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Condominio: esclusa la proprietà esclusiva della “colonna d’aria” sovrastante il cortile.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Condominio: esclusa la proprietà esclusiva della “colonna d’aria” sovrastante il cortile.

Nell’ambito del condominio rivestono fondamentale importanza le zone comuni ad esso pertinenti e, in particolare, i cortili comuni. Essi sono deputati a fornire aria e luce alle unità abitative che vi prospettano; per tale ragione, lo spazio aereo ad essi sovrastante non può essere occupato dai singoli condomini con costruzioni proprie. Ai sensi dell’art. 840 comma terzo, non è consentito a terzi, anche se comproprietari insieme ad altri, di utilizzare ancorché parzialmente a proprio vantaggio, l’area comune, quando la destinazione naturale di questa ne risulti compromessa”.

La Terza Sezione Civile della Cassazione con queste parole, nella recentissima sentenza n. 5551/2016, torna a pronunciarsi su un tema molto discusso in dottrina e giurisprudenza.

Gli Ermellini vengono, in questa sede, interpellati per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Bologna che condannava due condomini alla rimozione delle canne fumarie che si inserivano in quelle di un altro condomino. La sentenza impugnata, accolta parzialmente dalla Suprema Corte, rendeva noto come la costruzione di cui si chiedeva l’abbattimento era costituita da “un’appendice posteriore di tipo pensile” posta sul lato est del fabbricato, insistente sul cortile comune. A tale costruzione si accedeva dalla contigua porzione di fabbricato, di proprietà della convenuta, mediante ampliamento delle originarie finestre. È evidente che si è in presenza di un vero e proprio corpo di fabbrica aggettante sul cortile comune, realizzato mediante incorporazione di una parte della colonna d’aria sovrastante la relativa area, con conseguente alterazione della normale destinazione del cortile, che è principalmente quella di fornire aria e luce agli immobili circostanti.

Da sempre al centro di ampie dispute, il tema della titolarità della c.d. “colonna d’aria” sembra non aver fine. Invero il proprietario di un fondo è considerato titolare di un diritto reale tendenzialmente più ampio, avendo la proprietà fondiaria un’estensione in linea verticale, in proiezione del sottosuolo e nello spazio sovrastante(la colonna d’aria). Tuttavia questi principi devono fare i conti con la disciplina del condominio che, appare piuttosto caratterizzata da una pluralità di proprietà per lo più orizzontali ben delimitate che rinvengono precisi limiti in proiezione sia nello spazio sottostante sia in quello sovrastante alla singola unità immobiliare. Queste ragioni hanno portato parte della dottrina, in passato, a parlare di rapporti di proprietà superficiarie esclusive rispetto ai singoli piani di cui consta l’edificio (Barbero, Il sistema del diritto privato, Torino, 1993, p.574; Salis, La superficie, in Tratt.dir.civ.it., diretto da Vassalli, Torino, 1958, pp.37 e ss.; Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1962, pp.534 e ss)

In realtà la Suprema Corte oggi non fa altro che ribadire alcuni principi tratti proprio dall’insegnamento dottrinale e giurisprudenziale sull’argomento. Nel caso di specie, disattendendo le conclusioni della Corte d’Appello per cui il manufatto, per le dimensioni minime e marginali del suolo non alterava la destinazione della cosa comune, chiarisce un importante principio di diritto: “la costruzione di manufatti nel cortile comune di un fabbricato condominiale è consentita al singolo condomino, solo se non alteri la normale destinazione di quel bene, non anche quando si traduca in corpi di fabbrica aggettanti, con incorporazione di una parte della colonna d’aria sovrastante ed utilizzazione della stessa a fini esclusivi”.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte cassa la sentenza e rinvia a diversa sezione della Corte d’Appello di Bologna per un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto enunciati.

 

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-03-2016, n. 5551

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. MATERA Lina – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

V.M.A. e V.L., rappr. e dif. dagli avv. CASAROTTO GIANGIORGIO e Fabio Massimo Orlando, elett. dom. presso lo studio del secondo, in Roma, via Carlo Poma n.2, come da procura a margine dell’atto;

– ricorrente –

contro

Emmebi International s.p.a., in persona del l.r.p.t., rappr. e dif. dagli avv. BATTISTELLA MARIO e Francesco Di Giovanni, elett. dom. presso lo studio del secondo in Roma, viale Tevere n.44, come da procura a margine dell’atto;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza App. Venezia 4.2.2014, n. 281/2014 nel proc. RGN 2082/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 27 gennaio 2016 dal Consigliere relatore dott. Massimo Ferro;

uditi gli avvocati G. Casarotto per il ricorrente e A.Spreafico per la controricorrente;

udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Il PROCESSO V.M.A. e V.L. impugnano la sentenza App. Venezia 4.2.2014, n. 281/2014 con cui veniva rigettato il proprio appello avverso la sentenza Trib. Treviso 9.7.2007, n.1356/07 con cui il primo giudice aveva: a) negato fondamento alla domanda di nullità ovvero inefficacia del trasferimento delle quote della società Emmebi International s.r.l. da parte di T.G., P., Gi., S., N. e M. in favore della s.a.s. Giancol II, in pretesa violazione della clausola di prelazione prevista nello statuto di Emmebi International s.r.l. (poi divenuta s.p.a.); b) negato la declaratoria di invalidità dell’assemblea 30.4.2005, nella quale era stata assunta la delibera di approvazione del bilancio del 2004 di Emmebi International s.r.l. con il voto determinante di Giancol II; c) rigettato la domanda subordinata di simulazione e nullità dell’atto costitutivo di Giancol II, nonchè la relativa iscrizione a libro soci e parimenti la invalidità delle predette assemblea e delibera di Emmebi International s.r.l. assunta con il voto di Giancol II. Ritenne la corte d’appello, in primo luogo, che i V. erano legittimati alla impugnazione della delibera assembleare del 30.4.2005 in quanto divenuti soci all’epoca, ma il dedotto motivo di annullamento era infondato, poichè prospettato sull’assunto che l’invalidità derivava dal diritto ad esercitare la prelazione in caso di trasferimento della partecipazione societaria, negozio concluso il 18.2.2000, allorchè la qualità effettiva di soci spettava solo ai fiduciari T.G. e Ga., cui le quote (del 20%) erano state affidate, sulla base di una ritenuta interposizione reale e non fittizia di persona, così interpretato il patto fiduciario fra le parti. Ne la circostanza della partecipazione della Emmebi all’accordo o patto parasociale del 20.11.2001 con cui venivano riconosciuti determinati diritti ai V., in quanto fiducianti dei soci T., poteva condurre, secondo la sentenza, ad un effetto diverso da mere conseguenze risarcitorie ove violato, escludendosi ogni illegittimità dell’iscrizione a libro soci della società conferitaria delle quote. Era infine infondata la domanda di simulazione del contratto sociale di Giancol II che, per quanto non incompatibile anche a tale schema per essere società di persone, comunque aveva operato effettivamente, in coerenza con l’oggetto sociale e dunque gestendo la partecipazione in Emmebi, nemmeno peraltro potendosi invocare, ove gli atti avessero ecceduto rispetto all’oggetto sociale stesso, un profilo di nullità, sussistendo semmai una mera inopponibilità di essi ai terzi di una fede. Escludeva infine la corte d’appello che sulla questione della legittimazione a far valere il diritto di prelazione si fosse formato alcun giudicato in virtù di un passaggio motivazionale della sentenza Trib. Treviso n. 1552 del 2009 resa fra le stesse parti, posto che con essa proprio i V. erano rimasti soccombenti e gli appellati difettavano di interesse al riguardo, nè avevano l’onere di svolgere appello incidentale per richiamare le eccezioni non condivise dal giudice di primo grado, tanto più che le avevano riproposte in sede di difese d’appello.

Il ricorso è strutturato su sei motivi, cui resiste Emmebi International (ora) s.p.a. con controricorso. Le parti hanno depositato memoria.

I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione di legge, quanto agli artt. 2377 e 2469 c.c., e art. 100 c.p.c., avendo trascurato la corte d’appello che fondamento della domanda attorea era l’oggettiva violazione della clausola statutaria in ordine alla prelazione, per mancato rispetto della procedura della denuntiatio ivi prevista con conseguente nullità del trasferimento a Giancol II s.a.s. e carenza della qualità di socia di Emmebi.

Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di nullità di sentenza e procedimento, per avere la corte d’appello deciso il motivo d’impugnazione sulla base di elementi costitutivi difformi da quelli dell’appello, posto che la domanda di invalidità della delibera poggiava sul disconoscimento in capo a Giancol II s.a.s. della qualità di socio, a motivo della violazione della clausola di prelazione statutaria.

Con il terzo motivo si deduce che la carenza di legittimazione al voto di Giancol II s.a.s. era la inefficacia ovvero nullità della cessione delle quote, posto che la loro titolarità sussisteva anche in quel momento in capo ai V., avendo sul punto la sentenza frainteso i principi sulla sostituzione societaria, per la quale il fiducianti conservano la titolarità in via sostanziale dei diritti inerenti alla qualità di socio, valendo in alternativa la regola del mandato di cui all’art. 1705 c.c..

Con il quarto e quinto motivo i ricorrenti sollevano la violazione dell’art. 112 c.p.c., e prospettano l’abuso del diritto ai sensi degli artt. 833 e 1175 c.c., non avendo la sentenza esaminato il profilo dell’exceptio doli, che avrebbe chiarito come le parti dell’atto ricognitivo dell’accordo fiduciario tra i V. e i T. fiduciari avrebbero dovuto permettere ai fiducianti di esercitare i diritti sociali di cui erano sostanziali titolari.

Con il sesto motivo, viene dedotta la nullità della sentenza, con riguardo all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 111 Cost., comma 6, ed il vizio di motivazione, per essere stata resa una pronuncia con motivazione solo apparente o perplessa sulla questione della simulazione della Giancol II s.a.s., non considerando che agli atti ricognitivi del patto fiduciario avevano partecipato anche i T. e non solo la nuova società conferitaria, a comprova del carattere fittizio di tale ultima società.

