenuanti generiche e del beneficio della non menzione; così come del risarcimento del danno disposto in favore della parte civile.

E’ stata depositata comparsa conclusionale nell’interesse della parte civile costituita e copia degli atti del procedimento amministrativo promosso dalla medesima parte nei confronti del Comune di Motta Sant’Anastasia e la Sedis spa. avverso l’ordinanza di demolizione dell’edificio di proprietà del G. in via (OMISSIS).

 

Motivi della decisione

 

Va premesso che, alla data odierna, i reati ascritti agli imputati sono da ritenere tutti prescritti.

Oltre la violazione di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, già dichiarata estinta per intervenuta prescrizione in sede di rinvio, risulta decorso il termine di prescrizione, come del resto indicato dalla Corte di merito, anche per i reati di cui agli artt. 323 e 483 c.p. (rispettivamente alla data del 25.4.2014 e 28.10.2014).

Ciò non esclude che debbano esaminarsi i ricorsi, anche laddove evocano un difetto di motivazione della sentenza gravata, essendovi le statuizioni civili su cui occorre provvedere, onde l’auspicato (dai ricorrenti) proscioglimento nel merito dovrebbe essere adottato ex art. 129 c.p.p., comma 2, per il principio del favor rei, anche allorquando si vertesse in ipotesi di contraddittorietà o insufficienza della prova della responsabilità (cfr. Sezioni unite, 28 maggio 2009, Tettamanti).

Alla luce dei principi appena richiamati, con riferimento al reato cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, deve riconoscersi che non solo dalla sentenza non risulta affatto evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che non costituisce reato, ecc. ma non risulta neanche la contraddittorietà o insufficienza della prova.

Nella specie, infatti, satisfattivo è il ragionamento sviluppato dalla Corte di merito sulla illegittimità del titolo concessorio, in termini spiegati come così evidenti da fondare – ai fini che interessano – il fumus della colpa, tale da escludere l’adozione di una formula terminativa di merito. Mentre, all’evidenza, non vi è spazio per una rinnovata disamina in questa sede, che debba passare attraverso la ricostruzione dello status giuridico dei terreni interessati e, in particolare, sul proprium degli atti di asservimento. Vi ostano non solo i limiti del giudizio di legittimità, ma anche la circostanza dell’intervenuta declaratoria di estinzione.

E’ del resto sufficiente ricordare che la condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell’inottemperanza all’obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati (Sezione 3, 12 maggio 2011, PM in proc. Bisco). Principio qui calzante avendo riguardo alla natura dell’intervento e delle obiettive problematiche emergenti.

Infondato è, nella medesima prospettiva, il ricorso di P. R., con riferimento al reato di cui all’art. 483 c.p. a fronte di motivazione satisfattiva sulla difformità della dichiarazione resa rispetto alla “verità”, in termini che il giudicante ha letto comunque come “colposi”, ma certo non suscettibili di rinnovazione fattuale in questa sede, a fronte della ricostruzione operata in sentenza della situazione giuridica dell’immobile.

Anche con riferimento alla posizione di D.R. e N. – per i quali, come sopra indicato, è pure maturato il termine prescrizionale – va rilevato che non ricorrono i presupposti per una pronuncia assolutoria ex art. 129 c.p.p., comma 2, perchè, tenuto conto di quanto emerge dalla motivazione della sentenza, non risulta evidente la estraneità dei ricorrenti ai fatti contestati.

Cosicchè è necessario prendere atto della intervenuta causa estintiva e annullare senza rinvio la sentenza impugnata per essere estinto il reato per intervenuta prescrizione.

I motivi di ricorso debbono essere però valutati ai fini delle statuizioni civili ai sensi dell’art. 578 c.p.p..

Tralasciando i motivi di impugnazione irrilevanti per le statuizioni civili perchè inerenti alla pena, va detto che gli altri motivi meritano considerazione in quanto pongono l’accento, anche se con alcune concessioni al merito della vicenda certamente inammissibili in sede di legittimità, su inadempienze motivazionali della sentenza impugnata.

Appare opportuno ricordare che la Suprema Corte (v. la già richiamata sentenza Tettamanti, rv. 244275 e da ultimo, Sez. 5, 4 ottobre 2013, Zambonini, rv 258670) ha stabilito che in presenza di una causa di estinzione del reato non sono rilevabili in cassazione vizi di motivazione della sentenza, perchè l’inevitabile rinvio della causa all’esame del giudice di merito dopo la pronuncia di annullamento è incompatibile con l’obbligo della immediata declaratoria di proscioglimento per l’intervenuta estinzione del reato, stabilito dall’art. 129 c.p.p., comma 1.

