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Violenza sessuale: l’inferiorità psichica non implica fenomeni di patologia mentale.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Violenza sessuale: l’inferiorità psichica non implica fenomeni di patologia mentale.

Il reato di violenza sessuale, di cui all’art. 609 bis c.p., è ricompreso nel Titolo XII relativo ai “Delitti contro la persona”. Il legislatore punisce chiunque costringe taluno a compiere o subire atti sessuali, con violenza o minaccia, ovvero mediante abuso di autorità. Il medesimo trattamento sanzionatorio è previsto anche per chi induce taluno a compiere e a subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto.

Nel caso di specie l’imputato era stato condannato dal giudice di secondo grado per i reati di cui agli artt. 609 bis comma 2 n. 1 c.p. e 582 c.p., nonché per il reato di cui agli artt. 81 cpv, 643 e 56-643 c.p., avendo lo stesso soggiogato completamente la vittima, approfittando dello stato di grave prostrazione della stessa, facendole peraltro credere di poterla guarire mediante la pratica di rapporti sessuali, che l’imputato asseriva essere utilizzabili per finalità terapeutiche.

La Suprema Corte nel rigettare il ricorso dell’imputato, ha affermato che è assolutamente pacifica in giurisprudenza la non necessarietà della prova delle condizioni di inferiorità psichica, quali elemento costitutivo del reato ex art. 609 bis c.p., così come dello stato di infermità e di deficienza psichica richieste dall’art. 643 c.p., mediante un accertamento peritale, non occorrendo che la vittima sia affetta da una specifica patologia psichiatrica. In tema di violenza sessuale, infatti, la condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto prescinde da fenomeni di patologia mentale, in quanto è sufficiente ad integrarla la circostanza che il soggetto passivo versi in condizioni intellettive e spirituali di minore resistenza all’altrui opera di coazione psicologica o di suggestioni, anche se dovute ad un limitato processo evolutivo mentale e culturale, ma con esclusione di ogni causa che sia propriamente morbosa. Devono, peraltro, ritenersi rientranti tra le condizioni di inferiorità psichica anche quelle conseguenti alla ingestione di alcoolici e alla assunzione di stupefacenti, dal momento che anche in tali casi si realizza una situazione di menomazione della vittima che può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE – SENTENZA 17 dicembre 2015, n.49646 – Pres. Squassoni – est. Amoresano

Ritenuto in fatto

  1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 09/02/2015, in parziale riforma della sentenza di G.u.p. del Tribunale di Milano, emessa in data 23/06/2014 nei confronti di A.U. , appellata dall’imputato, dalla parte civile, dal P.M. e dal P.G., e con la quale l’A. era stato condannato, applicata la diminuente per la scelta del rito, per i reati di cui agli artt.609 bis, comma 2 n.1 cod.pen. (capo b) e 582 cod.pen. (capo c), dichiarava l’imputato colpevole anche del reato di cui agli artt.81 cpv., 643 e 56-643 cod.pen. (ascritto al capo a), e, ritenuta la continuazione tra tutti i reati, rideterminava la pena complessiva in anni 5 e mesi 4 di reclusione, con aumento ad Euro 25.000,00 della liquidazione dei danni in favore della costituita parte civile, confermando nel resto.

Premetteva la Corte territoriale che i fatti contestati ai capi b) e c), (violenza sessuale e lesioni personali) erano stati ritenuti accertati dal primo giudice sulla base della denuncia della persona offesa, D.M.F. , affetta da psicosi schizoaffettiva in disturbo borderline di personalità, con sintomi psichiatrici di ordine sia affettivo che ideativo. La D.M. , in sede di incidente probatorio, aveva riferito che l’imputato l’aveva indotta a subire i rapporti sessuali, convincendola che quei trattamenti l’avrebbero fatta guarire. La p.o. era stata ritenuta attendibile, anche perché le sue dichiarazioni risultavano confermate ab externo da soggetti terzi e dalla sorella.

Il G.u.p., invece, non aveva ritenuto provata la responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui al capo a).

Tanto premesso e dopo aver riportato i motivi di appello proposti dalle parti, riteneva la Corte distrettuale che non vi fosse alcuna necessità di disporre perizia psichiatrica sulla persona offesa (peraltro richiesta dopo che la medesima era stata già escussa), non incidendo le patologie, dalle quali essa era affetta, sulla capacità di discernimento, volizione ed autodeterminazione.