  1. I primi tre motivi, da trattare congiuntamente per l’evidente connessione, sono infondati, posto che il difetto di legittimazione alle impugnative proposte è stato pronunciato in virtù di un accertato rapporto fiduciario riferito ad interposizione reale della titolarità dominicale della partecipazione e discendente da un negozio che, per il rapporto interno cui dà vita e così regolandone gli aspetti, ha natura meramente obbligatoria (Cass. 10121/2007), disciplinando la qualità di socio spettante ai fiduciari T. e non ai fiducianti V., che non risultavano all’epoca del conferimento delle quote nella Giancol II titolari di diritti sociali e dunque erano privi della pretesa prelazione (altra essendo l’eventuale relazione risarcitoria fra le parti del negozio fiduciario). Nè sul punto appare contraddittoria la mancata valorizzazione della partecipazione della società partecipata e dei suoi soci ad una scrittura ricognitiva del negozio fiduciario, avendo la sentenza così ricostruito gli effetti da esse voluti, accertati siccome propri di una partecipazione in cui i T. erano gli intestatari delle quote ed esercitavano i connessi diritti. La sentenza impugnata ha invero rispettato il principio, cui va data continuità, per cui l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nel caso di interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonchè a ritrasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario (Cass. 13261/1999).
  2. Gli stessi ricorrenti non hanno conseguito alcun accoglimento della propria domanda davanti al tribunale, non apparendo dunque abilitati a giovarsi di alcun accertamento giudiziale intorno alla qui invocata qualità di soci effettivi di Emmebi alla data del contestato conferimento nella società Giancol II, facendo difetto nella statuizione di quel giudice un essenziale contenuto precettivo (che non è stato in ogni caso dimostrato), ed essendosi la pronuncia limitata al rigetto della domanda attorea. Nè dunque sussisteva l’onere per gli attuali controricorrenti, parti totalmente vittoriose in primo grado, di proporre appello incidentale, ben potendo essi limitarsi a riproporre le deduzioni (invero prospettate avanti alla corte d’appello in modo inequivoco quali avversative anche di tale parte della sentenza di primo grado), senza preclusioni conseguenti ad una rinuncia presunta ai sensi dell’art. 346 c.p.c.. Così questa Corte, con indirizzo cui il Collegio intende dare continuità, già ha statuito che la formazione della cosa giudicata per mancata impugnazione su un determinato capo della sentenza investita dal gravame, può verificarsi soltanto con riferimento ai capi della stessa sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di impugnazione, perchè fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi efficacia, come detto, precettiva anche se gli altri vengono meno, mentre, invece, non può verificarsi sulle affermazioni contenute nella sentenza che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata, ove quest’ultima sia oggetto del gravame (Cass. 4363/2009), tanto più che ove non sia stata proposta impugnazione nei confronti di un capo della sentenza e sia stato, invece, impugnato un altro capo strettamente collegato al primo, è da escludere che sul capo non impugnato si possa formare il giudicato interno (Cass. 4934/2010). Così, costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; la suddetta autonomia manca non solo nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verta in tema di valutazione di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo unico della decisione (Cass. 4732/2012).
  3. Il quarto e il quinto motivo non sono fondati. Si osserva che la corte d’appello si è diffusamente soffermata, decisivamente e con un’indagine di fatto riservata al solo predetto giudice, sulla volontà delle parti, mediante una completa ricostruzione della latitudine innanzitutto espressa nelle varie disposizioni contrattuali della controversa clausola di prelazione e che i ricorrenti non hanno indicato quali altre condotte successive alla stipula del contratto di società sarebbero state omesse nella ricerca della comune intenzione delle parti. Si tratta di questione che non può invero essere aggirata, perchè presupposta anche rispetto alla qui dedotta exceptio doli e per essa si condivide l’indirizzo seguito in sentenza per cui il principio di libera trasferibilità delle quote nello stesso statuto, all’art. 7, si atteggiava a criterio guida del regime della relativa circolazione. La salvezza del “diritto di prelazione dei soci”, per quanto incidente sulla riportata ampia latitudine del diritto di disporre delle quote previsto in capo ai soci delle Emmebi, non solo era esplicitamente esclusa in caso di trasferimento interparentale, ma appariva procedimentalizzata anche per le ipotesi di sicura cessione a titolo oneroso, come attestato dagli specifici riferimenti alle nozioni di “prezzo” del “trasferimento”, così permettendo ai giudici veneziani di escludere la ricorrenza della contestata violazione della prelazione convenzionale in caso, come nella fattispecie, di conferimento delle quote, da parte degli altri soci, in una società. La conclusione è convincente, poichè la denuntiatio cui il socio alienante era per statuto obbligato verso la società, al fine di far avvisare gli altri soci, si atteggiava – secondo tale ragionevole ricostruzione – quale congegno sicuramente funzionante solo in caso di sostituzione soggettiva evitabile da parte di questi mediante una controprestazione identica a quella indicata dal socio uscente (rectius, cedente la quota), cioè corrispondendo il medesimo prezzo, a tale elemento centrale logicamente – nell’accertamento della fattispecie esperito dal giudice dovendo riferirsi anche con riguardo a “tutte le altre condizioni e patti” indicati dal socio alienante medesimo. Il conferimento delle quote, da parte degli altri soci e in una società dai medesimi partecipata, che così assumeva la qualità di socio in sostituzione dei conferenti che in tal modo ne liberavano il capitale, non mostra invece nè direttamente di atteggiarsi a violazione del citato limite alla circolazione delle quote (non ricorrendo l’identico elemento di scambio), nè di integrare una delle ipotesi di alienazione onerosa accertata dalla corte d’appello, piuttosto evidenziando un meccanismo negoziale riorganizzativo delle partecipazioni stesse. E d’altronde tale differenza trova una base ordinamentale pure nei regimi delle prelazioni a fonte legale, a comprova di una sua compatibilità razionale anche con la clausola privatistica in esame, laddove si consideri che: il conferimento di un fondo rustico in una società di capitali non implica prelazione e riscatto in favore dell’affittuario, in quanto, configurando un trasferimento privo di controprestazione in denaro e correlato all’acquisto della qualità di socio sulla base di negozio intuitu persone, non è assimilabile ai contratti di scambio di cui alla L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, (Cass. 7039/1992); ancora, il conferimento del fondo rustico in società di capitali, quale atto traslativo diretto ad acquisire lo status di socio in correlazione della quota contestualmente sottoscritta, non implica i diritti di prelazione e riscatto in favore del coltivatore, atteso che la L. n. 590 del 1965, cit. art. 8, comma 2, sull’esclusione dei diritti medesimi nel caso di permuta, va riferito ad ogni ipotesi in cui l’immobile sia trasferito dietro un corrispettivo costituito non da denaro, ma da altro bene determinato ed infungibile (Cass. 8458/1991, 26044/2005); il conferimento nel capitale di una società, per effetto della sottoscrizione di aumento del capitale, della proprietà di un immobile oggetto di dismissione del patrimonio degli enti previdenziali pubblici, dietro la cessione di una partecipazione azionaria in favore del conferente, non è riconducibile alla fattispecie della vendita, quale tipo contrattuale propriamente legittimante la configurazione del diritto di prelazione a vantaggio del titolare del contratto di locazione del medesimo immobile, in relazione alla chiara previsione della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 109, come modificato dalla L. 23 dicembre 1999, n. 488 (Cass. 710/2014); il conferimento nel capitale sociale della proprietà di un immobile già concesso in locazione non fa sorgere in capo al conduttore i diritti di prelazione e di riscatto previsti dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, artt. 38 e 39, poichè il conferimento non equivale ad un “trasferimento a titolo oneroso” ai sensi dell’art. 38, comma 1, della legge citata (Cass. 12230/2012).

