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La cassazione si confronta con la “step- child adoption”.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

La cassazione si confronta con la “step- child adoption”.

Merita approfondimento una recentissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione (numero 12962 del 26 maggio 2016, depositata il 22 giugno 2016), nella quale è stata affrontata la questione – tanto dibattuta in dottrina come nella pubblica opinione – sull’adottabilità del minore da parte del genitore “sociale” all’interno delle famiglie omogenitoriali. Si tratta della c.d. “step-child adoption” ovvero della possibilità per le coppie dello stesso sesso di adottare il minore del compagno/a.

Detta possibilità era contemplata nella bozza di legge sulle unioni civili (c.d. Legge Cirinnà), poi, laddove all’art. 5 era prevista la possibilità dell’adozione del “figliastro” anche alle coppie dello stesso sesso (same sex).

Tuttavia, nel testo finale detta previsione è stata espulsa e nella legge entrata in vigore il 5 giugno 2016, non vi è più traccia della possibilità, avendo il legislatore rinviato ad ulteriori approfondimenti la soluzione di un caso che interessa ampi rami dell’ordinamento.

È utile ricordare che già a partire dall’anno 2010, con la prima sentenza della Corte Costituzionale n. 138, vi è stata una prima apertura della giurisprudenza, in caso di matrimonio delle persone dello stesso sesso, al recepimento dei principi espressi dalla Corte di Strasburgo, la quale, in alcuni casi, ha reso effettiva la tutela dei diritti delle coppie same sex in ossequio alle mutate esigenze della realtà fattuale.

Tuttavia, come detto, con la legge Cirinnà, è stato consacrato il diritto all’unione civile di persone dello stesso sesso, ma non si è intervenuti sull’adozione.

La questione giuridica di cui si è occupata la Suprema Corte consisteva nello stabilire se, nell’ambito di un rapporto di convivenza di coppia, la domanda proposta da uno dei due partner per l’adozione del figlio dell’altro, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184/1983, determinasse ex se un conflitto di interessi, anche solo potenziale, tra il minore e, in questo caso, la madre legale. Nel ricostruire il quadro normativo italiano, alla luce anche delle fonti internazionali (in primis, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 e la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996), la Corte ha evidenziato che nei casi di conflitto, soltanto potenziale, spetta al giudice di merito il potere-dovere di verificare in concreto la situazione di incompatibilità di interessi del genitore-rappresentante legale e del minore e che, nel caso di specie, deve ritenersi infondata.

La Corte ha ritenuto inesistente, seppur configurabile in astratto come evidenziato dalla Procura Generale, un conflitto di interessi fra il minore e il proprio genitore biologico. In particolare, ha escluso che nel procedimento di adozione in casi particolari, avente come ratio il riconoscimento giuridico-previo accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore- a relazioni affettive e continuative e di natura stabile instaurate con il minore e caratterizzate dall’adempimento di doveri di cura, educazione e assistenza analoghi a quelli genitoriali, possa ravvisarsi una situazione di conflitto d’interessi in re ipsa.

Nel caso de quo il giudice di merito aveva espressamente trattato la questione, escludendo la necessità della nomina di un curatore speciale, accertando, in concreto, l’assenza di incompatibilità di interessi sottoposti a tutela.

Nella seconda parte del provvedimento in commento il Collegio affronta la questione dell’interpretazione dell’art. 44, comma 1, lettera d), affermando che «la constatata impossibilità di affidamento preadottivo» deve essere intesa come impossibilità anche giuridica, e non solo di fatto. Infatti, l’esistenza della madre biologica, partecipe all’attiva nell’accudimento della minore, rende giuridicamente impossibile la dichiarazione di abbandono e l’affidamento preadottivo e dunque pienamente applicabile l’ipotesi di cui alla lettera d), fra l’altro azionabile anche da un singolo, come la ricorrente madre “sociale”.

Detta soluzione appare conforme sia alla lettera che alla ratio della legge, la cui interpretazione restrittiva ostacolerebbe in una molteplicità di situazioni, compresa quella de quo, il perseguimento del massimo benessere possibile del minore (best interests of the child) che, come non mancano di ricordare sia il giudice di merito, sia il giudice di legittimità, deve essere sempre il principio guida in ogni decisione che riguarda il bambino.

Alla luce del testo e della ratio della disposizione, conclude la Suprema Corte, l’interpretazione «restrittiva» invocata dalla Procura Generale e fondata sulla qualificazione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» come mera «impossibilità di fatto» non può essere accolta.

Vero è che tale norma ha avuto in passato un’interpretazione restrittiva, secondo la quale si richiederebbe un’impossibilità solo “di fatto”, riferendosi inevitabilmente solo a quei minori abbandonati (o in stato di semi-abbandono) per i quali, per esempio per ragioni di età o di salute, non sia possibile reperire una coppia aspirante all’adozione legittimante. Tuttavia, tale interpretazione restrittiva è stata poi oggetto di ripensamento da parte della giurisprudenza (cfr Tribunale per i Minorenni di Milano, sentenza n. 626/2007; Corte d’Appello di Firenze, sentenza 1274/2012; anche, Corte Cost. n. 198/1986).

In particolare, l’adozione sarebbe possibile anche nel caso in cui l’impossibilità di affidamento preadottivo sia solo “di diritto”, id est nel caso in cui l’affidamento preadottivo sia precluso dal fatto che il minore non si trova in stato di abbandono essendo presente un genitore che dello stesso si occupa in modo adeguato. Soltanto in questo modo diventa possibile tutelare l’interesse del minore (anche non in stato di abbandono) al riconoscimento giuridico di rapporti di genitorialità più compiuti e completi e alla stabilizzazione dei legami affettivi che, di fatto, sono per lui importanti punti di riferimento (cfr. Corte Cost., sentenza del 7 ottobre 1999, n. 383, secondo cui la ratio dell’effettiva realizzazione degli interessi del minore consente l’adozione per «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» anche quando i minori «non sono stati o non possono essere formalmente dichiarati adottabili»).

In altri termini, in questi procedimenti, come il caso de quo, partecipano al procedimento sia la madre biologica che il partner dello stesso sesso.

In conclusione, “l’adozione in casi particolari” (prevista dall’art. 44 della legge n. 184 del 1983) nell’ambito di una coppia omosessuale non determina in astratto un conflitto di interessi tra genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice; tale modello adottivo prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammesso sempreché alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il superiore interesse del minore (best interests of the child).

Il fatto che la Corte non abbia a priori escluso in astratto l’adottabilità del figlio del partner, occupandosi in particolare del problema procedurale, fa prevalere la tesi della ammissibilità nell’ordinamento italiano dell’adozione dei figli del partner della coppia same sex, già, peraltro, ammessa dal Giudice delle prime cure e dalla giurisprudenza europea.

La stessa sentenza in commento, fa richiami al noto caso X & Altri vs. Austria del 2013 (ricorso 19010/07), in cui la Corte Europea ha affrontato la questione dell’idoneità della famiglia formata da persone dello stesso sesso ad accogliere e crescere un bambino. Nella citata pronuncia, la Corte di Strasburgo, dopo aver ribadito che anche le unioni omosessuali godono del diritto alla vita familiare ex art. 8 della CEDU, aveva espressamente chiarito che le coppie dello stesso sesso non possono essere ritenute a priori inidonee a crescere un figlio e aveva condannato l’Austria per non aver garantito alle medesime coppie le stesse possibilità di accedere alla step – child adoption così come riconosciuto alle coppie eterosessuali non coniugate.