Andava, poi, confermato il giudizio di piena attendibilità delle sue dichiarazioni, ampiamente argomentato dal G.u.p. e non oggetto di specifiche censure.

La donna era stata completamente soggiogata dall’imputato, che aveva approfittato dello stato di grave prostrazione in cui era venuta a trovarsi (dopo un tentativo di suicidio) e le aveva fatto credere di poterla guarire, riuscendo, dopo vari tentativi, a farle accettare i rapporti sessuali come se fosse una pratica terapeutica.

E lo stato psicologico in cui si trovava la parte offesa (con notevole riduzione della capacità critica) spiegava anche come una persona, dotata di istruzione elevata e con un lavoro qualificato, potesse non aver fatto distinzione tra un trattamento terapeutico ed un abuso sessuale.

Secondo la Corte territoriale, poi, l’analisi approfondita delle risultanze processuali non consentiva alcuna distinzione tra la vulnerabilità della p.o. con riferimento agli atti sessuali e quella riguardante gli atti di disposizione patrimoniale. Sicché ricorrevano i presupposti per la configurabilità anche del reato di cui all’art.643 cod.pen..

In ordine al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non emergeva alcun elemento di segno positivo (tranne quello della incensuratezza, irrilevante di per sé ex art.62 bis, comma 3, cod.pen.).

  1. Ricorre per cassazione A.U. , a mezzo del difensore, denunciando la mancata assunzione di una prova decisiva, nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.

La difesa aveva richiesto giudizio abbreviato condizionato all’espletamento di perizia psichiatrica sulla persona offesa per accertare se, all’epoca dei fatti, sussistesse lo stato di deficienza/inferiorità psichica (elemento costitutivo dei reati di cui ai capi a) e b) e se detto stato fosse riconoscibile.

Il G.u.p. aveva rigettato la richiesta, assumendo che l’integrazione richiesta non fosse necessaria ai fini della decisione.

Con i motivi di appello si evidenziava che il G.u.p. avesse travisato il senso della richiesta, non contestandosi la capacità di rendere dichiarazioni, ma richiedendosi un accertamento in ordine alla incidenza delle patologie, da cui la p.o. era affetta, in ordine ai reati contestati.

La Corte territoriale ha ritenuto non necessario disporre la parziale rinnovazione del dibattimento, travisando anche essa il senso della richiesta (intendendola come una verifica della capacità a testimoniare).

Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, poi, con i motivi di appello erano state sollevate specifiche e precise censure in ordine al giudizio di piena attendibilità delle dichiarazioni della p.o., formulato dal Tribunale.

Con il secondo motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.

La Corte territoriale, senza argomentare in ordine ai rilievi contenuti nell’atto di impugnazione, ha confermato le conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado, assumendo che la donna fosse convinta che l’A. l’avrebbe aiutata a guarire; ed ha, anzi, ritenuto che le risultanze probatorie non consentissero alcuna scissione tra vulnerabilità della vittima con riferimento agli atti sessuali o alla dazione di somme di denaro.

Ma se, come davano atto i Giudici di merito, la D.M. aveva opposto un rifiuto alle richieste di denaro, era indubbio che avesse dimostrato capacità critica e di discernimento.

Il rifiuto opposto, come evidenziato dal primo giudice, collideva quindi con l’affermata (dalla Corte territoriale) diminuzione della capacità critica.

Peraltro, la capacità di discernimento era certamente sbilanciata a favore della D.M. , laureata con due master (il ricorrente era in possesso, invece, della sola istruzione obbligatoria e padroneggiava appena la lingua italiana).

 

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.

2.Risulta, in punto di fatto, secondo le stesse prospettazioni difensive, che l’imputato aveva fatto richiesta di rito abbreviato, condizionato all’espletamento di perizia psichiatrica sulla persona offesa per accertare la sussistenza dello stato di deficienza/inferiorità psichica e la sua riconoscibilità. Il G.u.p., però, aveva rigettato la richiesta, assumendo che ‘per come strutturata l’ipotesi accusatoria, la valutazione rimessa al giudice coinvolge l’accertamento di un presupposto di fatto che attiene elementi di prova già valutabili in base agli atti e che l’integrazione richiesta non è indispensabile ai fini del decidere’ (pag. 1 e 2 ricorso).

