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La Cassazione fa chiarezza sull’invocabilità della legittima difesa putativa.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

La Cassazione fa chiarezza sull’invocabilità della legittima difesa putativa.

La vicenda complessa, da cui prende le mosse l’analisi della Suprema Corte, tratta di un omicidio avvenuto nel tentativo di sventare un’aggressione ai danni della madre della vittima.

Prendendo spunto dal caso concreto, la Suprema Corte, con un breve, ma lapidario, ragionamento sul punto, ha fugato qualsiasi dubbio circa l’applicabilità, al caso di specie, della legittima difesa, anche nella sua forma putativa, ribadendo quelli che sono gli indici fattuali per cui possa essere invocata tale circostanza.

Anzitutto, viene data la definizione di legittima difesa in senso stretto, consistente in una reazione giusta, ad un’aggressione ingiusta; una necessità di difendersi, dunque, da un’azione che, se non arrestata tempestivamente arreca danno ad un diritto, personale o patrimoniale, tutelato dalla legge.

Per ciò che, invece, riguarda la legittima difesa putativa, postulati i medesimi presupposti, questa si discosta, da quella poc’anzi illustrata, poiché la situazione di pericolo non esiste obiettivamente, ma è supposta dall’agente attraverso una erronea interpretazione dei fatti.

Tale errore, che ha efficacia esimente se è scusabile e comporta responsabilità di cui all’art. 59 u.c. c.p., quando sia determinato da colpa, deve essere giustificato da qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato, o compreso, abbia comportato la percezione, nello stesso agente, di versare in imminente e grave pericolo, a seguito di una offesa ingiusta.

La legittima difesa putativa, dunque, non dovrà fare riferimento ad elementi soggettivi per poter essere invocata, ma, bensì, ad elementi oggettivi, a nulla rilevare, infatti, ciò che internamente ha temuto il soggetto agente, se tale circostanza non trova riscontro in dati fattuali che, sebbene di per sé inoffensivi, abbiano potuto indurlo in una erronea valutazione dello stato di pericolo in cui versava.

 Cass. pen. Sez. I, Sent., n. 17121 del 26-04-2016,

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORTESE Arturo – Presidente –

Dott. CASSANO Margherita – rel. Consigliere –

Dott. LA POSTA Lucia – Consigliere –

Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio – Consigliere –

Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.G., N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 2/2014 CORTE ASSISE APPELLO di TORINO del 17/10/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/01/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARGHERITA CASSANO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. F. Marinelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Uditi, per le parti civili l’Avv. R. Cannone, per D.G. P., G. Sorbo per D.G. A., F. Violante per M. C. che hanno tutti chiesto il rigetto del ricorso;

Uditi i difensori Avv. M. (Ndr: testo originale non comprensibile) e M. Borio che hanno entrambi chiesto l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Il 17 ottobre 2014 la Corte d’assise d’appello di Torino confermava la sentenza emessa, il 4 aprile 2013, dalla locale Corte d’assise che aveva dichiarato A.G. colpevole dei delitti di omicidio volontario (capo a), porto senza giustificato motivo fuori della propria abitazione di un’arma da punta e da taglio (capo b), induzione e sfruttamento aggravato della prostituzione (capo c), maltrattamenti (capo d), violenza sessuale (capo e) e, ritenuta la continuazione fra i reati, lo aveva condannato alla pena di trenta anni di reclusione, oltre alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena, dell’interdizione dall’esercizio della tutela e della curatela per la durata di venti anni, oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
  2. Da entrambe le sentenze di merito emergeva la seguente ricostruzione dei fatti in ordine al delitto di omicidio volontario.

Il (OMISSIS), M.C., convivente da oltre dieci anni di A., decideva di lasciare il compagno che da lungo tempo la sottoponeva a sistematici maltrattamenti fisici e morali e la costringeva a prostituirsi per mantenerlo. Trovava momentanea ospitalità presso l’ex marito dal quale aveva avuto due figli, D. G.A. e M..