Conclude la Suprema Corte, nel senso che: «in assenza di argomenti, di studi scientifici o di altri elementi di prova in grado di dimostrare che le famiglie omogenitoriali non possono in alcun caso occuparsi di un figlio», la supposta inidoneità delle coppie omosessuali a crescere un figlio non può essere legittimamente addotta come giustificazione alla disparità di trattamento tra coppie conviventi. Ne consegue che l’obiettivo della tutela della cosiddetta famiglia tradizionale, per quanto legittimo possa essere, non può essere perseguito andando a discapito della garanzia minima di tutela delle altre tipologie di famiglia, riconosciute e protette dall’art. 8 CEDU, secondo l’interpretazione evolutiva che ne è stata data dalla Corte.

La centralità del minore, quindi, va affermata per ogni tipo di coppia genitoriale, sia eterosessuale sia dello stesso sesso, legami nei quali la vita del nucleo familiare comunque va strutturata con modalità che garantiscano prioritariamente la salute, il benessere, l’educazione e la crescita, oltre che ovviamente il diritto alla felicità del bambino.

Sarà interessante verificare in futuro la risposta della giurisprudenza nei casi in cui i partners sono entrambi uomini ma con la presenza della madre biologica.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-06-2016, n. 12962

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4386-2016 proposto da:

PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. D.M. G.;

– ricorrente –

contro

C.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, Via EZIO 24, presso l’avvocato CHIARA PEZZANO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIA ANTONIA PILI, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7127/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/05/2016 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato M.A. PILI che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per la rimessione atti alle Sezioni Unite, atti al Primo Presidente, ex art. 376 c.p.c., comma 3, in subordine accoglimento del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

  1. – C.M.R., legata da una relazione sentimentale e di convivenza con O.O. fin dal 2003, ha proposto dinanzi al Tribunale per i minorenni di Roma, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d), (Diritto del minore ad una famiglia), domanda di adozione della minore O.A. (nata a (OMISSIS)), evidenziando che: – la nascita di A. è stata il frutto di un progetto genitoriale maturato e realizzato con la propria compagna di vita; – la decisione di scegliere la O., più giovane, ai fini della gravidanza è stata dettata dalle maggiori probabilità di successo delle procedure di procreazione medicalmente assistita effettuate in Spagna; – A. ha vissuto sin dalla nascita con lei e la sua compagna, in un contesto familiare e di relazioni scolastiche e sociali analogo a quello delle altre bambine della sua età, nel quale sono presenti anche i nonni O. e alcuni familiari della ricorrente.

Il Tribunale adito – acquisito l’assenso della madre della minore alla adozione e sentito il Pubblico Ministero minorile, il quale ha espresso parere sfavorevole -, con la sentenza n. 299/2014 del 30 luglio 2014, ha disposto farsi luogo all’adozione di O.A. da parte di C.M.R., con conseguente aggiunta del cognome di quest’ultima a quello della minore.

Tale decisione è stata basata sulle seguenti argomentazioni: a) non è ravvisabile nel nostro ordinamento, diversamente dall’adozione “legittimante”, il divieto per la persona singola di adottare ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d); b) nessuna limitazione normativa può desumersi dall’orientamento sessuale della richiedente l’adozione in casi particolari; c) con la menzionata disposizione, il legislatore ha inteso favorire il consolidamento di rapporti tra minore e parenti o persone che già se ne prendono cura, prevedendo un modello adottivo con effetti più limitati rispetto a quello di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 6; d) la ratio legis deve essere individuata nella verifica della realizzazione dell’interesse del minore, da intendersi come limite invalicabile e chiave interpretativa dell’istituto; e) la condizione dell’impossibilità dell’affidamento preadottivo, contenuta nella lett. d) del comma 1 dell’art. 44, deve essere interpretata non già, restrittivamente, come impossibilità “di fatto”, bensì come impossibilità “di diritto”, così da comprendere anche minori non in stato di abbandono ma relativamente ai quali nasca l’interesse al riconoscimento di rapporti di genitorialità; f) tale ultimo requisito è sussistente nella specie, non trovandosi A. in stato di abbandono e risultando, di conseguenza, non collocabile in affidamento preadottivo in ragione della presenza della madre, perfettamente in grado di occuparsene; g) la minore, in virtù dello stabile legame di convivenza tra la O. e la C., ha sviluppato una relazione di tipo genitoriale con quest’ultima, relazione che, attraverso il paradigma della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), può avere riconoscimento giuridico entro i limiti dettati dal peculiare modello adottivo applicabile; h) non sussistono, al riguardo, ostacoli normativi costituiti dall’assenza del rapporto matrimoniale e dalla riscontrata natura del rapporto tra la madre della minore e la C., in quanto persone dello stesso sesso; i) le indagini richieste dalla stessa L. n. 184 del 1983, art. 57 hanno consentito di rilevare la piena rispondenza dell’adozione al preminente interesse della minore.

  1. – A seguito dell’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero minorile avverso tale sentenza, la Corte d’Appello di Roma, sezione minorenni – in contraddittorio con C.M.R., che ha resistito all’appello; respinta, con ordinanza del 3 febbraio-9 aprile 2015, l’istanza di nomina di un curatore speciale della minore; disposta ed espletata la “verifica”, di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 57 -, con la sentenza n. 7127/2015 del 23 dicembre 2015, ha rigettato l’appello.

In particolare, nel confermare la menzionata pronuncia del Tribunale, la Corte:

  1. a) in ordine all’esistenza di un potenziale conflitto d’interessi tra la minore e la madre, legale rappresentante della stessa in giudizio, ed alla conseguente necessità della nomina di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ., nel ribadire quanto osservato con la citata ordinanza reiettiva del 3 febbraio-9 aprile 2015, ha ritenuto che non vi fosse, nel caso concreto, incompatibilità d’interessi e di posizioni tra la minore e la madre in merito all’esito della causa ed ha sottolineato che la norma richiede il preventivo assenso del genitore;
  2. b) in ordine alla dedotta illegittimità dell’interpretazione della condicio legis, relativa alla “constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo”, ha affermato che: nell’intenzione del legislatore, tale disposizione risponde all’esigenza di rafforzare legami di fatto esistenti in ambito familiare/parentale e di trovare una soluzione per situazioni nelle quali non sia possibile l’adozione legittimante; insorto contrasto in dottrina ed in giurisprudenza, nella prima fase di applicazione della norma, tra l’interpretazione “restrittiva” – secondo la quale l’impossibilità di affidamento preadottivo presuppone una situazione di abbandono, in quanto solo tale condizione rende possibile un affidamento preadottivo – e l’interpretazione “estensiva” – secondo la quale può prescindersi dalla condizione di abbandono -, quest’ultima interpretazione è quella nettamente prevalente nella giurisprudenza minorile, avendo trovato autorevole avallo ermeneutico nella sentenza della Corte Costituzionale n. 383 del 1999, per la quale l’art. 44, comma 1, lett. c), nella versione ratione temporis (1999) applicabile, formalmente e sostanzialmente corrispondente alla vigente lettera d), non richiede la preesistenza di una situazione di abbandono del minore, trattandosi di un sorta di clausola residuale volta a disciplinare le situazioni non rientranti nei parametri di cui all’art. 7, relativi alle condizioni necessarie per procedere all’adozione legittimante; in conclusione, deve aderirsi all’interpretazione secondo la quale è sufficiente l’impossibilità giuridica dell’affidamento preadottivo, la quale può verificarsi anche in mancanza di una situazione di abbandono;
  3. c) in particolare, ha osservato che: nessuna delle quattro fattispecie di adozione in casi particolari, previste dall’art. 44, comma 1, richiede il preventivo accertamento di una situazione di abbandono, in quanto la ratio ad esse sottesa è volta alla salvaguardia di legami affettivi e relazionali preesistenti ed alla risoluzione di situazioni personali nelle quali l’interesse del minore ad un’idonea collocazione familiare è preminente e si realizza mediante l’instaurazione di “vincoli giuridici significativi” con chi si occupa stabilmente di lui;

l’interpretazione estensiva non può ritenersi preclusa dalla pronuncia della Corte di Cassazione n. 22292 del 2013, perchè relativa ad una fattispecie nella quale l’applicabilità dell’art. 44, comma 1, lett. d), è stata esclusa per essere già in atto un affidamento preadottivo conseguente ad una dichiarazione di adottabilità;

