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Attività sportiva e scriminante atipica della accettazione del rischio consentito

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Attività sportiva e scriminante atipica della accettazione del rischio consentito.

La Cassazione torna nuovamente sulla questione relativa alla configurabilità di una scriminante atipica nell’ambito della attività sportiva. Nel definire i confini della stessa, la Suprema Corte chiarisce quali sono i casi in cui tale causa di giustificazione sussiste, e quali, invece, i casi in cui la stessa non può dirsi operante. Nel caso di specie si trattava di un infortunio ai danni di un giocatore avvenuto in un frangente di gioco particolarmente intenso e decisivo, essendo l’incontro calcistico rilevante per quel girone del campionato di eccellenza. I giudici hanno valutato l’atto del soggetto agente come indirizzato ad interrompere l’azione di contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo di impossessarsi del pallone. Tuttavia, invece di colpire il pallone, il giocatore è intervenuto fallosamente sulla gamba del suo avversario, cagionandogli la frattura della tibia sinistra.

È ormai pacifico in giurisprudenza che gli eventi lesivi causati nel corso di attività sportive restino scriminati dall’operare della scriminante atipica della c.d. accettazione del rischio consentito, sempre che le regole del gioco vengano rispettate. Tale scriminante non opera allorquando non sussiste alcun collegamento funzionale tra l’evento lesivo e la competizione sportiva, e la violenza perpetrata risulti non solo sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco, nonché alla natura e alla rilevanza dello stesso, ma anche connotata da una finalità lesiva, la quale si pone come spinta prevalente all’azione. Per converso, osserva la Suprema Corte, deve escludersi l’antigiuridicità del fatto laddove si tratti di un atto posto in essere senza volontà lesiva e nel rispetto del regolamento del gioco, e l’evento di danno sia la conseguenza della natura stessa della attività sportiva, che comporta di per sé un contatto fisico.

Nello svolgimento della attività sportiva non può invocarsi, pertanto, né la scriminante del consenso dell’avente diritto, che non potrebbe giungere fino a giustificare lesioni irreversibili della integrità fisica, né quella dell’esercizio del diritto che non consentirebbe di escludere dall’area del penalmente rilevante tutte quelle condotte, che pur commesse in violazione del regolamento che disciplina la singola attività sportiva, non risultino esuberare dal rischio accettato.

L’esercizio di una disciplina sportiva, che implichi l’uso necessario ovvero eventuale della forza fisica, costituisce, quindi, una attività consentita dall’ordinamento giuridico, a condizione che il rischio sia controbilanciato dalla predisposizione di adeguate misure di prevenzione, nonché dalla imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive. Il perimetro del rischio consentito deve essere allora valutato nel caso concreto, dovendo il giudice verificare la sussistenza della proporzione tra lo stesso e le caratteristiche della competizione sportiva, sempre che le regole del gioco vengano osservate e sempre che lo scopo dell’agente sia solo ed esclusivamente quello di prevalere sul piano sportivo, non già quello di arrecare (volontariamente) una lesione fisica, approfittando della circostanza del gioco.

 

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 26-11-2015) 08-03-2016, n. 9559

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PAVICH Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.B.V. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 4/2012 TRIBUNALE di SASSARI, del 28/02/2013;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 26/11/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GIALANELLA Antonio che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi ai fini penali e annullamento con rinvio al giudice civile;

Udito, per la parte civile, l’Avv. Cimino Giovanni per la p.c. G.A., chiede rigettarsi il ricorso;

Udito il difensore Avv. (Ndr: testo originale non comprensibile) chiede accogliersi il ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

  1. Nel corso di una partita di calcio del campionato, serie “eccellenza”, girone Sardegna, D.B.V., calciatore della squadra dell'(OMISSIS), in un’azione di gioco, al fine d’interrompere l’azione avviata da G.A., calciatore della squadra del Tempio, il quale, attorno al 48 minuto del secondo tempo, impossessatosi del pallone aveva dato vita ad un veloce contropiede della squadra ospitata, spingendo davanti a sè la sfera, con l’intento di guadagnare prestamente l’area di rigore, attingeva, con eccessiva violenza, con un calcio la gamba dell’avversario, causandogli lesioni gravi, consistite nella frattura della tibia sinistra.