Il pomeriggio del giorno seguente D.G.M., tornando a casa dopo una partita di pallone, incontrava A. che gli intimava di riferire alla madre di accendere il telefono cellulare.

La sera di quello stesso giorno l’imputato si recava a casa D. G. in un momento in cui la M. si trovava sola e, dopo avere minacciato di buttare giù il portone qualora la donna non avesse aperto, tentava di convincerla a tornare con lui sia mediante atti di violenza che mediante la prospettazione, in caso contrario, di gravi conseguenze per l’incolumità fisica di D.G.M.. A seguito della decisa opposizione della M., l’imputato fingeva di allontanarsi, dopo essersi fatto, peraltro, consegnare dalla donna la dentiera, assumendo di averla pagato. In realtà, non tollerando il rifiuto della M., che considerava un oggetto di sua proprietà, decideva di introdursi fraudolentemente in casa D.G.. A tale scopo, prelevava dalla sua abitazione una scala estensibile, avendo scoperto, in occasione di precedenti sopralluoghi, che era possibile salire agevolmente al primo piano dello stabile (ove si trovava appunto l’appartamento D.G.) passando dal cortile, grazie ai facili appigli forniti dai balconi. Scavalcato il cancello carraio, posto sul retro del condominio, si introduceva all’interno del cortile condominiale in attesa del momento migliore per fare irruzione nell’appartamento.

D.G.M. lo avvistava e, dopo avere allertato il fratello A., scendeva in cortile con lui per cercarlo. L’imputato cercava di nascondersi sotto un balcone del piano rialzato, tant’è che, durante un primo giro di perlustrazione, i due giovani non lo trovavano. Durante un secondo giro, D.G.A. scovava A. che scagliava contro di lui un oggetto acuminato. D. G.A., temendo di essere ferito, gli sferrava un colpo in testa con una mazza da baseball e, con un calcio, cercava di fargli uno sgambetto. Nell’atto di compiere tale mossa, peraltro, perdeva l’equilibrio e l’imputato ne approfittava per nascondersi dentro lo stabile, passando dalla porta posteriore del cortile che era rimasta aperta. Lì, poco dopo, lo raggiungeva D.G.A. che vedeva A. davanti alla porta esterna dello stabile e il fratello M. fermo al centro dell’androne, con una mano sul petto, apparentemente incapace di reagire nonostante l’incitamento a bloccare l’imputato. D.G.A., raggiunto A., gli sferrava un altro colpo alla testa con la mazza da baseball che si spezzava in due parti e, quindi, si dava al suo inseguimento insieme con il fratello M. che, però, dopo poco si accasciava al suolo all’altezza tra via (OMISSIS) e via (OMISSIS).

Soccorso, D.G.M. moriva poco dopo in ospedale in conseguenza dello shock emorragico provocato da una ferita penetrante al torace con lacerazione pericardica, perforazione cardiaca, emopericardio ed emotorace sinistro massivo.

Dagli accertamenti medico legali e dalle deposizioni testimoniali dei consulenti emergeva che la presenza di una sola lesione cardiaca penetrante, associata a due lacerazioni pericardiche, era ragionevolmente spiegabile con una parziale estrazione dello strumento lesivo ed un successivo ed immediato riaffondamento. In queste due fasi si produceva, da un lato, la penetrazione del cuore e, dall’altro, la seconda perforazione cardiaca e la lesione polmonare. Dai medesimi atti risultava che la direzione del tramite era orientata dall’avanti all’indietro e dal basso verso l’alto e aveva una lunghezza di circa 14-15

centimetri. La ferita toracica penetrante, con lacerazione pericardica e perforazione cardiaca, aveva determinato un notevolissimo versamento di sangue all’interno del cavo pleurico sinistro.