A seguito del rigetto della richiesta di rito abbreviato condizionato, l’imputato aveva optato per il rito abbreviato ordinario.

2.1. L’art.438, comma 5, cod.proc.pen. stabilisce che l’imputato può subordinare la richiesta di definizione del processo allo stato degli atti ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se la integrazione probatoria richiesta risulti necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili.

È necessario, dunque, perché possa farsi luogo a giudizio abbreviato condizionato, che, tenuto conto delle risultanze già acquisite, la richiesta di integrazione appaia ‘necessaria’ e ‘compatibile’.

Tali requisiti debbono pacificamente ricorrere entrambi, per cui, in difetto anche di uno solo di essi, il giudice deve rigettare la richiesta.

Quanto alla compatibilità con le finalità di economia processuale, il legislatore, pur allargando con la L. 16/12/1999 n.479 le ‘maglie’ del rito abbreviato, si è preoccupato, comunque, di non snaturare le finalità proprie del rito. Evidentemente la semplificazione del meccanismo processuale e l’intento deflattivo perseguiti (a fronte del meccanismo premiale della riduzione di un terzo della pena) verrebbero inevitabilmente compromessi dall’espletamento di integrazioni probatorie defatiganti e non celeri.

In ordine alle caratteristiche dell’altro presupposto, si è ritenuto che sia necessaria, da un lato, l’incompletezza di un’informazione probatoria in atti, e, dall’altro, una prognosi di positivo completamento del materiale a disposizione per il tramite dell’attività integrativa, valutazione insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivata’ (cfr. Cass. sez. 2 n. 43329 del 18/10/2007).

2.2. A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 2003, la decisione del G.u.p., che abbia rigettato una richiesta di rito abbreviato condizionato, è soggetta a controllo giurisdizionale. Con tale sentenza la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 438,comma 6, cod.proc.pen., nella parte in cui non prevede che, in caso di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato subordinato ad un’integrazione probatoria, l’imputato possa rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado ed il giudice possa disporre il giudizio abbreviato. ‘La necessità di un adeguamento costituzionale della norma è stata ravvisata dal giudice delle leggi nella violazione di ogni garanzia difensiva derivante dalla sottrazione della richiesta di giudizio abbreviato condizionato a qualsiasi forma di sindacato. Ed è stato infatti, tra l’altro, affermato nella parte motiva della sentenza che ‘Alla luce del nuovo quadro normativo non vi è d’altro canto alcun ostacolo a che, qualora l’imputato riproponga prima dell’apertura del dibattimento la richiesta di giudizio abbreviato condizionata, sia lo stesso giudice del dibattimento, ove ritenga ingiustificato il rigetto della precedente richiesta, a disporre e celebrare il giudizio abbreviato’. L’intervento della Corte Costituzionale, quindi, non è finalizzato a consentire genericamente che la richiesta di rito alternativo possa essere nuovamente proposta, ma esclusivamente a far sì che quella richiesta di giudizio abbreviato condizionato, che è stata respinta dal giudice dell’udienza preliminare, sia sottoposta al vaglio del giudice del dibattimento, affinché valuti la necessità e compatibilità della prova richiesta con le finalità di economia processuale proprie del procedimento speciale ed eventualmente ammetta l’imputato al giudizio abbreviato condizionato. Conseguentemente, la facoltà di riproporre, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, la richiesta subordinata ad un’integrazione probatoria, prima rigettata, implica che essa non sia mutata nel contenuto, sicché è preclusa sia la possibilità di proporre al giudice del dibattimento l’assunzione di prove diverse che di trasformare la richiesta da condizionata ad incondizionata – Corte Cost., n. 169 del 2003-‘ (cfr. Sez. 1,19/04/2006 n. 27778, Lombardi, RV 234964). Peraltro, la ragione giustificatrice della necessità che la richiesta di rito abbreviato condizionato, respinta dal giudice, possa essere riproposta solo se formulata negli stessi termini deve ravvisarsi nel fatto che con il rigetto della richiesta vengono meno i motivi di economia processuale che giustificano il trattamento premiale dell’imputato. Pertanto, la tardiva ammissione dell’imputato al rito alternativo ed al trattamento premiale può essere giustificata solo da una nuova valutazione della richiesta a suo tempo formulata da questi, che rilevi l’erroneità della decisione che non ha ammesso il giudizio abbreviato condizionato, e non certamente dal ripensamento dello stesso imputato in ordine al tipo di giudizio oggetto della ulteriore richiesta. Alla luce di tali rilievi è evidente che la formulazione, dopo il rinvio a giudizio, di una richiesta di rito abbreviato non condizionato o subordinato ad una diversa integrazione probatoria, rende tale richiesta tardiva per essere stata formulata oltre il termine di decadenza stabilito dall’art. 438 c.p.p., comma 2 (così Cass. Sez. 3 n.1851 del 2/12/2010; conf. Cass. Sez. 1 n.21219 del 27/4/2011; Cass.sez.2 n.139 del 28/9/2011).