Nè vale in contrario, quale principio di contraddizione, opporre la prelazione sui beni culturali di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 60, non solo per la peculiare dimensione pubblicistica che vi governa la facoltà d’acquisto in capo allo Stato e agli enti pubblici, ma proprio per l’espressa indicazione anche del meccanismo determinativo della prestazione dovuta dal prelazionario nei confronti del conferitario il bene in una società, in luogo della prestazione infungibile del conferente: tale norma è dunque di stretta interpretazione e piuttosto pone in risalto che, nella prelazione convenzionale societaria della fattispecie in esame, nessun congegno di funzionamento venne previsto per il conferimento delle quote in una società.

  1. Il sesto motivo è inammissibile. E’ invero denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. s.u. 8053/2014, 8054/2014). Nessuna delle citate circostanze negative sussiste con riguardo alla pronuncia impugnata.

Il ricorso va dunque rigettato, con condanna dei ricorrenti alle spese del procedimento di legittimità, secondo il criterio della soccombenza e come liquidate in dispositivo. Sussistono inoltre i presupposti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso, condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento in favore del controricorrente, liquidando le stesse in Euro 10.200,00, (di cui euro 200 per esborsi), oltre al rimborso forfettario del 15% sui compensi e gli accessori di legge. Si dà atto che sussistono i presupposti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

 

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

 

La Corte di appello di Firenze ha accolto il ricorso proposto da C.G. e, riformata la sentenza del Tribunale di Pistoia, ha riconosciuto il suo diritto all’assegno di assistenza a decorrere dal 1.6.2010 condannando l’Inps al pagamento dei ratei maturati della prestazione con gli accessori dovuti dalle singole scadenze al saldo.

Il giudice del gravame accertata l’esistenza del requisito sanitario ha poi sottolineato che la sussistenza i requisiti socio economici non era mai stata contestata dall’Istituto.

Per la cassazione della sentenza ricorre l’Inps che denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 118 del 1971, art. 13, come modificato dalla L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 35, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

C.G. è rimasto intimato.

Tanto premesso si osserva quanto segue.

La L. n. 118 del 1971, art. 13, nel testo modificato dalla L. n. 247 del 2007 (in vigore dal 1.1.2008) dispone che l’assegno è concesso agli invalidi tra i 18 ed i 65 anni “che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste” e grava l’invalido dell’obbligo di inviare annualmente all’Inps autodichiarazione di non svolgere attività lavorativa obbligandolo altresì a comunicare all’Istituto con tempestività il venir meno di tale condizione.

L’art. 13 citato, nel testo vigente prima delle modifiche introdotte dalla L. n. 247 del 2007 (fino al 31.12.2007), richiedeva di essere incollocati al lavoro e la prestazione era limitata al periodo in cui tale condizione persisteva.

Giurisprudenza costante di questa Corte ha sempre ritenuto che l’incollocamento prima e la non occupazione poi fossero requisiti costitutivi del diritto alla prestazione e che fosse onere dell’invalido allegarne e provarne la sussistenza anche attraverso presunzioni (Cfr. per tutte Cass. n. 17932 del 2015 ed ivi ampi richiami di giurisprudenza).

Nel regime antecedente la legge 247 del 2007, anche l’aver inoltrato una domanda per l’iscrizione nelle liste del c.d. collocamento obbligatorio era sufficiente ad integrare la prova.

L’inoccupazione, poi, apre ad un regime più ampio di prova presuntiva con il limite che la dimostrazione dello stato di non occupazione non può essere data per mezzo di una mera dichiarazione dell’interessato, seppure rilasciata con le formalità previste dalla legge per le autocertificazioni (cfr. Cass. 25800 del 2010 e più recentemente Cass. n. 17932 del 2015 cit.).

Chiariti questi principi e, venendo all’esame della censura formulata, ritiene la Corte che le doglianze sono fondate, così dissentendo dalla relazione depositata.

Diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale l’Istituto aveva contestato che la domanda fosse supportata dal possesso delle condizioni reddituali come emerge dalla memoria di costituzione del 12.9.2011, allegata agli atti e specificatamente richiamata nel ricorso. Orbene solo in appello si sono realizzate le condizioni sanitarie per il riconoscimento della prestazione e, a quel momento, era necessario verificare la sussistenza degli ulteriori requisiti costitutivi del diritto sui quali non si era indagato in primo grado.