La lesione, di estrema gravità, era di dimensioni ridotte e, in una prima fase, il sanguinamento era stato ridotto e il deflusso era avvenuto nelle cavità interne, come comprovato dal rinvenimento di circa tre litri di sangue nella cavità toracica.

La seconda ferita al fianco sinistro aveva interessato solo i tessuti cutanei e sottocutanei del tessuto adiposo senza raggiungere il sottostante piano muscolare della parete addominale, presentava un infiltrato di sangue per un tratto di circa dieci centimetri ed un’analoga direzione dall’avanti all’indietro e da basso verso l’alto.

L’arma utilizzata veniva individuata in un oggetto di forma allungata e dotato di un’estremità piuttosto acuminata.

Per ammissione stessa dell’imputato le ferite erano state da lui cagionate da lui mentre fronteggiava D.G.M., trovato al momento dell’acceso nell’androne condominiale attraverso la porta del cortile.

I giudici spiegavano il rinvenimento delle tracce di sangue non sul pianerottolo ove era avvenuta l’aggressione, bensì sui gradini, con le caratteristiche della prima ferita che impediva l’immediata fuoriuscita del materiale ematico.

Il dolo omicidiario era ritenuto dimostrato dalle caratteristiche dei primi due colpi consecutivi inferti nella zona pericardica con parziale estrazione dell’arma e successivo riaffondamento, gesto considerato dimostrato della volontà pervicace di provocare una lesione mortale e non un semplice ferimento.

La legittima difesa, anche nella forma putativa, veniva esclusa dai giudici di merito che sottolineavano l’assenza di un pericolo attuale per l’incolumità di A., unica persona ad essere armata.

I restanti reati di maltrattamenti, induzione e sfruttamento della prostituzione, violenza sessuale venivano ritenuti provati sulla base della deposizione di M.C., ritenuta intrinsecamente attendibile e avvalorata dalle altre testimonianze ( D. M., M.A., W.R.) e dai certificati medici acquisiti.

L’attenuante della provocazione, invocata dalla difesa, veniva esclusa in base alla sproporzione tra offesa e reazione, indicativa del fatto che la condotta criminosa aveva avuto come fattore endogeno scatenante una causale non ricollegabile con nesso di causalità con la condotta della vittima.

  1. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, l’imputato il quale, anche mediante motivi nuovi, formula le seguenti censure.

Deduce violazione dell’art. 603 c.p.p., in relazione alla mancata riapertura dell’istruttoria dibattimentale ai fini dell’acquisizione della documentazione sulla detenzione di A., sulla sua condanna per il reato di cui all’art. 635 c.p.p., rilevante ai fini del giudizio di attendibilità della parte offesa.

Lamenta erronea interpretazione della legge penale, mancanza e illogicità della motivazione in relazione all’esclusione della legittima difesa, anche nella forma putativa, considerato che: a) l’imputato si dette alla fuga sin dalla sua scoperta da parte di D. G.A.; b) quest’ultimo ebbe a colpire l’imputato con la mazza da baseball, strumento potenzialmente letale, alla testa in prossimità del portoncino di uscita; c) i colpi furono sferrati con una forza tale da cagionare la rottura della mazza e furono numerosi, come dimostrato dalle lesioni subite dal ricorrente; d) non vennero rilevate tracce di sangue in prossimità dell’asserito luogo di ferimento di D.G.M. (pianerottolo); e) non sussiste alcuna obiettiva evidenza scientifica circa le cause del mancato gocciolamento immediato e della non repentina perdita di coscienza.

Denuncia erronea applicazione della legge penale con riguardo al mancato riconoscimento dell’attenuante della provocazione, avuto riguardo ai colpi inferti all’imputato da parte di D.G.A., munito di una mazza da baseball e al conseguente stato d’ira di A..