2.3. Il ricorrente avrebbe, quindi, potuto rinnovare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, la richiesta di rito abbreviato subordinato ad integrazione probatoria (negli stessi termini formulati davanti al G.u.p.).

Facendo, invece, richiesta al G.u.p. di rito abbreviato ordinario, implicitamente rinunciava alla integrazione probatoria.

Conseguentemente non poteva più richiedere al giudice di appello di valutare la correttezza della decisione del G.u.p. in ordine alla ritenuta insussistenza dei presupposti per far luogo alla integrazione probatoria richiesta.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. pen. sez. 1 n. 36214 del 22/09/2010 – Iodice), invero, la scelta, da parte dell’imputato, del giudizio abbreviato nella forma ordinaria comporta ‘….una rinuncia implicita all’assunzione delle prove avanzate che avrebbe potuto chiedere di sfogare in sede dibattimentale senza per questo rinunciare alla diminuente del rito ottenibile al giudice della cognizione qualora la decisione si fosse poi fondata proprio sulle prove pretermesse’. Del resto le Sezioni Unite, già con la sentenza n. 44711 del 27 ottobre 2004, avevano chiarito che poteva parlarsi ‘di violazione dei criteri legali di quantificazione della pena solo quando la preclusione del rito fosse dipesa dall’erronea deliberazione del giudice e non dall’inerzia del soggetto cui la legge rimette in via esclusiva la possibilità di attivare il procedimento speciale, cosicché, nel caso in cui l’imputato non rinnova in limine litis una richiesta già respinta dal giudice preliminare, non può farsi più questione della eventuale erroneità del provvedimento reiettivo’. A tale mancato rinnovo della richiesta deve equipararsi la ‘opzione’ per il rito abbreviato secco, con rinuncia quindi a quello condizionato. In presenza di tale scelta non può più l’imputato lamentare l’illegittimo rigetto della richiesta di integrazione probatoria (Cass., Sez. 3,5 giugno 2009, n. 27183, Fabbricinijk, Rv. 244248).

2.4. Il ricorrente, quindi, in sede di giudizio d’appello, non poteva più censurare la decisione del G.u.p., ma solo limitarsi a richiedere la rinnovazione parziale del dibattimento, sollecitando i poteri officiosi della Corte.

È pacifico, infatti, che ‘nel processo celebrato con il rito abbreviato, l’imputato rinunzia definitivamente al diritto di assumere prove diverse da quelle già acquisite agli atti o richieste come condizione a cui subordinare il giudizio allo stato degli atti ai sensi dell’art.438 comma 5 c.p.p.. I poteri del giudice di assumere gli elementi necessari ai fini della decisione (art.411 comma 5 c.p.p.), di disporre in appello la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (art.603 comma 3 c.p.p.) sono poteri officiosi, che prescindono dall’iniziativa dell’imputato, non presuppongono una facoltà processuale di quest’ultimo e vanno esercitati solo quando emerga un’assoluta esigenza probatoria’ (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 12853 del 13/02/2003).

È stato ribadito anche successivamente che ‘a seguito della nuova formulazione dell’art. 438 c.p.p., deve ritenersi possibile la richiesta di rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale da parte dell’imputato che abbia subordinato la richiesta di accedere al rito abbreviato ad una specifica integrazione probatoria, mentre chi abbia richiesto il rito abbreviato allo stato degli atti può solo sollecitare il giudice di appello all’esercizio del potere di ufficio di cui all’art.603 comma terzo cod.proc.pen.’ (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 15296 del 2.3.2004; conf. Cass. pen. sez. 4 n. 15573 del 20.12.2005).