Naturalmente il principio vale per gli effetti penali della sentenza, ma non per quelli civili, cosicchè qualora, in sede di legittimità, si riscontri, unitamente alla sopravvenuta prescrizione del reato, anche un vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato, condannato dal giudice di merito anche al risarcimento del danno in favore della parte civile, la Corte di cassazione, oltre ad annullare senza rinvio la sentenza impugnata, ai fini penali, in conseguenza della causa estintiva, deve annullarla, quanto alle statuizioni civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 c.p.p. (v., Sez. 5, 5 febbraio 2007, n. 9399, rv. 235843).

Tanto premesso, va detto che la motivazione impugnata non appare del tutto congrua in ordine alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato di abuso d’ufficio.

Come è noto, in tema di abuso d’ufficio, a seguito della trasformazione da reato di pura condotta a dolo specifico in reato di evento, avvenuta con la L. n. 1234 del 1997, il dolo richiesto è generico con riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l’obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo intenzionale rispetto all’evento (vantaggio o danno) che completa la fattispecie.

A tal ultimo riguardo, la prova dell’intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell’imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusti. Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento non iure tenuto dall’agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino l’effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (cfr. Sez. 6, 25 gennaio 2013, Barla ed altri).

Sotto questo profilo, la motivazione della Corte è manifestamente carente e contraddittoria.

Proprio la complessità della situazione giuridica non può semplicisticamente autorizzare un addebito in punto di consapevole violazione delle norme a carico dei funzionari che hanno curato l’iter concessorio.

Mentre è stato impropriamente valorizzato l’iter definito come eccessivamente sollecito della pratica, allorquando in tutta evidenza tale procedura non ha interessato e visti coinvolti solo gli odierni imputati e, comunque, allorquando non si è in presenza di una abnormità evidente della procedura, quanto alla tempistica e/o ai diversi passaggi che hanno portato al rilascio del titolo.

Non va del resto dimenticato, per cogliere l’importanza dell’accertamento sull’elemento soggettivo, che, nel reato di abuso d’ufficio, si richiede appunto il “dolo intenzionale”, nel senso che l’agente deve aver agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia (per quanto qui potrebbe interessare) l’ingiusto profitto patrimoniale, per sè o per altri, ovvero l’altrui danno ingiusto. In altri termini, non sarebbe sufficiente che il soggetto attivo abbia agito con “dolo diretto”, cioè rappresentandosi l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità, nè con “dolo eventuale”, cioè accettando il rischio del suo verificarsi: è necessario che l’evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa (Sezione 6, 17 novembre 2009, Ratti ed altro).

E’ sul tema che i due funzionari abbiano agito solo ed esclusivamente nell’interesse del richiedente la concessione è necessario un nuovo e più approfondito esame.

Siffatta situazione impone l’annullamento della sentenza impugnata agli effetti civili per la posizione dei funzionari D.R. e N., non essendosi il giudice di appello fatto carico di tutte le argomentazioni ed obiezioni degli appellanti in punto di dolo intenzionale, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per un nuovo esame.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali nei confronti di D.R.A. ed N.A. limitatamente al reato di cui all’art. 323 c.p. perchè estinto per intervenuta prescrizione. Rinvia agli effetti civili al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui demanda il regolamento delle spese anche per questo giudizio. Rigetta i ricorsi di P. R. e P.F. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2016

 

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Elisa Asprone
Elisa Asprone, nata a Napoli il 22/09/1986 Laurea in Giurisprudenza conseguita a 24 anni presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II", con votazione 110/110, con una tesi in diritto commerciale dal titolo "Violazione dell'obbligo di OPA e risarcimento del danno". Pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato. Diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Master di I livello in diritto dell'Unione europea, conseguito presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e breve esperienza formativa presso la Corte di Giustizia a Lussemburgo. Conseguimento titolo di Avvocato il 10/09/2013. Relatrice di convegni formativi presso l'ordine degli avvocati di Nola inerenti al diritto dell'immigrazione. Magistrato ordinario presso il tribunale di Napoli .