In conclusione il ricorso deve essere accolto, la sentenza cassata e rinviata alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, che provvederà a verificare la sussistenza del requisito socio- economico ed alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO R.G.N. 21835/2010 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente – Dott. MATERA Lina – rel. Consigliere – Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere – Dott. FALASCHI Milena – Consigliere – Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere – ha pronunciato la seguente:

SENTENZA sul ricorso 21835/2010 proposto da:

P.P. (OMISSIS), P.A. PGGNIN67B01A558T, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 75, presso lo studio dell’avvocato LACAGNINA MARIO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti – Nonchè da:

M.I.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI CARRACCI 1, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE DI SIMONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GRAZIOSI ANDREA;

– controricorrente e ricorrente incidentale – contro P.P. (OMISSIS), P.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 75, presso lo studio dell’avvocato MARIO LACAGNINA, che li rappresenta e difende per proc. spec. dell’8/1/2016 rep. n.9909;

– controricorrenti al ricorso incidentale – e contro M.F., M.R., M.C.;

– intimati – avverso la sentenza n. 803/2009 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 18/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/01/2016 dal Consigliere Dott. LINA MATERA;

udito l’Avv. La Cagnina Mario difensore dei ricorrenti che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale, ed il rigetto del resto;

udito l’Avv. Graziosi Andrea difensore di M.I.M. che ha chiesto il rigetto del ricorso principale, e l’accoglimento del ricorso incidentale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, l’assorbimento dell’incidentale; sulla notifica del ricorso si rimette alla Corte.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione del 23-10-1991 P.A. e P. P. convenivano dinanzi al Tribunale di Bologna M.I. M., per sentirla condannare alla demolizione di un corpo di fabbrica edificato dal padre della convenuta negli anni 1972-1973 in aderenza al fabbricato condominiale sito in frazione (OMISSIS), in violazione degli artt. 1120 e 1102 c.c..

Nel costituirsi, la convenuta contestava la fondatezza della domanda e chiedeva in via riconvenzionale la condanna degli attori alla rimozione delle canne fumarie, nonchè la divisione del giardino comune, chiedendo che questo rimanesse in comune con gli altri comproprietari Mo.Fe. e Ca..

Interveniva Mo.Fe., aderendo alla domanda di divisione del giardino, mentre rimaneva contumace Mo.Ca., la cui quota in corso di causa veniva acquistata dal fratello Fe..

La causa, interrotta a seguito della morte di Mo.Fe., veniva riassunta nei confronti degli eredi, che non si costituivano.

Con sentenza in data 25-9-2003 il Tribunale adito, nel rilevare che l’opera posta in essere dal padre della convenuta, anche se illegittima, era stata tollerata per oltre 19 anni, rigettava la domanda attrice di rimessione in pristino; accoglieva, invece, la domanda di risarcimento danni, da liquidare in separata sede;

rigettava la domanda riconvenzionale di divisione del giardino, perchè non divisibile, mentre accoglieva quella relativa alle canne fumarie.

Avverso la predetta decisione proponevano appello principale gli attori e appello incidentale M.C., coerede di Mo.

F., e M.I.M..

M.F. e M.R., altri eredi di Mo.

F., rimanevano contumaci.

Con sentenza in data 18-6-2009 la Corte di Appello di Bologna rigettava il gravame principale; in parziale accoglimento dell’appello incidentale, rigettava la domanda attrice e condannava P.A. e P.P. alla rimozione delle canne fumarie che si inserivano nelle canne fumarie di M.I.M.;

compensava interamente tra le parti le spese di doppio grado.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso P. A. e P.P., sulla base di undici motivi.

M.I.M. ha resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale, affidato a due motivi.

I ricorrenti principali hanno resistito al ricorso incidentale con controricorso.

Gli altri intimati M.F., R. e C. non hanno svolto attività difensive.

In prossimità dell’udienza del 13-5-2015 i ricorrenti principali hanno depositato una memoria ex art. 378 c.p.c..

Con ordinanza in data 30-5-2015 il Collegio ha assegnato ai ricorrenti principali termine per la rinotifica del ricorso a M.C..

I ricorrenti hanno provveduto nei termini a tale rinotifica e, in prossimità della nuova udienza, hanno depositato altra memoria, con costituzione di nuovo difensore.

MOTIVI DELLA DECISIONE 1) Con il primo motivo i ricorrenti principali deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia su uno specifico motivo di appello, avente ad oggetto la mancanza di consenso scritto da parte della dante causa e degli attuali ricorrenti, nonchè degli altri comunisti, per la costruzione del manufatto realizzato da M.I.M. o dal suo dante causa, in appoggio al muro perimetrale della costruzione condominiale e con colonne sulla corte comune, in violazione degli artt. 1102 e 1120 c.c., nonchè della normativa sulle distanze.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, in via subordinata, l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo, per avere la Corte di Appello omesso la valutazione dello specifico motivo di appello avente ad oggetto l’assenza di prova scritta del consenso da parte della dante causa e degli attuali ricorrenti alla costruzione del manufatto realizzato da M.I.M. o dal suo dante causa, in appoggio al muro perimetrale della costruzione condominiale e con colonne sulla corte comune, in violazione degli artt. 1102 e 1120 c.c., nonchè della normativa sulle distanze.

Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 1122 c.c., per avere la Corte di Appello ritenuto che un nuovo corpo di fabbrica, in appoggio al muro perimetrale dell’edificio condominiale e con pilastri che occupano la corte comune e la corrispondente colonna d’aria, non integri un’opera vietata ai sensi delle citate norme codicistiche.

Con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto controverso e decisivo, rappresentato dalla portata invasiva del manufatto di cui si discute, con riguardo: a) all’alterazione della destinazione materiale e funzionale della porzione di muro condominiale su cui la contestata appendice è in appoggio e alla trasformazione delle finestre in porte d’accesso al nuovo manufatto;

  1. b) ai problemi che il peso di detto manufatto produce sulla staticità del fabbricato; c) all’occupazione, da parte del suddetto manufatto, della corrispondente porzione della corte comune e della sovrastante colonna d’aria, con conseguente sottrazione e compromissione del pari diritto d’uso da parte degli altri comproprietari.