La Corte territoriale ha ritenuto di non esercitare tali operi officiosi, potendo il processo essere definito allo stato degli atti.

Pur facendosi riferimento ad una valutazione della attendibilità della persona offesa, dalla complessiva motivazione risulta che la Corte distrettuale, argomentando correttamente ed adeguatamente, ha ritenuto provato in modo inequivocabile, attraverso un approfondito esame delle risultanze processuali, lo stato di inferiorità psicologica della D.M. e la riconoscibilità dello stesso (pag.8 e ss. sent), con conseguente superfluità di una perizia.

2.4.1. È, peraltro, assolutamente pacifico che non sia indispensabile provare le condizioni di ‘inferiorità psichica’ ex art.609 bis o lo stato di ‘infermità o deficienza psichica’ di cui all’art. 643 cod.pen., attraverso un accertamento peritale e che, per altro verso, non occorra che la vittima sia affetta da una patologica psichiatrica.

In tema di violenza sessuale, la richiesta condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto prescinde da fenomeni di patologia mentale, in quanto è sufficiente ad integrarla la circostanza che il soggetto passivo versi in condizioni intellettive e spirituali di minore resistenza all’altrui opera di coazione psicologica o di suggestioni, anche se dovute ad un limitato processo evolutivo mentale e culturale, ma con esclusione di ogni causa propriamente morbosa (Cass. sez. 3 n. 38261 del 20/09/2007).

Tanto che debbono ritenersi rientranti tra le ‘condizioni di inferiorità psichica’, previste dall’art.609 bis, comma 2 n. 1, cod.pen., anche quelle conseguenti all’ingestione di alcoolici o all’assunzione di stupefacenti, poiché anche in tal caso si realizza una situazione di menomazione della vittima che può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali (Cass. sez. 3 n.38059 del 11/07/2013; sez.3 n.1183 del 23/11/2011).

Anche in relazione al reato di circonvenzione di persone incapaci è stato costantemente affermato che l’integrazione della fattispecie criminosa non richiede che il soggetto passivo versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente che esso sia affetto da infermità psichica o deficienza psichica, ovvero da un’alterazione dello stato psichico, che sebbene meno grave dell’incapacità, risulti tuttavia idonea a porlo in uno stato di minorata capacità intellettiva, volitiva ed affettiva che ne affievolisca le capacità critiche (Cass. sez. 2 n. 6971 del 26/01/2011; sez. 2 n.15185 del 25/03/2010).

Sicché integra il requisito dello stato di deficienza psichica della p.o. del delitto di circonvenzione di incapace anche la compromissione della capacità di giudizio dipendente da un disturbo di tipo paranoide (Sez. 2 n.41378 del 14/10/2010).

E, per l’accertamento della deficienza psichica cu si riferisce l’art.643 cod.pen., non occorre certo una indagine psichiatrica, non essendo richiesto uno stato di piena incapacità o di infermità psichica del soggetto passivo (sez. 5, n.2237 del 27/10/1978). Di modo che la prova della condotta induttiva può essere tratta anche da elementi indiziari e prove logiche, avendo riguardo alla natura dell’atto, all’oggettivo pregiudizio da esso derivante e ad ogni altro accadimento connesso al suo compimento (Sez. 2 n.6078 del 09/01/2009).

2.5. Conclusivamente, in ordine alla doglianza sul mancato espletamento di perizia, va rilevato, che, in ogni caso, per prova la cui mancata assunzione può costituire motivo di ricorso per cassazione, deve intendersi solo quella che, confrontata con le ragioni poste a sostegno della decisione, risulti determinante per una diversa conclusione del processo, e non anche quella insuscettibile di incidere sulla formazione del convincimento del giudice, in quanto costituente una diversa prospettazione valutativa della normale dialettica tra differenti tesi processuali’ (Cass. sez. 1 sent. n. 17284 del 15/4/2003). Il vizio di mancata assunzione di una prova decisiva rileva, quindi, ‘quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti decisiva, cioè tale che, se esperita, avrebbe potuto determinare una diversa decisione’ (cfr. Cass. sez. 4, 8/5/2007 n. 27738).