  1. d) con riferimento al caso di specie, ha affermato che:

l’impossibilità dell’affidamento preadottivo è incontestabile, esistendo un genitore con la piena consapevolezza del suo ruolo ed una figlia minore che ha maturato un rapporto interpersonale, affettivo ed educativo con la partner convivente della madre, tale da acquisire un’autonoma particolare rilevanza e da giustificarne il riconoscimento giuridico attraverso una forma legale corrispondente a ciò che si verifica nella vita quotidiana delle relazioni familiari della minore medesima; la natura residuale dell’art. 44, comma 1, lett. d), risponde pienamente a tali esigenze; il Tribunale ha accertato, in concreto, l’esistenza di un profondo legame della minore con la C., instaurato fin dalla nascita e caratterizzato da tutti gli elementi affettivi e di riferimento relazionale, interno ed esterno, qualificanti il rapporto genitoriale e filiale; si tratta non già di dare vita ad una forma di genitorialita non consentita dalla legge, ma di prendere atto di una situazione relazionale preesistente e di dare ad essa una forma giuridica secondo i parametri consentiti dalla legge sull’adozione, senza alcuna sovrapposizione al rapporto che lega la madre della minore e la C.; le indagini svolte ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 57 hanno consentito di accertare la piena capacità affettiva ed educativa della C. – che mantiene un solido rapporto anche con il proprio fratello e con il suo nucleo familiare di origine, nel quale la minore è coinvolta -, nonchè la condizione di benessere in cui la minore vive, comprendente aspetti ludici, sociali, scolastici, ricreativi, affettivi, culturali e materiali che la stessa C. concorre a determinare.

  1. – Avverso questa sentenza il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura.

Resiste, con controricorso, C.M.R..

 

Motivi della decisione

 

  1. – Con il primo motivo (con cui deduce: “Omessa nomina del curatore speciale della minore ai sensi dell’art. 18 c.p.c. – nel procedimento di adozione il conflitto di interessi del minore è in re ipsa”), il Pubblico Ministero ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo che: a) la situazione di conflitto d’interessi si manifesta nello stesso ricorso introduttivo, laddove è esplicitato che la nascita di A. è stata il frutto di un progetto portato avanti dalla coppia costituita dalla madre biologica e dalla ricorrente, “dal che è agevole ravvisare l’aspirazione di entrambe, e quindi anche della madre della minore, a vivere la bigenitorialità nell’ambito del rapporto di coppia come consolidamento dello stesso” (cfr. Ricorso, pag. 4); b) tale conflitto è “potenziale”, dal momento che la madre agisce nel proprio interesse e ritiene che tale interesse coincida con quello della minore, sicchè la decisione impugnata, anche se formalmente tesa a salvaguardare l’interesse della minore, appare sostanzialmente ispirata da una concezione “adultocentrica”; c) l’assenso della madre all’adozione non è risolutivo, trattandosi di una condizione della procedura prevista per qualsiasi tipologia di adozione in casi particolari; d) pertanto, sarebbe stato necessario scindere le due posizioni, quella di portatrice di un interesse morale all’adozione e quella di legale rappresentante dell’adottanda, appunto con la nomina di un curatore speciale della minore.

Con il secondo motivo (con cui deduce: “Errore nella applicazione della legge L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d”), il ricorrente critica ancora la sentenza impugnata, quanto all’interpretazione dell’art. 44, comma 1, lett. d), data dalla Corte d’Appello, sostenendo che: a) la “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” presuppone pur sempre la preesistenza di una situazione di abbandono, trattandosi di un istituto giuridico unitario dai caratteri individuabili in negativo che mira a offrire tutela a situazioni di adozione difficili od impossibili di fatto, come è comprovato dalla stessa scelta del participio passato “constatata”, che rimanda ad un’attività materiale – la ricerca di una coppia idonea all’affidamento preadottivo – al cui esito infruttuoso soltanto si apre la possibilità dell’adozione speciale; b) al riguardo, il richiamo della sentenza della Corte Costituzionale n. 383 del 1999 non appare pertinente, in quanto tale sentenza è relativa ad una fattispecie concernente la domanda di adozione speciale rivolta da parenti entro il quarto grado che già si occupano ed accudiscono il minore, così impedendo la dichiarazione di abbandono; c) invece, la sentenza della Corte di Cassazione n. 22293 del 2013 afferma correttamente che non può dilatarsi la nozione d’impossibilità di affidamento preadottivo al punto da ricomprendervi l’ipotesi del contrasto con l’interesse del minore, con la conseguenza che l’impossibilità di affidamento preadottivo rappresenta un’ipotesi subordinata al mancato esito dell’adozione legittimante.

1.1. – Nell’odierna udienza di discussione, il sostituto Procuratore Generale ha chiesto: 1) in via preliminare, la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, perchè involgente una questione di massima di particolare importanza; 2) in via subordinata, l’accoglimento del ricorso, ritenendo inapplicabile alla fattispecie dedotta nel presente giudizio la L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), in quanto tutta la disciplina normativa relativa all’adozione, comprensiva dell’art. 44, è rivolta alla tutela dell’infanzia maltrattata, abbandonata ed abusata, mentre nel caso di specie la minore ha un genitore legittimo che si occupa in modo del tutto idoneo di lei; inoltre, l’interpretazione della condicio legis “constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo” che non richieda la preventiva esistenza di una condizione di abbandono determinerebbe un aggiramento del limite contenuto nella lettera b) dello stesso art. 44, il quale consente soltanto l’adozione del figlio del coniuge ed esclude tale possibilità per le coppie eterosessuali o dello stesso sesso che non siano unite in matrimonio;

ancora, la Corte d’Appello di Roma non ha neanche tentato un’interpretazione costituzionalmente orientata della lett. h) dell’art. 44, volta ad estenderne l’applicazione anche alle coppie di fatto, nè ha ritenuto di sollevare eccezione d’illegittimità costituzionale della norma per disparità di trattamento tra le unioni matrimoniali e le altre forme di relazione stabile oppure per discriminazione dovuta ad orientamento sessuale, ma ha ritenuto applicabile la lettera d) nonostante il carattere derogatorio e di stretta interpretazione della norma; infine, a fronte di un’ampia varietà di situazioni familiari stabili meritevoli di tutela, deve ritenersi rimessa al legislatore la scelta in ordine ai valori ed ai diritti da tutelare.