Eccepisce violazione dei canoni di valutazione probatoria, essendo stata l’affermazione di penale responsabilità per i reati di maltrattanti, induzione e sfruttamento della prostituzione, violenza sessuale basati sul solo racconto della parte offesa, intrinsecamente inattendibile, non confortato oggettivamente da altri autonome deposizioni e reso da una persona che avrebbe dovuto essere sentita nelle forme di cui all’art. 210 c.p.p. alla luce delle dichiarazioni auto indizianti rese sui reati in materia di stupefacenti.

Da ultimo deduce violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche e al complessivo trattamento sanzionatorio, tenuto conto del complessivo contesto di svolgimento dei fatti, del dolo d’impeto che animò l’imputato, della concreta irrilevanza della recidiva.

Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato.

1.Circa la dedotta violazione dell’art. 603 c.p.p. avente carattere logicamente preliminare rispetto alle altre censure, il Collego osserva quanto segue.

Con riferimento al parametro della “non decidibilità allo stato degli atti”, l’art. 603 c.p.p. reca diversità di previsione, a seconda che si tratti di prove preesistenti o concomitanti al giudizio di primo grado, emerse in un diverso contesto temporale o fenomenico, ovvero di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio.

Nel primo caso, il giudice d’appello deve disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale solo se, in base alla sua valutazione discrezionale, ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, perchè i dati probatori già acquisiti sono incerti ovvero quando l’incombente richiesto riveste carattere di decisività, potendo eliminare le eventuali incertezze oppure sia di per sè oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sez. 3, n. 3348 del 13 novembre 2003; Sez. 5, n. 1075 dell’1 febbraio 2000; Sez. 2, n. 8106 del 7 luglio 2000, n. 08106; Sez. 5, n. 8891 dell’8 agosto 2000).

L’art. 603 c.p.p., comma 2, invece, attribuisce al giudice di seconde cure il potere di disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nei limiti previsti dall’art. 495 c.p.p., comma 1, norma che, a sua volta, richiama l’art. 190 c.p.p., comma 1, e art. 190 bis c.p.p., relativi, rispettivamente, al diritto alla prova e ai requisiti della prova nel procedimento per taluno dei delitti indicati nell’art. 51 c.p.p., comma 3-bis. In conseguenza di tale doppio richiamo deve ritenersi che, nel caso regolato dall’art. 603 c.p.p., comma 2, il giudice, in presenza di istanza di parte e dei presupposti richiesti dalla norma, sia tenuto a disporre la rinnovazione del dibattimento (Sez. 6, n. del 10 dicembre 2003, rv.

228462) con il solo limite costituito dalle ipotesi di richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti, in sostanza escludendo le prove del tutto incongruenti rispetto al thema decidendum e quelle che mirano a provare un fatto del tutto pacifico ed incontrovertibile.

Nel caso in esame la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, il tessuto argomentativo della sentenza impugnata evidenzia diffusamente le ragioni della superfluità delle richieste acquisizioni alla luce dell’attendibilità della parte offesa, della intrinseca coerenza del suo racconto confortato dalle testimonianze di D. M., M.A., W.R., dai certificati medici, della piena utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla M. nei confronti di A..

  1. Con riferimento alle censure riguardanti la ritenuta sussistenza del dolo omicidiario il Collegio osserva che la prova del dolo di omicidio (o di tentato omicidio) deve essere desunta attraverso un procedimento inferenziale, analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario, da fatti esterni e certi, aventi un

sicuro valore sintomatico, che, con l’ausilio di appropriate massime di esperienza, consentano di inferire l’esistenza del dolo.

Pertanto, per stabilire se il colpevole abbia effettivamente voluto la morte del soggetto passivo, è necessario affidarsi ad una serie di regole di esperienza, la conformità alle quali – quando non sussistano circostanze di fatto che lascino ragionevolmente supporre che le cose sono andate diversamente da come vanno le cose materiali ed umane – è sufficiente per dimostrare l’animus necandi.