Ma trattandosi dell’espletamento di una perizia, la mancata assunzione non può essere dedotta come vizio della sentenza, stante la tradizionale considerazione della perizia quale mezzo di prova rientrante nel potere discrezionale di disposizione del giudice, come tale estranea al tipico contraddittorio tra le parti in tema di diritto alla prova e giustificata solo in caso di necessità di indagini postulanti specifiche competenze tecniche. (cfr. Cass. sez. 1, 15/12/1997 n. 11538).

La giurisprudenza di questa Corte è quindi concorde nel ritenere che ‘la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 comma primo lett. d) c.p.p., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova ‘neutro’, sottratto alla disponibilità della parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove il citato art. 606, attraverso il richiamo all’art.495 comma secondo c.p.p., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività’ (cfr. Cass. pen. sez. 4 n. 4981 del 5.12.2003; conf. Cass. pen. sez. 4 n. 14130 del 22.1.2007; Cass. pen. Sez. 6 n. 43526 del 3.10.2012).

  1. Quanto alle diverse conclusioni cui sono pervenuti i Giudici di appello in ordine al reato di circonvenzione di persone incapaci (art.643 cod.pen.), è assolutamente pacifico, a partire dalla decisione delle Sezioni Unite n.33748 del 12/07/2005, che la sentenza di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado abbia l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (in tal senso si è espressa la giurisprudenza successiva; cfr. ex multis Cass. sez.2 n.746 dell’11/11/2005; n.6221 del 2006 Rv, 233083). Anche più di recente è stato ribadito che ‘La sentenza di appello, che riforma integralmente la sentenza assolutoria di primo grado, deve confutare specificamente, per non incorrere nel vizio di motivazione, le ragioni poste a sostegno della decisione riformata, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli elementi più rilevanti ivi contenuti anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati.’ (Cass. sez. 5 n.42033 del 17/10/2008).

A rafforzare tale orientamento interpretativo interveniva, in data 5/7/2011, la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Dan/c Moldavia, che riteneva violato l’art. 6 par. 1 della Convenzione quando il processo di appello ribaltasse la sentenza assolutoria in assenza di qualsiasi attività istruttoria e perciò soltanto in base ad una diversa valutazione del materiale probatorio assunto in primo grado.

Tali principi sono stati ribaditi dalla sentenza della Corte Europea, terza sezione, del 5/3/2013 nella causa Manolachi c/ Romania, con la quale è stato evidenziato che ‘la condanna pronunciata nei confronti del ricorrente senza che egli sia stato sentito personalmente dai giudici di appello e di ricorso e in assenza di audizione dei testimoni, quando il ricorrente era stato assolto in primo grado, non soddisfa le esigenze del giusto processo’ e costituisce pertanto violazione dell’art.6 par. 1 della Convenzione.

La giurisprudenza di questa Corte, nel confermare la piena applicabilità nel diritto interno dei principi espressi dalla Corte Europea, ha rilevato che il Giudice di appello deve procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale quando ‘intenda operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado inattendibile ‘ (cfr. Cass. Sez. 6 n.16566 del 26.2.2013). Laddove, invece, il compendio probatorio sia costituito non solo da prove testimoniali, ma anche da prove documentali, audio, video, documentazione sanitaria, documentazione traffico telefonico, registrazioni di conversazioni telefoniche e la Corte di appello non abbia operato una diversa valutazione delle varie testimonianze non occorre procedere a rinnovazione del dibattimento. La Corte Europea ancora infatti la violazione dell’art. 6 par. 1 CEDU al duplice requisito della decisività della prova testimoniale e della rivalutazione di essa da parte della Corte di Appello, in termini di attendibilità, in assenza di nuovo esame dei testimoni dell’accusa per essere la diversa valutazione di attendibilità stata eseguita non direttamente, ma solo sulla base della lettura dei verbali delle dichiarazioni da essi resi (così Cass. pen. sez. 5 n.38085 del 5/7/2012).