Il Giudice di pace di Alghero, con sentenza del 20/1/2010, giudicò l’imputato colpevole del delitto di cui all’art. 590 c.p., commi 1 e 2, condannandolo, oltre alla pena stimata di giustizia, a risarcire il danno in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede, ponendo, inoltre, provvisionale in favore della predetta p.c..

Il Tribunale di Sassari, in funzione di giudice dell’appello, con sentenza del 28/2/2013, precisati i fatti nei termini testuali seguenti: “(…) nel momento in cui il D.B. stava per calciare, il pallone si trovava ancora in prossimità della persona offesa, talchè sia la traiettoria del calcio della gamba destra del prevenuto – piegata all’indietro – nonchè la posizione del suo corpo rendono evidente che il medesimo aveva l’intenzione di colpire il pallone. Tuttavia, nell’attimo in cui il D.B. proiettò la gamba destra in avanti, il G. aveva già allungato il pallone, talchè l’intervento dell’imputato si rivolse in danno dell’avversario”, dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione, confermò le statuizioni civili.

  1. Il D.B. ricorre per cassazione, allegando due motivi di censura.

2.1. Con il primo motivo il ricorrente prospetta violazione di legge:

si criminato dalla causa di giustificazione non codificata che per riferimento alla teoria del rischio consentito e, quindi, il Tribunale avrebbe dovuto prosciogliere l’imputato per effetto della disposizione di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2.

Precisa il ricorrente che la ricorrenza della invocata scriminante era resa palese ed evidente dalle peculiarità del fatto, correttamente riportato nella sentenza d’appello, ma poi illogicamente disatteso dall’epilogo: la scena descritta era quella di una tipica azione di gioco, caratterizzata dall’agonismo tipico degli ultimi minuti di un incontro di calcio; il calcio, sport fisico a violenza eventuale, contempla il contatto fisico; non si era avuta alcuna volontaria aggressione al bene dell’integrità fisica, ma si era trattato di uno sviluppo fisiologico della concitata azione di gioco, sanzionabile solo a norma del regolamento del gioco del calcio, pienamente giustificato dall’importanza della competizione, decisiva per la classifica, in un frangente agonistico di primario rilievo (contropiede allo spirare dell’incontro).

2.2. Con il secondo motivo, denunziante violazione della legge processuale, viene contestata la competenza del giudice di pace, essendosi in presenza di un infortunio sul lavoro, ricadente sotto la giurisdizione del tribunale. Chiarisce il ricorrente essere la L. 23 marzo 1981, n. 91, art. 2 stesso a qualificare come sportivi professionisti coloro che “esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità”. Essendo rimaste pienamente accertate le predette condizioni il giudice penale avrebbe dovuto inquadrare correttamente la svolta attività come professionale, senza che potesse assumere rilievo la circostanza che “il contratto che legava il G. alla propria squadra potesse o meno ritenersi “nullo”, perchè eventualmente contrario a norma regolamentare. La questione assumeva rilievo, precisa infine il ricorrente, perchè il Tribunale di Sassari, quale giudice d’appello, aveva confermato le statuizioni civili.

 

Motivi della decisione

 

  1. Per la pregiudizialità che la caratterizza occorre in primo luogo esaminare la questione di competenza per materia posta con il secondo motivo.

In punto di fatto il processo ha accertato che il ricorrente militava, nell’anno calcistico (OMISSIS), nella Polisportiva (OMISSIS), dalla quale percepiva un compenso di 1.400 Euro al mese, oltre vitto e alloggio.

La materia è regolata da norme primarie e secondarie e, pertanto, erra il ricorrente ad immaginare un potere giudiziario d’inquadramento vincolato al contenuto del negozio giuridico a cui le parti hanno inteso dare vita.