La valutazione circa l’esistenza o meno dell’animus necandi – che rifiuta ogni presunzione che, oltre a contrastare con al personalità della responsabilità penale, non si concilierebbe con l’essenza del dolo – costituisce il risultato di un’indagine di fatto, rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, a base della quale può essere posto qualsiasi dato probatorio acquisito al processo, che appaia rilevante per tale profilo. In mancanza di attendibile confessione, la prova del dolo omicida è normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell’azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi, nonchè tutti quei dati che, secondo l’id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, laddove ha valorizzato, con motivazione compiuta e logica, quali elementi sintomatici della volontà omicidiaria: a) un oggetto di forma allungata e dotato di un’estremità piuttosto acuminata, quali i mezzi puntuti atipici; b) le modalità di reiterata utilizzazione dell’arma contro D.G.M., raggiunto in regione para-xifoidea sinistra da un primo colpo che penetrava nel sacco pericardico, lacerandone la parete anteriore, perforava la parete del ventricolo sinistro del cuore, attraversava la base del pericardio e giungeva a lacerare superficialmente anche il lobo inferiore del polmone sinistro, nonchè da un secondo colpo al fianco sinistro; c) la breve distanza esistente tra aggressore e vittima in tutte le fasi della vicenda; d) le parti vitali del corpo di D. G.M. interessate dall’azione; e) il tramite dei due colpi, quale emergente dagli accertamenti medico-legali.

Sulla base di questi elementi di fatto i giudici di merito, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, hanno ritenuto integrati gli elementi costitutivi del contestato delitto di omicidio volontario, tenuto conto delle complessive modalità dell’azione consistita nello sferrare consecutivamente due colpi, nella parziale estrazione dell’arma con immediato successivo riaffondamento, gersto indicativo della pervicace volontà di provocare la morte e non il semplice ferimento di D.G.M..

  1. Non fondate sono anche le doglianze in tema di legittima difesa.

I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un’aggressione ingiusta e da una reazione legittima: mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata

tempestivamente, sfocia nella lesione di un diritto (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa.

La legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di quella reale con la sola differenza che, nella prima, la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente, ma è supposta dall’agente a causa di un erroneo apprezzamento dei fatti. Tale errore – che ha efficacia esimente se è scusabile e comporta responsabilità di cui all’art. 59 c.p., u.c., quando sia determinato da colpa – deve in entrambe le ipotesi trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sicchè la legittima difesa putativa non può valutarsi alla luce di un criterio esclusivamente soggettivo e desumersi, quindi, dal solo stato d’animo dell’agente, dal solo timore o dal solo errore, dovendo, invece, essere considerata anche la situazione obiettiva che abbia determinato l’errore. Essa, pertanto, può configurarsi se e in quanto l’erronea opinione della necessità di difendersi sia fondata su dati di fatto concreti, di per sè inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare, nell’animo dell’agente, la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo, persuasione che peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze oggettive in cui l’azione della difesa venga a estrinsecarsi.

Alla luce di questi principi, nel caso in esame, correttamente la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza della legittima difesa, anche nella forma putativa, evidenziando che non sussisteva nessun pericolo attuale per A., attesa l’assenza di armi in disponibilità di D.G.M. e l’assenza di concreti elementi obiettivi idonei a giustificare nell’animo dell’agente la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo.

Le censure difensive su questi punti sono volte a prospettare una non consentita rilettura del fatto a fronte di un solido impianto argomentativo che, con spiegazione razionalmente fondata sugli accertamenti medico-legali, sui rilievi tecnici e fotografici, sulle dichiarazioni del dott. B., sulla deposizione di D.G. A., motivatamente ritenuta attendibile e genuina, nonchè delle stesse dichiarazioni dell’imputato ha ricostruito la complessiva dinamica dell’accaduto, ha spiegato le ragioni per le quali è da escludere che alla colluttazione avvenuta tra D.G.A. e il ricorrente abbia partecipato anche D.G.M., ha confutato i rilievi difensivi circa il luogo dell’aggressione, ha diffusamente illustrato le ragioni per le quali D.G.M. ha inizialmente mantenuto le funzioni vitali, ha subito nella cavità interna un vastissimo sanguinamento toracico pari a circa tre litri e ha avuto, invece, un ridotto sanguinamento esterno.