Con il quinto motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1120 c.c., in relazione all’affermazione secondo cui l’appendice per cui è causa, pur avendo determinato un “turbamento dell’euritmia del fabbricato, non comporta una rilevante alterazione del decoro architettonico dello stesso, compromesso già da altri interventi”.

Il sesto motivo deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine all’affermazione secondo cui l’opera non altera “il decoro architettonico del fabbricato, in considerazione delle condizioni in cui lo stesso si trovava e delle modifiche che erano già state apportate”.

Con il settimo motivo i ricorrenti lamentano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Sostengono che, contrariamente a quanto affermato dal giudice del gravame, gli attori sin dall’atto di citazione avevano lamentato la violazione delle distanze del contestato manufatto rispetto al fabbricato condominiale, e che anche in sede di conclusioni finali (rese all’udienza del 26-5-2005) la difesa di parte attrice ha insistito sulla domanda relativa alla violazione delle distanze.

Con l’ottavo motivo i ricorrenti si dolgono dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine all’accoglimento della domanda riconvenzionale di rimozione delle canne fumarie, avendo la Corte di Appello acriticamente aderito alle argomentazioni svolte dalla controparte, in assenza di riscontri probatori. Deducono che M.I.M. non ha dimostrato di essere proprietaria esclusiva del condotto fumario di cui si discute in base ad un titolo idoneo a superare la presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., ovvero di essere titolare esclusiva del diritto di servitù del medesimo condotto fumario per destinazione di padre di famiglia ai sensi dell’art. 1062 c.c.. Sostengono che, al contrario, dalle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio e dalle deposizioni dei testi Pu.Pa. e Mu.Ro.

emerge, conformemente a quanto sostenuto dalla difesa dei P., l’esistenza dei condotti fumari sin dal momento della costruzione del fabbricato, a servizio dell’intero corpo di fabbrica.

Con il nono motivo viene dedotta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte di Appello accolto il motivo di gravame di controparte relativo alla condanna generica al risarcimento dei danni pronunciata in primo grado a carico della convenuta in base ad un petitum e ad una causa petendi diversi rispetto a quelli posti a fondamento della censure. Il giudice del gravame, infatti, ha affermato che “alcuna domanda di condanna generica era stata avanzata dagli allora appellanti, sì che la decisione in questione appariva ultra penta”; laddove la difesa della M., pur riconoscendo che “nelle conclusioni dell’atto di citazione è contenuta la domanda di risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio”, aveva affermato che “la domanda di condanna generica non può essere limitata all’an senza il consenso del convenuto che si è opposto”.

Con il decimo motivo, proposto in via subordinata rispetto al nono, i ricorrenti denunciano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere la Corte di Appello ritenuto che non fosse stata avanzata domanda di condanna generica, mentre tale domanda era stata formulata dagli attori nell’atto di citazione (“condannare parte convenuta al risarcimento dei danni, anche ex art. 1122 c.c., da liquidarsi in separato giudizio”). Fanno presente che, nel caso in cui la domanda di condanna generica al risarcimento sia stata, sin dall’origine, limitata all’an, il mancato consenso di controparte non è sufficiente a interdire al giudice di pronunciarsi entro tale limite.

Con l’undicesimo e ultimo motivo i ricorrenti principali denunciano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione al rigetto della domanda, proposta in via subordinata dagli attori, volta alla declaratoria dell’acquisizione per accessione della proprietà pro-quota e pro-indiviso anche da parte degli appellanti, ai sensi dell’art. 936 c.p.c., della costruzione eseguita da M. I.. Deducono che il giudice del gravame, nel motivare il rigetto di tale domanda sul rilievo che l’art. 936 c.p.c., vale nei confronti dei terzi, e non dei comproprietari, qual era M.V. al momento della costruzione, ha omesso di valutare l’atto di sanatoria presentato da M.I.M. (v. doc. n. 2, 3, 4), in cui quest’ultima dichiarava di aver eseguito lei stessa la costruzione per cui è causa. E, poichè al tempo della costruzione del contestato manufatto (anni 1972-1973) la convenuta non era ancora comproprietaria de fabbricato di cui si discute, nella specie risulta applicabile il disposto dell’art. 936 c.p.c..

2) Con il primo motivo i ricorrenti incidentali lamentano l’omessa o insufficiente motivazione in ordine alla ritenuta non divisibilità dell’area di terreno comune.

Con il secondo motivo, condizionato all’accoglimento dei motivi di ricorso principale concernenti la statuizione di inammissibilità della domanda di condanna generica, i ricorrenti incidentali denunciano l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha riformato la sentenza di primo grado dichiarando l’inammissibilità della domanda di condanna generica, senza rilevare anche l’infondatezza nel merito di tale domanda per difetto di prova.

3) Il primo motivo di ricorso principale è inammissibile, concludendosi con la formulazione di tre quesiti di diritto non rispondenti ai requisiti richiesti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis al ricorso in esame.

Si osserva, al riguardo, che il motivo di ricorso per cassazione, soggetto al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, deve in ogni caso concludersi con la formulazione di un quesito di diritto idoneo, cioè tale da integrare il punto di congiunzione tra l’enunciazione del principio giuridico generale richiamato e la soluzione del caso specifico, anche quando un “error in procedendo” sia dedotto in rapporto alla affermata violazione dell’art. 112 c.p.c., non essendovi spazio, in base al testo dell’art. 366 bis c.p.c., per ipotizzare una distinzione tra i motivi d’impugnazione associati a vizi di attività a seconda che comportino, o no, la soluzione di questioni interpretative di norme processuali (Cass. 8-5-2013 n. 10758; Cass. 21-2-2011 n. 4146).