In altri termini, il giudice, verificato che il legislatore ha previsto, ed anzi imposto paradigma e qualificazione formale, l’eventuale diverso volere delle parti è privo di valore.

Al vertice dell’organizzazione del gioco del calcio è posta la Federazione Italiana Gioco Calcio (F.I.G.C.), la quale ha veste giuridica di associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato, nella quale confluiscono le associazioni sportive e le società “che perseguono il fine di praticare il giuoco del calcio”, a sua volta federata al C.O.N.I. (art. 1 dello statuto F.I.G.C.).

L’art. 2 della citata L. n. 91 dispone “Ai fini dell’applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica”.

Gli artt. 28 e 29 delle norme organizzative interne della F.I.G.C. (N.O.I.F.) attribuiscono la qualifica di sportivi professionisti ai calciatori che militano nelle serie A, B e C. Coloro che militano nelle categorie inferiori devono considerarsi sportivi dilettanti.

Non muta la loro natura la circostanza che possano pattuirsi accordi economici annuali, come puntualmente richiama il Tribunale, implicanti anche l’erogazione di una somma annuale, da corrispondersi in dieci rate mensili, d’importo eguale (art. 94ter N.O.I.F.).

Da quanto in sintesi esposto si ricava che il legislatore, facendo uso dell’ampio potere discrezionale che lo contraddistingue, anche attraverso il rimando a discipline operative di secondo livello o assegnando valenza di cogenza a private convenzioni maturate a livello associativo, ha minutamente regolato la disciplina sportiva del gioco del calcio, della quale fa parte integrante e qui non sindacabile, la qualificazione giuridica dell’attività sportiva esercitata dai singoli associati. Non assume, perciò, rilievo la diversa volontà che si possa ricavare dall’autoregolamento di privati interessi: per assioma di legge il calciatore di squadra iscritta al campionato di eccellenza deve ritenersi atleta dilettante.

La censura, pertanto, non può essere accolta.

  1. Il secondo motivo è fondato.

4.1. Al fine di assolvere al compito di un compiuto inquadramento della fattispecie qui al vaglio, sovente oggetto d’interpretazioni contrastanti, nonostante i numerosi approfondimenti in sede dottrinaria e giurisprudenziale, pare opportuno prendere l’abbrivio dalle statuizioni di legittimità rese in sede civile, che hanno il privilegio di operare sul terreno meno turbolento e coinvolgente della responsabilità civile rispetto a quello dell’addebito penale.

La Corte di cassazione, aderendo all’opinione, peraltro più diffusa e convincente, secondo la quale gli eventi lesivi causati nel corso d’incontri sportivi e nel rispetto delle regole del gioco, restano scriminati per l’operare della scriminante atipica dell’accettazione del rischio consentito, ha escluso l’operatività di una tale scriminante, con la conseguente antigiuridicità del fatto, fonte di responsabilità: a) quando si constati assenza di collegamento funzionale tra l’evento lesivo e la competizione sportiva; b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso (a tal ultimo riguardo, un conto è esercitare un agonismo, anche esacerbato, allorquando sia in palio l’esito di una competizione di primario rilievo, altro conto quando l’esito non abbia una tale importanza o, ancor meno, se si tratti di partite amichevoli o, addirittura, di allenamento); c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell’attività.

Per converso, deve escludersi antigiuridicità e, quindi, obbligo di risarcimento: a) ove si tratti di atto posto in essere senza volontà lesiva e nel rispetto del regolamento e l’evento di danno sia la conseguenza della natura stessa dell’attività sportiva, che importa contatto fisico; b) ove, pur in presenza di una violazione della norma regolamentare, debba constatarsi assenza della volontà di ledere l’avversario e il finalismo dell’azione correlato all’attività sportiva (cfr. Cass. Civ., Sez. 3, n. 12012 dell’8/8/2002, Rv. n. 556833).

Che si tratti di attività rischiose consentite a determinate condizioni lo si ricava piuttosto pacificamente dal coinvolgimento delle società sportive, garanti della tutela e della successiva cura delle lesioni riportate dagli atleti, ove necessaria (Sez. 3 Civ., n. 15394 del 13/7/2011, Rv. n. 618886).