3.1. La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi.

Innanzitutto, ha rilevato come le difformi conclusioni cui era pervenuto il primo giudice in ordine al reato di violenza sessuale rispetto al reato di circonvenzione di incapace non fossero corrette, risultando esse smentite non solo dalle dichiarazioni della persona offesa ma da tutte le risultanze acquisite (documentazione medica, dichiarazioni testimoniali), e non potendosi, sul piano metodologico, operare alcuna distinzione tra atti concernenti la sfera sessuale ed atti concernenti la sfera patrimoniale.

La Corte di merito è partita dall’esame approfondito delle condizioni di salute, fisiche e psichiche, su cui aveva avuto facile ‘presa’ la condotta approfittatrice dell’imputato.

Dalla documentazione medica in atti emergeva, invero, che la D.M. si trovava, essendo affetta da una sindrome depressiva ricorrente, in trattamento da circa due anni e che ricorrenti erano i suoi accessi al pronto soccorso.

La situazione della donna era disperata, trovandosi in quel periodo in uno stato di grave prostrazione, con perdita di peso corporeo, ansia, inappetenza, sensazione di mancanza d’aria, tanto da tentare anche il suicidio (pag. 6, 7 sent).

In tale ‘contesto’ si inseriva l’intervento dell’imputato che le era stato indicato dall’ex compagno, M.F. , come la persona in grado di aiutarla. La D.M. , dopo aver fatto ricorso vanamente alla ‘medicina ufficiale’, vedeva un’ancora di salvezza nella pranoterapia praticata dal prevenuto.

La Corte distrettuale da conto dei rilievi difensivi e fornisce una spiegazione logica (lo stato di disperazione e di rifiuto della vita) alle ragioni per cui una ‘persona intellettualmente attrezzata’, come la D.M. , possa accettare di sottoporsi a quelle pratiche (pag. 11).

La donna si era, pur di risolvere i suoi problemi ormai insostenibili, completamente affidata all’A. , il quale non aveva esitato ad approfittare di quella situazione, annullando ogni residua capacità critica della vittima sia in relazione agli atti sessuali che agli atti di disposizione patrimoniale.

In ordine a questi ultimi l’imputato aveva, anzi, fatto leva sulla necessità di aver la disponibilità di denaro per curarsi da una malattia rara; inoltre la p.o. veniva sottoposta a pressioni psicologiche anche dai soggetti che gravitavano intorno all’A. (pag. 12 sent.). La Corte territoriale ha sottolineato, poi, che soltanto ex post la D.M. aveva preso coscienza dell’azione manipolatoria posta in essere in suo danno, ‘mentre durante gli accadimenti, oggetto di contestazione, risulta provato dai fatti che la D.M. credeva e sperava che si trattasse di trattamenti che l’avrebbero fatta guarire e si lasciava persuadere che occorreva manifestare gratitudine attraverso la corresponsione di denaro che effettivamente ha corrisposto…’ (pag. 12).

Sulla base di tali premesse, ha rilevato correttamente la Corte territoriale che non fosse giustificata la distinzione operata dal primo giudice in ordine agli atti di disposizione patrimoniale, emergendo ampiamente dalle risultanze processuali che l’A. aveva approfittato dello stato di vulnerabilità della vittima non solo sotto il profilo dell’aggressione alla sua sfera sessuale, ma anche a quella patrimoniale (pag. 13 sent.).

Lo stato di prostrazione, in cui si trovava in quel momento la D.M. , non le consentiva, infatti, di aver cura dei propri interessi (anche patrimoniali): del resto la sottoposizione a pratiche umilianti per la sua dignità costituisce la dimostrazione più evidente della assenza di capacità critica.

Infine, la Corte territoriale ha evidenziato che gli ulteriori atti di disposizione patrimoniale (pur richiesti) erano stati evitati non tanto per una improvvisa riacquistata capacità di discernimento, ma solo perché la D.M. non era nelle condizioni economiche di farvi fronte; tanto che veniva sottoposta a pressioni perché si rivolgesse alla sorella (pag. 12 sent.).

  1. Al rigetto del ricorso segue la condanna al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute, in questa fase, dalla costituta parte civile, che si liquidano in complessivi Euro 2.340,00 oltre spese generali ed accessori di legge (tenuto conto dell’attività effettivamente svolta).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile, D.M.F. , nel grado, liquidate in complessivi Euro 2.340,00, oltre spese generali ed accessori di legge, da destinarsi a favore dello Stato.