Nella specie, i quesiti posti (con i primi due si chiede se sia necessario il consenso scritto rispettivamente dei condomini e dei comunisti per le innovazioni ex art. 1120 c.c., “che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino” e per le modifiche apportate ex art. 1102 c.c., alla cosa comune da parte del partecipante alla comunione, “che ne alterino la destinazione o impediscano agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”; con il terzo si domanda se gli atti compiuti con l’altrui tolleranza possano servire di fondamento alla legittimazione dell’opera costruita da un condomino su porzioni comuni del fabbricato e su corte comune in violazione degli artt. 1102 e 1120 c.c.), involgono questioni di diritto sostanziale e non appaiono, pertanto, pertinenti rispetto al vizio processuale di omessa pronuncia denunciato con il motivo in esame.

4) Anche il secondo motivo è inammissibile.

E invero, premesso che la sentenza impugnata non contiene alcuna statuizione in ordine al motivo di appello con cui si deduceva l’assenza di consenso scritto da parte della dante causa degli appellanti per la costruzione del manufatto realizzato in appoggio al muro perimetrale della costruzione condominiale, si osserva che l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3, o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 – giacchè siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa-, bensì attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” e della violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 27-10-2014 n. 22759;

Cass. 15-5-2013 n. 11801; Cass. 27-1-2006 n. 1755).

E’ vero che le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. Un. 24-7- 2013 n. 17931) hanno affermato che nel giudizio per cassazione – che ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1 – il ricorso deve essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Nondimeno, nella menzionata sentenza è stato precisato che, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia da parte della impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni formulate, non è necessario che faccia espressa menzione della ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (con riferimento all’art. 112 c.p.c.), purchè nel motivo si faccia inequivocabilmente riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione; e che, invece, il motivo va dichiarato inammissibile allorquando, in ordine alla suddetta doglianza, il ricorrente sostenga che la motivazione sia stata omessa o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge.

Nella specie, i ricorrenti si sono limitati a lamentare la carenza di motivazione sul motivo di gravame da essi proposto; tant’è che l’illustrazione del motivo si conclude non già con la formulazione di un quesito di diritto (necessario in caso di denuncia di un vizio in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4), bensì con l’affermazione riassuntiva (corrispondente al “momento di sintesi” richiesto dal citato art. 366 bis c.p.c., in caso di denuncia di vizi ex art. 360 c.p.c., n. 5) secondo cui “l’eccepito vizio di omessa motivazione non consente di individuare le ragioni per le quali il giudice di merito ritenga che l’innovazione de qua non necessiti del consenso scritto…..”.

5) Il terzo e quarto motivo, che per ragioni di connessione possono essere trattati congiuntamente, sono fondati.

Come si legge a pag. 6 della sentenza impugnata, la costruzione di cui gli attori hanno chiesto l’abbattimento è costituita da “un’appendice posteriore di tipo pensile” posta sul lato est del fabbricato. Tale costruzione appoggia sul suolo (cortile comune) verso est, mediante tre pilastri della sezione 35 x 35 cm., mentre dall’altro lato appoggia totalmente sul muro perimetrale posteriore del fabbricato condominiale. Le dimensioni esterne della costruzione in appendice sono di m. 5,40 x 3,34 in proiezione orizzontale e di m.

5,53 in altezza (primo e secondo piano), oltre la falda. A tale costruzione si accede dalla contigua porzione di fabbricato di proprietà della convenuta, mediante ampliamento delle originarie finestre.

Siffatta descrizione rende evidente che si è in presenza di un vero e proprio corpo di fabbrica aggettante sul cortile comune, realizzato mediante incorporazione di una parte della colonna d’aria sovrastante la relativa area, con conseguente alterazione della normale destinazione del cortile, che è principalmente quella di fornire aria e luce agli immobili circostanti.

La Corte di Appello, pur dando atto che il manufatto in esame poggia su tre pilastri che “occupano stabilmente e definitivamente parte della corte comune”, ha disatteso, in considerazione delle “dimensioni assolutamente minime e marginali del suolo su cui sono installati i tre pilastri”, il motivo di gravame principale con cui si sosteneva che l’opera alterava la destinazione della cosa comune, rendendola inservibile all’uso degli altri condomini.

Tali conclusioni si basano su un’incompleta valutazione della fattispecie, non tenendo conto dello spazio aereo sovrastante il cortile comune stabilmente occupato dal manufatto in questione, e si pongono in contrasto con i principi affermati in materia dalla giurisprudenza.

Deve, infatti, rammentarsi che negli edifici in condominio, poichè la funzione dei cortili comuni è quella di fornire aria e luce alle unità abitative che vi prospettano, lo spazio aereo ad essi sovrastante non può essere occupato dai singoli condomini con costruzioni proprie in aggetto, non essendo consentito a terzi, anche se comproprietari insieme ad altri, ai sensi dell’art. 840 c.c., comma 3, l’utilizzazione ancorchè parziale a proprio vantaggio della colonna d’aria sovrastante ad area comune, quando la destinazione naturale di questa ne risulti compromessa (Cass. 27-1-1993 n. 966).

La costruzione di manufatti nel cortile comune di un fabbricato condominiale, pertanto, è consentita al singolo condomino solo se non alteri la normale destinazione di quel bene, non anche quando si traduca in corpi di fabbrica aggettanti, con incorporazione di una parte della colonna d’aria sovrastante ed utilizzazione della stessa a fini esclusivi (Cass. 16-2-2005 n. 3098; nello stesso senso Cass. 134-1991 n. 3942).