  1. – Preliminarmente, quanto alla richiesta di rimessione alle Sezioni Unite formulata dal sostituto Procuratore Generale, il Collegio osserva innanzitutto che, secondo il consolidato e condiviso orientamento di questa Corte (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 4219 del 1985, 359 del 2003, 8016 del 2012), l’istanza di parte volta all’assegnazione del ricorso alle sezioni unite, formulata ai sensi dell’art. 376 cod. proc. civ. (nella specie, ai sensi del terzo comma dello stesso art. 376) e dell’art. 139 disp. att. cod. proc. civ., costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, che non solo non è soggetto ad un dovere di motivazione, ma non deve neppure necessariamente manifestarsi in uno specifico esame e rigetto di detta istanza.

Fermo restando quanto ora ribadito, può in ogni caso osservarsi che la Corte di cassazione ha pronunciato a sezione semplice su numerose questioni variamente collegate a temi socialmente e/o eticamente sensibili, in tema sia di “direttive di fine vita” (sentenza n. 21748 del 2007), sia di limiti al riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive (sentenze nn. 4184 del 2012 e 2004 del 2015), sia di adozione da parte della persona singola (sentenze nn. 6078 del 2006 e 3572 del 2011), sia di surrogazione di maternità nella forma della gestazione affidata a terzi (sentenza n. 24001 del 2014). Deve, pertanto, ritenersi che non tutte le questioni riguardanti diritti individuali o relazionali di più recente emersione ed attualità sono per ciò solo qualificabili come “di massima di particolare importanza” nell’accezione di cui all’art. 374 c.p.c., comma 2.

  1. – In limine, il Collegio precisa che, nella specie, il rapporto di filiazione esistente tra la minore e la madre biologica e legale, al pari del rapporto che lega la minore alla richiedente l’adozione ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), non è riconducibile ad alcuna delle forme di cosiddetta “surrogazione di maternità” realizzate mediante l’affidamento della gestazione a terzi: la minore, infatti, è stata riconosciuta dalla donna che l’ha partorita, in applicazione dell’art. 269 c.c., comma 3.
  2. – Il ricorso non merita accoglimento.

4.1. – Il primo motivo non è fondato.

Con esso (cfr., supra, n. 1.), la critica del ricorrente si incentra sulla prefigurabilità di un conflitto “potenziale” (così qualificato dallo stesso ricorrente) tra l’interesse della madre ad ottenere riconoscimento giuridico dell’unione con la propria partner e quello, autonomo, della minore adottanda, conflitto dal quale scaturirebbe la necessità della nomina di un curatore speciale della minore medesima.

La questione che tale motivo pone non ha precedenti specifici e consiste nello stabilire se, nell’ambito di un rapporto di convivenza di coppia, la domanda proposta da una delle persone componenti la coppia per l’adozione del figlio minore dell’altra, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), determini ex se un conflitto di interessi, anche solo potenziale, tra la madre ed il minore adottando.

Al riguardo, è indispensabile premettere il quadro normativo di riferimento interno e convenzionale concernente la rappresentanza e la partecipazione del minore ai giudizi che lo riguardano.

La generale previsione contenuta nell’art. 78 c.p.c., comma 2 – “Si procede altresì alla nomina di un curatore speciale al rappresentato, quando vi è conflitto di interessi col rappresentante” – deve integrarsi, con specifico riferimento al minore, con gli artt. 3 e 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva dalla L. 27 maggio 1991, n. 176, nonchè con gli artt. 4 e 9 della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e resa esecutiva dalla L. 20 marzo 2003, n. 77.

In particolare, la Convenzione di New York – dopo aver affermato, nell’art. 3, par. 1, il fondamentale principio, secondo cui “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” -, con l’art. 12, par. 2, stabilendo che “… si darà…. al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in modo compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”, sancisce l’autonomia dei diritti e degli interessi del minore anche nei procedimenti giurisdizionali.

A sua volta, l’art. 4, par. 1, della Convenzione di Strasburgo dispone che “Salvo quando disposto dall’art. 9, il fanciullo ha il diritto di chiedere, personalmente o per il tramite di altre persone o organi, la designazione di un rappresentante speciale delle procedure dinnanzi ad un’autorità giudiziaria che lo concernono, qualora il diritto interno privi coloro che hanno responsabilità di genitore, della facoltà di rappresentare il fanciullo per via di un conflitto d’interesse con lo stesso”. E il successivo art. 9, par. 1, stabilisce che “Nelle procedure che interessano un fanciullo, se, in virtù del diritto interno, coloro che hanno responsabilità di genitore si vedono privati della facoltà di rappresentare il fanciullo a causa di un conflitto d’interessi con lo stesso, l’autorità giudiziaria può designare un rappresentante speciale per il fanciullo in tali procedure”.

Tale quadro normativo convenzionale esige, dunque, che possa essere rappresentata autonomamente la posizione del minore nei giudizi che lo riguardano e si riferisce in particolare a quelli relativi ad interventi sulla responsabilità genitoriale ed a quelli adottivi, riservando tuttavia ai legislatori nazionali di stabilirne le modalità.

La scelta operata dal legislatore italiano è fondata sulla predeterminazione normativa di alcune peculiari fattispecie nelle quali è ipotizzabile in astratto, senza dover distinguere caso per caso, il conflitto d’interessi, con conseguente necessità di nomina del curatore speciale a pena di nullità del procedimento per violazione dei principi costituzionali del giusto processo (cfr., ad esempio, art. 244 cod. civ., comma 6, art. 247 cod. civ., commi 2, 3 e 4, art. 248 cod. civ., commi 3 e 5, art. 249 cod. civ., commi 3 e 4, art. 264 cod. civ.), mentre tutte le altre concrete fattispecie di conflitto d’interessi potenziale, che possa insorgere nei giudizi riguardanti i diritti dei minori, sono regolate dall’art. 78 cod. proc. civ., comma 2: ciò significa che il giudice del merito è tenuto a verificare in concreto l’esistenza potenziale di una situazione d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentante e quello preminente del minore rappresentato.

L’impostazione binaria ora illustrata è coerente con l’interpretazione complessiva del sistema di tutela della effettiva rappresentanza degli interessi del minore nei giudizi che lo riguardano, derivante dagli orientamenti della Corte costituzionale e della giurisprudenza di legittimità.

In particolare, la Corte costituzionale, già nell’ordinanza n. 528 del 2000, allude alla necessità di verificare l’esistenza nel nostro ordinamento di norme che consentano la nomina del curatore speciale del minore nei giudizi che hanno ad oggetto la potestà genitoriale (artt. 333 e 336 cod. civ., ratione temporis applicabili), ancorchè non vi sia una previsione puntuale al riguardo nelle norme codicistiche richiamate. La stessa indicazione è contenuta nella sentenza n. 1 del 2002, nella quale viene espressamente precisato che il menzionato art. 12 della Convenzione di New York integra la disciplina contenuta nell’art. 336 cod. civ. (nella versione ratione temporis applicabile) in modo da consentire, “se del caso”, la nomina di un curatore speciale. Nella sentenza n. 83 del 2011, la Corte è esplicita nell’affermare che, se di regola la rappresentanza sostanziale e processuale del minore è affidata al genitore, qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, spetta al giudice procedere alla nomina del curatore anche d’ufficio, “avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, comma 1, della Convenzione di Strasburgo….

previa prudente valutazione delle circostanze del caso concreto” (n. 5 del Considerato in diritto).