4.2. Le riportate conclusioni implicano l’opzione per la causa di giustificazione atipica di cui s’è detto, a cagione della difficoltà d’inquadrare la pur necessaria ragione che esclude l’antigiuridicità degli esiti di danno, derivanti dallo svolgimento di attività sportiva, in una delle fattispecie regolate espressamente dalla legge.

In particolare si è escluso che possa invocarsi la scriminante del consenso dell’avente diritto, il quale non potrebbe giungere fino a giustificare lesioni irreversibili dell’integrità fisica e financo (in alcune discipline) la morte; nonchè quella dell’esercizio del diritto, che non consentirebbe di escludere dall’area della penale responsabilità tutte quelle condotte, che pur commesse in violazione del regolamento che disciplina la singola disciplina sportiva, non risultino esuberare l’area del rischio accettato.

La constatazione che l’esercizio, specie con i caratteri agonistici delle gare di maggior rilievo, di una disciplina sportiva, che implichi l’uso necessario (es. pugilato, lotta, ecc.) o anche solo eventuale (calcio, rugby, pallacanestro, pallanuoto, ecc.) forza fisica, costituisce un’attività rischiosa consentita dall’ordinamento, per plurime ragioni, a condizione che il rischio, appunto, sia controbilanciato da adeguate misure prevenzionali, sia sotto forma di regole precauzionali, che dall’imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti, costituisce un sapere largamente condiviso. Sottolinea la natura di attività a rischio consentito la sentenza di questa Corte, Sez. 4, n. 20595 del 28/4/2010, dep. 1/6/2010, Rv. 247342, la quale alle pagg. 4 e ss., chiarisce come il rischio qui preso in considerazione sia relativo e non assoluto, in quanto posto a fronte di un vantaggio sociale del pari relativo e non assoluto e come il bilanciamento degli interessi contrapposti imponga uno scrupoloso rispetto delle regole cautelari. Con la conseguenza che il rischio accettato non ricomprende le azioni volontarie poste al di fuori dell’azione di gioco (cfr., pure Sez. 5, n. 42114 del 4/7/2011, dep. 16/11/2011, Rv.

251703) o anche solo non finalizzate alla predetta azione e neppure quelle tali da apparire sproporzionate ex ante, in quanto ne sia soggettivamente percepibile la lesività delle stesse.

Restano ovviamente coperte dalla scriminante le attività lesive volontarie in competizioni sportive a violenza necessaria o inevitabile (ad es. il pugilato), salvo il rispetto, in questo caso più che mai scrupoloso, delle regole cautelari essenziali poste a difesa del bene della vita stessa e al fine di impedire sfoghi cruenti intollerabili per l’opinione assolutamente prevalente dei consociati (per restare al pugilato, basti pensare ai colpi vietati – sotto la cintola, sulla nuca con il contendente al tappeto, o dopo che l’arbitro ne ha constato l’incapacità di difendersi).

4.2. Il rischio consentito non è misurabile in astratto. Il perimetro di esso è la risultante di un attento vaglio del caso concreto. Così, si è condivisamente sostenuto, che esso è proporzionale alle caratteristiche e al rilievo della competizione.

Un conto trattarsi di attività sportiva soggetta a scontri fisici abituali, altro conto che gli scontri in parola siano più rari, meno determinanti ed intensi (basti pensare la differenza che corre tra il rugby e la pallacanestro, pur trattandosi sempre di discipline che prevedono il contatto violento).

Un conto è trattarsi di una competizione decisiva per le sorti dell’annata agonistica (si pensi a partite di calcio determinanti per la promozione di categoria o per la vincita dello scudetto di serie A, o, al contrario, importanti per scongiurare la retrocessione), oppure priva di un tale connotato (dalla gara amichevole, all’allenamento, fino a giungere a partite da dopolavoro) – in tal senso, oltre alla già citata sentenza n. 20595, si vedano, Sez. 5, n. 44306 del 4/7/2008, dep. 27/11/2008, Rv. 241687; Sez. 4, n. 2765 del 12/11/1999, dep. 25/2/2000, Rv. n. 217643) -.