4.Anche le censure riguardanti il mancato riconoscimento della provocazione non sono meritevoli di accoglimento.

Ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono: a) lo “stato d’ira”, costituito da una situazione psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile, che determina la perdita dei poteri di autocontrollo, generando un forte turbamento connotato da impulsi aggressivi; b) il “fatto ingiusto altrui”, costituito non solo da un comportamento antigiuridico in senso stretto, ma anche dall’inosservanza di norme sociali o di costume regolanti l’ordinaria, civile convivenza, per cui possono rientrarvi, oltre ai comportamenti sprezzanti o costituenti manifestazione di iattanza, anche quelli sconvenienti o, nelle particolari circostanze, inappropriati; c) un rapporto di causalità psicologica tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse (Cass., Sez. 1, 8 aprile 2008, n. 16790, rv. 240282).

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, laddove, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha escluso, sulla base dell’intera dinamica del fatto, in precedenza descritta, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della provocazione in assenza di elementi obiettivi da cui inferire che la condotta criminosa posta in essere dal ricorrente avesse avuto come fattore endogeno scatenante una causale riconducibile sotto il profilo eziologico al comportamento della vittima.

5.Anche le censure riguardanti i delitti di maltrattamenti, induzione e sfruttamento della prostituzione, violenza sessuale non sono meritevoli di accoglimento.

Il ricorrente, pur denunziando formalmente una violazione di legge in riferimento ai principi di valutazione della prova di cui all’art. 192 c.p.p., comma 2, non critica in realtà la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, bensì, postulando un preteso travisamento del fatto, chiede la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito. Tale riesame del discorso giustificativo della decisione è, invece, inammissibile in sede d’indagine di legittimità, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia – come nella specie – una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del quadro probatorio (dichiarazioni della parte offesa ritenute motivatamente credibili, intrinsecamente coerenti, pienamente utilizzabili attesa la mancanza di qualsiasi forma di connessione ex art. 12 c.p.p. o di connessione probatoria tra i reati in materia di stupefacenti oggetto del narrato della M., e i delitti ascritti all’imputato;

testimonianze di D.M., M.A., W.R., certificati medici in atti sulle lesioni subite dalla parte offesa), indicative univocamente della coscienza e volontà del ricorrente di vessare in maniera sistematica la M., di sfruttarne l’attività di prostituzione, di abusare sessualmente di lei grazie ad un atteggiamento prevaricatore e violento improntato alla strumentalizzazione della donna, ridotta a mero strumento di soddisfazione.

  1. Non fondato è anche l’ultimo motivo di ricorso, avendo i giudici di merito fatto corretta applicazione dei principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di trattamento sanzionatorio.

Ai fini del diniego delle circostanze generiche e della dosimetria della pena, la Corte territoriale, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, ha richiamato le gravi modalità di commissione dei reati, l’efferatezza dei comportamenti illeciti, il particolare disvalore sociale delle condotte realizzate, l’intensità del dolo sotteso alle stesse, il negativo comportamento tenuto dall’imputato anche in epoca successiva ai fatti.

  1. Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute in questo giudizio dalle parti civili D.G.P., D.G.A., M.C. che devono essere liquidate per ciascuna di esse in Euro 2.691 (duemilaseicentonovantuno), oltre accessori di legge, tenuto conto dell’impegno professionale, della natura e complessità del processo, delle tariffe professionali (Sez. U. n. del 40288 del 14 luglio 2011).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute in questo giudizio dalle parti civili D.G.P., D.G.A., M.C. che liquida per ciascuna di esse in Euro 2.691 (duemilaseicentonovantuno), oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 7 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2016