Coerentemente con i principi soprarichiamati -fondati sul rafforzamento del potere-dovere del giudice del merito di verificare in concreto l’esistenza di una situazione d’incompatibilità tra gli interessi del genitore-rappresentante legale e quelli del minore -, sono state individuate, anche ai fini della delimitazione del sindacato di legittimità di questa Corte, le ipotesi di conflitto d’interessi, rilevabili in astratto ed in via generale, distinguendole dalle situazioni concrete che volta a volta il giudice del merito ha il potere-dovere di esaminare, anche alla luce delle norme convenzionali sopra indicate e del sistema potenziato di tutela processuale della posizione del minore nei giudizi che lo riguardano, derivante dalla L. 28 marzo 2001, n. 149 (di modifica della legge n. 184 del 1983, le cui norme processuali sono entrate in vigore il 1 luglio 2007). Al riguardo, può richiamarsi la sentenza n. 7281 del 2010, con la quale, in ordine ad un giudizio di adottabilità, si è ritenuto che il conflitto d’interessi tra genitori e minore, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 8, u.c., e art. 10, comma 2, sia in re ipsa, con conseguente obbligo per il giudice di provvedere alla nomina del curatore speciale, mentre relativamente al rapporto tra tutore e minore la valutazione in concreto di una situazione d’incompatibilità debba essere frutto di valutazione svolta caso per caso dal giudice (cfr., in senso conforme, le sentenze nn. 12290, 16553 e 16870 del 2010, 11420 del 2014).

L’apprezzamento dell’esistenza di un potenziale conflitto d’interessi, che non sia previsto normativamente in modo espresso (come ad esempio, nel disconoscimento di paternità, dal citato art. 244 c.c., u.c.) o non sia ricavabile dall’interpretazione coordinata delle norme che regolano il giudizio (come nel procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità), è rimesso in via esclusiva al giudice del merito e non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità: al riguardo, può richiamarsi la sentenza n. 5533 del 2001, secondo la quale il conflitto d’interessi tra genitore e figlio minore si determina non “in presenza di un interesse comune, sia pure distinto ed autonomo, di entrambi al compimento di un determinato atto, ma soltanto allorchè i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro”. Il medesimo principio è affermato nella motivazione della sentenza n. 21651 del 2011, proprio con riferimento ad una fattispecie di adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. b), laddove non si esclude “in linea di principio” l’applicabilità dell’art. 78 c.p.c., comma 2, ma sì afferma, richiamando la precedente pronuncia n. 2489 del 1992, che “il conflitto deve essere concreto, diretto ed attuale, e sussiste se al vantaggio di un soggetto corrisponde il danno dell’altro”.

Alla luce dei richiamati principi, emerge chiaramente l’infondatezza del motivo in esame. Rilevato che viene censurata – sotto il profilo della violazione di norme di diritto di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – l'”Omessa nomina del curatore speciale della minore ai sensi dell’art. 78 c.p.c.“, sul rilievo che “nel procedimento di adozione il conflitto di interessi del minore è in re ipsa”, anche se da ritenersi non in atto ma potenziale, deve escludersi che possa trarsi in via ermeneutica, in carenza d’indici normativi specifici, un’incompatibilità d’interessi ravvisabile in generale quale conseguenza dell’applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d). Questa peculiare ipotesi normativa di adozione in casi particolari mira infatti – come meglio risulterà nel corso dell’esame del secondo motivo (cfr., infra, n. 4.2.) – a dare riconoscimento giuridico, previo rigoroso accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore, a relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con il minore e caratterizzate dall’adempimento di doveri di accudimento, di assistenza, di cura e di educazione analoghi a quelli genitoriali. La ratio dell’istituto è quella di consolidare, ove ricorrano le condizioni dettate dalle legge, legami preesistenti e di evitare che si protraggano situazioni di fatto prive di uno statuto giuridico adeguato. All’interno di tale paradigma non può ravvisarsi una situazione d’incompatibilità d’interessi in re ipsa, desumibile cioè dal modello adottivo astratto, tra il genitore-legale rappresentante ed il minore adottando.

Al riguardo, deve aggiungersi che non può non cogliersi, nella necessità dell’assenso del genitore dell’adottando previsto dalla L. n. 184 del 1983, art. 46, un indice normativo contrario alla configurabilità, in via generale ed astratta, di una situazione di conflitto d’interessi anche solo potenziale. Tale situazione può, invece, riscontrarsi in concreto nel corso del procedimento di adozione di cui all’art. 44, sicchè il giudice, se sollecitato da una delle parti o dal pubblico ministero, deve verificarne l’esistenza nella fattispecie dedotta in giudizio. Nella specie, la Corte d’Appello, con l’ordinanza del 9 aprile 2015 (cfr., supra, Fatti di causa, n. 2.) ha trattato espressamente la questione, escludendo la necessità della nomina di un curatore speciale, sia in considerazione della radicale diversità della situazione sub judice rispetto a quelle che caratterizzano le dichiarazioni di adottabilità, nelle quali viene in luce proprio l’inidoneità dei genitori e l’inadempienza ai doveri discendenti dal vincolo di filiazione, sia in relazione alla valutazione in concreto della comunanza – e non dell’incompatibilità – degli interessi del genitore e del minore, sia, infine, in considerazione della necessità dell’assenso preventivo all’adozione da parte del genitore stesso.

La censura, in conclusione, è da respingersi sotto il profilo della violazione di legge, dal momento che il conflitto d’interessi denunciato non è in re ipsa ma va accertato in concreto con riferimento alle singole situazioni dedotte in giudizio.

Può, infine, osservarsi che l’unica ragione posta a sostegno della denunciata incompatibilità d’interessi è stata individuata nell’interesse della madre della minore al consolidamento giuridico del proprio progetto di vita relazionale e genitoriale. Al riguardo, tuttavia: o si ritiene che sia proprio la relazione sottostante (coppia omoaffettiva) ad essere potenzialmente contrastante, in re ipsa, con l’interesse del minore, incorrendo però in una inammissibile valutazione negativa fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale della madre della minore e della richiedente l’adozione, di natura discriminatoria e comunque priva di qualsiasi allegazione e fondamento probatorio specifico; oppure si deve escludere tout court, come già ampiamente argomentato, la configurabilità in via generale ed astratta di una situazione di conflitto d’interessi. E, comunque, anche a voler qualificare il vizio denunciato all’interno del paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (ancorchè non espressamente dedotto), la Corte d’Appello ha compiutamente esaminato il profilo indicato, ne ha trattato in modo completo ed ha espresso, di conseguenza, una valutazione finale insindacabile.

4.2. – Anche il secondo motivo è privo di fondamento.

Il suo esame sarà incentrato sull’esatta delimitazione dell’ambito di applicazione dell’ipotesi normativa di adozione in casi particolari disciplinata nella L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d). In particolare, l’indagine ermeneutica sarà concentrata sul contenuto da attribuire alla disposizione “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, condizione questa – in cui deve trovarsi il minore adottando – indispensabile per l’applicazione di tale fattispecie di adozione.

4.2.1. – Al fine di pervenire ad un’interpretazione coerente con la lettera e la ratio dell’istituto, oltrechè con il contesto costituzionale e convenzionale all’interno del quale devono collocarsi i diritti del minore, è necessario esaminare il testo dell’art. 44 nella sua interezza nonchè la sua evoluzione normativa ed applicativa alla luce, in particolare, della giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa Corte.