Si è, inoltre, specificato che l’area consentita è delimitata dal rispetto delle regole del gioco, la violazione delle quali, peraltro, deve essere valutata in concreto, con riferimento alle condizioni psicologiche dell’agente, il cui comportamento scorretto, travalicante, cioè, quelle regole, può essere la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario, approfittando della circostanza del gioco (Sez., 5, n. 11473 del 20/1/2005, dep. 23/5/2005, Rv. 231534).

4.3. A questo punto, tirando le fila, può giungersi ad una esemplificazione schematica, alla luce della quale confrontare l’azione del calciatore qui al vaglio.

  1. a) Solo nelle discipline a violenza necessaria o indispensabile la scriminante copre azioni dirette a ledere l’incolumità del competitore, salvo, come si è anticipato, il rigoroso rispetto della disciplina cautelare di settore, ivi inclusa la speciale cautela nell’affrontare incontri tra atleti aventi capacità e/o forza fisica impari. In ogni caso, la scriminante non opera se resti accertato che lo scopo dell’agente non era quello di prevalere sul piano sportivo, ma di arrecare, sempre e comunque, una lesione fisica o, addirittura, procurare la morte del contendente.
  2. b) Occorre il rispetto della regola della proporzionalità dell’ardore agonistico al rilievo della vicenda sportiva, pur dovendo trovare mitigazione, un tale limite, nell’inevitabile coinvolgimento psico-fisico procurato dalla contesa sportiva, idoneo ad allentare la capacità di giudizio e d’inibizione dell’agente.
  3. c) L’eventualità che venga violata una delle regole del gioco, costituisce evenienza preventivamente nota ed accettata dai competitori, i quali rimettono alla decisione dell’arbitro la risoluzione dell’antigiuridicità, che non tracima dall’ordinamento sportivo a quello generale.
  4. d) In ogni caso, ove il fatto violento, pur se conforme al regolamento del gioco, sia diretto ad uno scopo estraneo al finalismo dell’azione sportiva o, addirittura, all’azione di gioco, l’esimente non opera.
  5. e) La scriminante non opera ove il fatto, caratterizzato da violenza trasmodante, appaia inidoneo, con giudizio ex ante, a perseguire lo scopo sportivo.
  6. f) La scriminante non opera, infine, ove l’azione violenta, contraria al regolamento, venga commessa nonostante risulti percepibile, ex ante, da parte dell’agente, come prevedibile la lesione dell’integrità fisica del competitore.

4.4. Alla luce dell’esposto, senza necessità di far luogo ad approfondimenti di sorta, il Giudice dell’appello avrebbe dovuto concludere per l’insussistenza dell’antigiuridicità del fatto, per l’operare della scriminante di cui s’è discorso.

Invero, sulla base di quanto emergente dagli atti, riportato in sentenza, l’infortunio maturò in un frangente di gioco particolarmente intenso (gli ultimi minuti dell’incontro), a riguardo d’una azione di gioco decisiva, in un incontro rilevante per quel girone del campionato di eccellenza. L’atto, di poi, era manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo d’impossessarsi regolarmente del pallone.

La condotta del D.B., diretta a colpire il pallone, appare meritevole di censura intranea all’ordinamento sportivo, non già perchè smodatamente violenta (la pienezza agonistica qui era giustificata dal contesto dell’azione, dal momento di essa e dagli interessi in campo), bensì perchè, mal calcolando la tempistica, invece che cogliere il pallone, aveva finito per colpire la gamba dell’avversario, che già aveva allungato la sfera in avanti; ma, certamente, non sconfina dal perimetro coperto dalla scriminante di cui s’è discorso.

Ciò posto, esclusa l’antigiuridicità del fatto s’impone la formula liberatoria di cui in dispositivo, la quale travolge in toto le statuizioni civili.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata poichè il fatto ascritto all’imputato non costituisce reato.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2016