S’impone, pertanto, la cassazione della sentenza impugnata nella parte de qua, con conseguente assorbimento degli ulteriori profili di illegittimità dell’opera dedotti con gli stessi motivi, nonchè del quinto, sesto, settimo e undicesimo motivo.

6) L’ottavo motivo, attraverso la formale denuncia di vizi di motivazione, si risolve nella sostanziale richiesta di una valutazione delle emergenze processuali diversa rispetto a quella compiuta dalla Corte di Appello, la quale, con apprezzamento in fatto non sindacabile in questa sede, ha accertato che la proprietà della canna fumaria in capo alla parte appellata emergeva “dalla documentazione prodotta e dagli altri elementi specificamente richiamati dalla sentenza appellata” (v. pag. 13 della sentenza impugnata), ed ha escluso la stessa canna fumaria abbia costituito oggetto di usucapione (v. pag. 15).

Per costante giurisprudenza di questa Corte, peraltro, i vizi di motivazione denunciabili in cassazione non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (tra le tante v. Cass. 14-10-2010 n. 21224; Cass. 5-32007 n. 5066; Cass. 21-4-2006 n. 9368; Cass. 20-4-2006 n. 9234; Cass. 16-2-2006 n. 3436;

Cass. 20-10- 2005 n. 20322). L’onere di adeguatezza della motivazione, inoltre, non comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni delle parti, nè che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da queste svolte. E’, infatti, sufficiente che il giudice esponga, anche in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (tra le tante v. Cass. 2-122014 n. 25509; Cass. 20-11-2009 n. 24542; Cass. 12-1- 2006 n. 407; Cass. 2-8- 2001 n. 10569).

7) Il nono motivo è inammissibile per la inadeguatezza dei due quesiti di diritto posti. Il primo quesito (attinente alla violazione dell’art. 112 c.p.c.), infatti, è formulato in termini generici, non contenendo sufficienti riferimenti alla fattispecie concreta; mentre il secondo appare del tutto inconferente rispetto alla violazione (vizio di omessa pronuncia) denunciata.

8) Il decimo motivo appare, invece, meritevole di accoglimento.

La Corte di Appello ha riformato la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva pronunciato nei confronti dei convenuti la condanna generica al risarcimento dei danni, ritenendo che una siffatta domanda non era stata proposta in primo grado.

Tale affermazione è stata contrastata dai ricorrenti principali, i quali hanno trascritto le conclusioni dell’atto di citazione (reiterate in sede di precisazione delle conclusioni), con cui si chiedeva “condannare parte convenuta al risarcimento dei danni, anche ex art. 1122 c.c., da liquidarsi in separato giudizio”. La lettura dell’atto introduttivo del giudizio conferma la veridicità dell’assunto dei ricorrenti, che peraltro trova conferma a pag. 22 dello stesso controricorso, in cui si dà atto che la domanda di condanna generica era stata effettivamente formulata da parte attrice.

Deve aggiungersi che, trattandosi di domanda di condanna generica proposta sin dall’inizio dall’attrice, non occorreva il consenso della controparte. Con riguardo alle azioni di risarcimento del danno (sia in materia contrattuale che extracontrattuale), infatti, è ammissibile la domanda dell’attore originariamente rivolta unicamente a una condanna generica, senza che sia necessario il consenso (espresso o tacito) del convenuto, costituendo essa espressione del principio di autonoma disponibilità delle forme di tutela offerte dall’ordinamento ed essendo configurabile un interesse giuridicamente rilevante dell’attore a forme di tutela cautelare o speciale (quali l’iscrizione d’ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c. o l’azione risarcitoria in materia di concorrenza sleale di cui all’art. 2600 c.c.) (Cass. Sez. Un. 23-11-1995 n. 12103).

9) Il primo motivo di ricorso incidentale è infondato.

La Corte di Appello ha dato sufficiente contro delle ragioni della ritenuta indivisibilità del giardino comune, richiamando il disposto dell’art. 1119 c.c., a mente del quale “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”, e spiegando che, nella specie, la divisione del giardino comune non rispetterebbe una simile prescrizione.

La decisione impugnata, pertanto, risulta sorretta, sul punto, da una motivazione immune da vizi logici e rispettosa del dettato normativo.

10) Anche il secondo motivo di ricorso incidentale (da esaminare in considerazione dell’accoglimento del decimo motivo di ricorso principale, al quale era condizionato) è privo di fondamento, essendo evidente che il rilievo della inammissibilità della domanda di condanna generica precludeva al giudice di appello il suo esame di merito.

11) In definitiva, devono essere accolti il terzo, quarto e decimo motivo di ricorso principale; il quinto, sesto, settimo e undicesimo motivo dello stesso ricorso rimangono assorbiti, mentre vanno rigettati gli altri motivi di ricorso principale e il ricorso incidentale.

La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna, la quale procederà a nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto innanzi enunciati. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M. La Corte accoglie il terzo, quarto e decimo motivo di ricorso principale; dichiara assorbiti il quinto, sesto, settimo e undicesimo; rigetta gli altri motivi di ricorso principale e il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 19 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Emilia Amodeo
Laureata in giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II nel 2010, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale di Napoli fino al 2012. Nel 2013 ha conseguito a pieni voti l’esame di Avvocato. Ha frequentato diverse scuole di preparazione al concorso in magistratura e, pur non avendo mai abbandonato gli studi, attualmente collabora con uno studio professionale di commercialisti e consulenti del lavoro in Napoli. Lo scorso anno, inoltre, ha conseguito con buoni risultati il certificato IELTS presso il British Coucil-Napoli.