Il testo originario della norma era il seguente: “I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’art. 7: a) da persone unite al minore, orfano di padre e di madre, da vincolo di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo comma 1. L’adozione, nei casi indicati nel precedente comma, è consentita anche in presenza di figli legittimi comma 2. Nei casi di cui alle lettere a) e c) l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Se l’adottante è persona coniugata e non separata, il minore deve essere adottato da entrambi i coniugi terzo comma. In tutti i casi l’adottante deve superare di almeno diciotto anni l’età di coloro che intende adottare comma 4”.

L’art. 25 della menzionata L. 28 marzo 2001, n. 149, ha sostituito l’intero art. 44, inserendo, in particolare, una nuova ipotesi adottiva relativa al minore disabile, contrassegnata dalla lettera c). Per effetto di questa interpolazione, l’adozione “quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo” risulta attualmente contrassegnata dalla lettera d). Inoltre, le successive modifiche hanno riguardato la soppressione – ad opera del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 100, comma 1, lett. t), nel comma 2 dello stesso art. 44, dell’attributo “legittimi” dopo “figli”, nonchè l’inserimento – ad opera della L. 19 ottobre 2015, n. 173, art. 4, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) -, nell’art. 44, comma 1, lett. a), dopo le parole “stabile e duraturo”, relative al rapporto del minore orfano di padre e di madre con parenti fino al sesto grado, delle parole “anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento”.

Il testo vigente della L. n. 184 del 1983, art. 44 risulta, pertanto, il seguente: “2. I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’art. 7: a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dalla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 3, comma 1, e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. 2.

L’adozione, nei casi indicati nel comma 1, è consentita anche in presenza di figli. 3. Nei casi di cui alle lett. a), e), e d) del comma 1 l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Se l’adottante è persona coniugata e non separata, l’adozione può essere tuttavia disposta solo a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi. 4. Nei casi di cui alle lettere a) e d) del comma 1 l’età dell’adottante deve superare di almeno diciotto anni quella di coloro che egli intende adottare”.

E’, infine, indispensabile tener presente che il tribunale per i minorenni, per ogni ipotesi di adozione non legittimante, oltre all’acquisizione dell’assenso del genitore dell’adottando (art. 46, comma 1, cit.), deve svolgere l’indagine prevista dal successivo art. 57, il quale dispone: “Il tribunale verifica: 1) se ricorrono le circostanze di cui all’articolo 44; 2) se l’adozione realizza il preminente interesse del minore primo comma. A tal fine il tribunale per i minorenni, sentiti i genitori dell’adottando, dispone l’esecuzione di adeguate indagini da effettuarsi, tramite i servizi locali e gli organi di pubblica sicurezza, sull’adottante, sul minore e sulla di lui famiglia secondo comma. L’indagine dovrà riguardare in particolare: a) l’idoneità affettiva e la capacità di educare e istruire il minore, la situazione personale ed economica, la salute, l’ambiente familiare degli adottanti; b) i motivi per i quali l’adottante desidera adottare il minore; c) la personalità del minore; d) la possibilità di idonea convivenza, tenendo conto della personalità dell’adottante e del minore terzo comma”. La lettera a) del terzo comma è stata sostituita ad opera della L. n. 149 del 2001, art. 29, che ha esteso l’accertamento da svolgere anche alla “idoneità affettiva”.

4.2.2. – Alla luce di tale quadro normativo, l’interpretazione della condizione costituita dalla “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, non può essere scissa nè dall’esame complessivo dell’istituto dell’adozione in casi particolari nè dalle modifiche normative medio tempore intervenute, al fine di verificare se la sua ratio originaria possa ritenersi tuttora intatta oppure sia mutata in conseguenza dell’evoluzione del quadro normativo.

Il Procuratore generale ricorrente ed il sostituto Procuratore generale d’udienza aderiscono nettamente alla richiamata “tesi restrittiva” (cfr., supra, un. 1. e 1.1.), che si fonda sulla qualificazione della “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” come “impossibilità di fatto”: secondo tale tesi, l’inveramento della condizione richiede ineludibilmente la preesistenza di una situazione di abbandono (o di semi abbandono) del minore.

Al riguardo, possono individuarsi tre ragioni giustificative di questa lettura della norma: 1) la valorizzazione dell’intentio legis:

l’originaria lettera c), ora lettera d), del comma 1 dell’art. 44, anche secondo alcuni orientamenti dottrinali espressi nella fase di prima applicazione della norma, doveva essere rivolta a scongiurare l’affidamento a terzi di minori da parte dei genitori mediante l’aggiramento del rigoroso regime dell’adozione legittimante; tale ratio originaria ha, di conseguenza, permeato l’istituto, limitandone anche attualmente l’applicazione a minori in condizioni di prolungata istituzionalizzazione, alla quale non sia seguito, e verosimilmente non possa seguire, l’affidamento preadottivo; 2) l’utilizzazione del sintagma “constatata impossibilità” richiama una situazione di fatto preesistente; 3) la contraria interpretazione “estensiva” come sottolineato anche dal sostituto Procuratore Generale nella sua requisitoria d’udienza – condurrebbe a dichiarare l’adozione in casi particolari tutte le volte che ciò corrisponda all’interesse del minore adottando, con conseguente aggiramento della condizione limitativa imposta dalla legge.

Il Collegio non condivide tale opzione interpretativa.

L’esame critico del suo fondamento va svolto, come già detto, muovendo dal quadro normativo costituito dalla L. n. 184 del 1983 e dagli altri rilevanti interventi innovativi in tema di filiazione, dianzi delineati. L’analisi deve essere completata con la verifica dell’incidenza del quadro costituzionale e convenzionale, ed in particolare dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema di “best interest” del minore.

Deve sottolinearsi che l’art. 44, al comma 1, stabilisce che l’accertamento di una situazione di abbandono (art. 8, comma 1) non costituisce, differentemente dall’adozione legittimante, una condizione necessaria per l’adozione in casi particolari, e che tale prescrizione di carattere generale si applica a tutte le ipotesi previste dallo stesso art. 44, lett. a), b), c) e d). Infatti, tale norma dispone che “I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’art. 7” e il richiamato art. 7, al comma 1, stabilisce come condizione necessaria per l’adozione legittimante la dichiarazione di adottabilità, la quale presuppone a sua volta l’accertamento della situazione di abbandono così come prescritto nel successivo art. 8, comma 1.

Risulta pertanto, anche dal mero esame testuale delle norme sopraindicate, che l’adozione in casi particolari può essere dichiarata a prescindere dalla sussistenza di una situazione di abbandono del minore adottando.

La conferma dell’assunto si trae anche dal successivo art. 11, comma 1, nella parte in cui stabilisce che, relativamente al minore orfano di entrambi i genitori e privo di parenti entro il quarto grado che abbiano con lui rapporti significativi, il tribunale per i minorenni deve dichiarare lo stato di adottabilità, “salvo che esistano istanze di adozione ai sensi dell’art. 44”.

Le altre differenze di regime giuridico tra le due diverse categorie di adozione, hanno invece una portata applicativa più limitata. Il limite dovuto alla differenza d’età si applica soltanto alle ipotesi sub a) e d) e l’estensione alle persone non sposate non riguarda l’ipotesi relativa all’adozione del figlio del coniuge, regolata dalla lettera b).

Deve, pertanto, essere pienamente valorizzata ai fini ermeneutici la portata generale della prescrizione contenuta nel comma 1 dell’art. 44, secondo la quale -sì ribadisce – la preesistenza dello stato di abbandono non costituisce limite normativo all’applicazione della norma nella sua interezza e conseguentemente, per quanto rileva in questa sede, anche all’ipotesi descritta nella lettera d).

Sostenere invece che, per integrare la condizione della “constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo”, debba sempre sussistere la situazione di abbandono, oltrechè contrastare con l’art. 44, comma 1 -nella parte in cui ne esclude la necessità per tutte le ipotesi descritte dalla norma, senza distinzione tra le singole fattispecie, come invece si riscontra nel terzo comma dell’art. 44 relativamente agli altri requisiti relativi all’età o all’insussistenza dello status coniugale -, condurrebbe sempre ad escludere che, nell’ipotesi di cui alla lettera d), l’adozione possa conseguire ad una relazione già instaurata e consolidata con il minore, essendo tale condizione relazionale contrastante con l’accertamento di una situazione di abbandono così come descritta nella L. n. 184 del 1983, art. 8 cit., comma 1.

Già sul piano dell’esame testuale delle norme l’adozione in casi particolari si caratterizza per una radicale differenza di disciplina in ordine alle condizioni di accesso (oltrechè a differenze di rilievo anche quanto agli effetti, il cui esame è però superfluo) non priva d’influenza sul piano sistematico. Al riguardo, deve ritenersi che vi siano due modelli di adozione, quella legittimante, fondata sulla condizione di abbandono del minore, e quella non legittimante, fondata su requisiti diversi sia in ordine alla situazione di fatto nella quale versa il minore, sia in ordine alla relazione con il richiedente l’adozione.

All’interno di questa diversa categoria di genitorialità adottiva prevista dal nostro ordinamento, deve rilevarsi che delle quattro fattispecie di adozione in casi particolari descrìtte nell’art. 44, quella contrassegnata dalla lettera d) è caratterizzata da un grado di determinazione inferiore alle altre tre: nella prima, infatti, vengono esattamente definite le situazioni del minore (orfano di padre e madre) e dell’adottante (parente entro il sesto grado con preesistente rapporto stabile e duraturo con il minore); nella seconda, ugualmente, il minore adottando deve essere figlio, anche adottivo, di un coniuge e l’adottante non può che essere l’altro coniuge; nella terza, il minore deve essere orfano di entrambi i genitori e portatore di handicap, mentre non è richiesta alcuna condizione in ordine all’adottante; nella lettera d), invece, nessun requisito viene indicato per definire i profili dell’adottante e dell’adottando, essendo soltanto prevista la condicio legis della “constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo”.

L’impostazione di cui alle considerazioni che precedono è del tutto coerente con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 383 del 1999.

Con questa pronuncia, infatti, la Corte – nel dichiarare non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 30 Cost., comma 2, anche la questione di legittimità costituzionale della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. c), (testualmente corrispondente alla vigente lettera d dello stesso art. 44: cfr., supra, n. 4.2.1.) – ha affermato, tra l’altro, che:

  1. a) “…. la n. 184 del 1983, art. 44 si sostanzia in una sorta di clausola residuale per i casi speciali non inquadrabili nella disciplina dell’adozione “legittimante”, consentendo l’adozione dei minori “anche quando non ricorrono le condizioni di cui al primo comma dell’art. 1”. In questa logica di apertura, la lettera c) fornisce un’ulteriore “valvola” per i casi che non rientrano in quelli più specifici previsti dalle lettere a) e b)”;
  2. b) “Le ordinanze di rimessione ritengono di dover trarre dal riferimento letterale della disposizione impugnata alla “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” il presupposto interpretativo secondo cui, per far ricorso all’ipotesi prevista dalla lettera c) della norma, occorre necessariamente la previa dichiarazione dello stato di abbandono del minore e quindi la declaratoria formale di adottabilità, nonchè il vano tentativo del predetto affidamento. In realtà, l’art. 44 è tutto retto dalla “assenza delle condizioni” previste dal primo comma del precedente art. 7 della medesima n. 184: pertanto, gli stessi principi relativi alle prime due ipotesi dell’art. 44 valgono anche per le fattispecie ricadenti sotto la lettera c)”;
  3. c) “Una ulteriore conferma della adottabilità dei minori in tutti i casi rientranti nelle tre lettere dell’art. 44 anche quando non sono stati o non possono essere formalmente dichiarati adottabili sì trae dal disposto del primo comma del precedente art. 11. …. E’ evidente allora che, nelle ipotesi considerate, il legislatore ha voluto favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore ed i parenti o le persone che già si prendono cura di lui, prevedendo la possibilità di un’adozione, sia pure con effetti più limitati rispetto a quella “legittimante”, ma con presupposti necessariamente meno rigorosi di quest’ultima. Ciò è pienamente conforme al principio ispiratore di tutta la disciplina in esame: l’effettiva realizzazione degli interessi del minore” (nn. 2. e 3. del Considerato in diritto).

L’attenzione prestata dalla Corte costituzionale all’aspetto della continuità affettiva ed educativa della relazione tra l’adottante e l’adottando, come elemento caratterizzante la realizzazione dell’interesse del minore, anticipa significativamente le linee ispiratrici degli interventi legislativi di riforma della filiazione e degli istituti dell’adozione e della stessa giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani, sviluppatasi nell’ultimo decennio intorno al contenuto e alla preminenza del “best interest” del minore anche rispetto all’interesse pubblico degli Stati.

In particolare, quanto ai predetti interventi legislativi, la riforma della filiazione, di recente attuata mediante la L. Delega 10 dicembre 2012, n. 219, ed il già citato D.Lgs n. 154 del 2013, ha modificato incisivamente la preesistente disciplina normativa degli status filiali, stabilendo solo per il figlio l’imprescrittibilità del diritto a far prevalere la verità biologica: questa opzione evidenzia il riconoscimento del rilievo delle relazioni instaurate e consolidate nel tempo tra genitore e figlio sotto il profilo del diritto di quest’ultimo a conservare tale profilo caratterizzante l’identità personale fin dalla nascita. Inoltre, il medesimo principio, rafforzato dal canone dell’assunzione di responsabilità in ordine alle scelte genitoriali fatte consapevolmente, è a fondamento della L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 9, commi 1 e 2: in queste norme è stabilito, infatti, che un rapporto di filiazione – sorto per effetto dell’accesso a pratiche di procreazione medicalmente assistita vietate dalle legge, ove il consenso all’accesso a tali pratiche sia ricavabile da atti concludenti – non può essere messo in discussione mediante il disconoscimento di paternità, l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità o l’esercizio del diritto all’anonimato materno. Ancora, la salvaguardia della continuità affettiva costituisce la ratio della già menzionata, recentissima L. n. 173 del 2015, tanto da costituire il titolo della novella, recante appunto “Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare”. Infine, anche l’istituto dell’adozione in casi particolari è stato significativamente lambito dalle riforme legislative sopra indicate:

infatti, con riferimento all’indagine da svolgersi ai sensi del menzionato art. 57, comma 3, lett. a) – nel testo sostituito dalla L. n. 149 del 2001, art. 29 – il tribunale per i minorenni, al fine di verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti normativi astratti, anche l’effettiva rispondenza dell’adozione richiesta all’interesse del minore, deve operare una specifica valutazione della “idoneità affettiva” del genitore adottante, valutazione la quale non può che essere effettuata sulla base di una relazione preesistente adottante- minore, come tale incompatibile con una situazione di abbandono.

In conclusione, l’interpretazione della espressione “constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo” da prescegliere non può che essere quella adottata dalla Corte d’Appello di Roma:

coerentemente con il sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva attualmente vigente, deve ritenersi sufficiente l’impossibilità “di diritto” di procedere all’affidamento preadottivo e non solo quella “di fatto”, derivante da una condizione di abbandono in senso tecnico-giuridico o di semi abbandono (art. 8, comma 1).

4.2.3. – Al riguardo, deve osservarsi che la sentenza di questa Sezione n. 22292 del 2013, con orientamento confermato dalla successiva n. 1792 del 2015, non è in contrasto con la scelta ermeneutica assunta dal Collegio. Le due pronunce definiscono la nozione d’impossibilità dell’affidamento preadottivo in relazione alla richiesta di adozione ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), da parte di una coppia affidataria riferita ad un minore che era già in affidamento preadottivo presso altra coppia, perchè in corso il procedimento volto all’adozione legittimante. In questo peculiare conflitto, la Corte ha ritenuto che l’impossibilità dell’affidamento preadottivo non potesse desumersi dall’allegato contrasto della scelta dell’adozione legittimante con l’interesse del minore. La condicio legis in questione viene, pertanto, esplorata sotto un versante del tutto diverso ed autonomo da quello oggetto del presente giudizio. La menzionata L. n. 173 del 2015, volta a facilitare l’accesso all’adozione legittimante da parte delle famiglie affidatarie che abbiano condiviso con il minore un lungo periodo di affidamento, è stata introdotta anche al fine di evitare conflittualità quali quelle alla base delle due richiamate pronunce.

L’interpretazione della “impossibilità di affidamento preadottivo” all’interno di conflitti quale quello sopra delineato non osta, in conclusione, alla più ampia opzione ermeneutica che ricomprenda nella formula anche l’impossibilità “di diritto”, e con essa tutte le ipotesi in cui, pur in difetto dello stato di abbandono, sussista in concreto l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con altri soggetti, che se ne prendano cura.

4.2.4. – Il quadro della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani è del tutto coerente con le conclusioni raggiunte, dal momento che si sta sempre più affermando, in particolare nei procedimenti adottivi, il principio secondo il quale il rapporto affettivo che si sia consolidato all’interno di un nucleo familiare, in senso stretto o tradizionale o comunque ad esso omologabile per il suo contenuto relazionale, deve essere conservato anche a prescindere dalla corrispondenza con rapporti giuridicamente riconosciuti, salvo che vi sia un accertamento di fatto contrario a questa soluzione (cfr., tra gli altri, il caso Moretti e Benedetti contro Italia – ricorso n. 16318 del 2007 – deciso con la sentenza 27 aprile 2010, nella quale viene affrontato un conflitto analogo a quello sopra illustrato in ordine alla sentenza di questa Corte n. 22292 del 2013, ma con soluzione che privilegia la relazione istaurata con gli affidatari provvisori; il medesimo principio è stato affermato nella sentenza Paradiso e Campanelli contro Italia del 27 gennaio 2015 – ricorso n. 25358 del 2012 – la cui fattispecie riguarda un progetto procreativo realizzato mediante gestazione per altri, vietato nel nostro ordinamento).

La Corte, infine, nel caso X ed altri contro Austria (sentenza del 19 febbraio 2013 nel ricorso n. 19010 del 2007), ha riconosciuto anche in tema di adozione del figlio del partner (o adozione cosiddetta “coparentale”) la violazione del principio di non discriminazione stabilito dall’art. 14 della Convenzione in presenza di una ingiustificata disparità di regime giuridico tra le coppie eterosessuali e le coppie formate da persone dello stesso sesso, dal momento che nell’ordinamento austriaco tale forma di adozione era consentita soltanto alle coppie di fatto eterosessuali. La Corte di Strasburgo, al riguardo, ha sottolineato che l’Austria non aveva fornito “motivi particolarmente solidi e convincenti idonei a stabilire che l’esclusione delle coppie omosessuali dall’adozione coparentale aperta alle coppie eterosessuali non sposate fosse necessaria per tutelare la famiglia tradizionale” (par. 151 della sentenza). Il rilievo della pronuncia rispetto al presente giudizio si coglie in relazione all’applicazione del paradigma antidiscriminatorio. Nel caso di una discriminazione fondata sul sesso o l’orientamento sessuale, il margine di apprezzamento degli Stati è limitato, ed il consenso dei medesimi in ordine all’estensione del diritto all’adozione alle coppie formate da persone dello stesso sesso non è immediatamente rilevante (parr.

147, 148, 149), se in concreto si verifica una situazione, come nella fattispecie esaminata dalla Corte, di disparità di trattamento tra coppie di fatto eterosessuali e dello stesso sesso non fondata su ragioni “serie” (non essendovi evidenze scientifiche dotate di un adeguato margine di certezza in ordine alla configurabilità di eventuali pregiudizi per il minore derivanti dall’omogenitorialità, come riconosciuto anche dalla sentenza di questa Corte n. 601 del 2013).

Ne consegue che, coerentemente con i principi sopra affermati, poichè all’adozione in casi particolari prevista dall’art. 44, comma 1, lett. d), possono accedere sia le persone singole che le coppie di fatto, l’esame dei requisiti e delle condizioni imposte dalla legge, sia in astratto (“la constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo”), sia in concreto (l’indagine sull’interesse del minore imposta dall’art. 57, comma 1, n. 2), non può essere svolto – neanche indirettamente – dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questo stabilita con il proprio partner.

Deve sottolinearsi peraltro che, rispetto alla situazione descritta nel par. 91 della sopra citata sentenza X ed Altri contro Austria, il consenso degli Stati aderenti alla CEDU all’adozione legittimante da parte di persone dello stesso sesso e all’adozione cosiddetta coparentale è notevolmente cresciuto rispetto ai dati indicati dalla Corte di Strasburgo nella sentenza medesima: infatti, attualmente, in quattordici Stati (Belgio, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo, Francia, Lussemburgo, Regno Unito, Irlanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Irlanda, Malta, Austria) è consentita l’adozione alle coppie dello stesso sesso, mentre in Germania è possibile l’adozione del figlio del partner, così come in Croazia, Estonia e Slovenia, ma non l’adozione tout court.

4.2.5. – Si rileva, infine, che la L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), entrata in vigore il 5 giugno 2016, non si applica, ratione temporis ed in mancanza di disciplina transitoria, alla fattispecie dedotta in giudizio.

  1. – La circostanza che la parte soccombente è un ufficio del Pubblico Ministero comporta – in conformità con il costante principio, secondo cui l’ufficio del Pubblico Ministero non può essere condannato al pagamento delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza, trattandosi di organo propulsore dell’attività giurisdizionale al quale sono attribuiti poteri, diversi da quelli svolti dalle parti, meramente processuali ed esercitati per dovere d’ufficio e nell’interesse pubblico (cfr., ex plurimis e da ultima, la sentenza n. 19711 del 2015) – che non v’è luogo a provvedere sulle spese del presente grado del giudizio.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Dispone, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, che in caso di diffusione della presente sentenza si omettano le generalità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 26 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2016