Home Approfondimenti Diritto Penale. Concussione: il reato si configura anche se il sindaco ha...

Diritto Penale. Concussione: il reato si configura anche se il sindaco ha cessato l’incarico.

1673
0
CONDIVIDI
Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. Concussione: il reato si configura anche se il sindaco ha cessato l’incarico.

La vicenda che si segnala ai lettori è quella di un sindaco che avrebbe minacciato l’amministratore di una locale casa di riposo perché assumesse due conoscenti. Dalle risultanze processuali, tuttavia, non emerge con chiarezza quando i fatti sarebbero stati commessi e, cioè, se siano temporalmente collocabili quando era ancora in corso la campagna elettorale per le elezioni amministrative comunali e, dunque, quando il ricorrente non aveva ancora assunto alcuna carica istituzionale, ovvero nel periodo successivo alla sua elezione a Sindaco.

Per rispondere all’interrogativo in ordine alla configurabilità del delitto di concussione nel caso di specie, la Suprema Corte rinvia alle linee interpretative ormai da tempo tracciate dalla giurisprudenza di legittimità riguardo all’ambito applicativo dell’art. 360 cod. pen., secondo cui la tutela penale apprestata dall’ordinamento in relazione alla qualità di pubblico ufficiale (o d’incaricato di un pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità) è disposta nel pubblico interesse, che può essere leso o posto in pericolo, non solo durante il tempo in cui il pubblico ufficiale esercita le sue mansioni, ma anche dopo, quando il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica, sempre che il reato dallo stesso commesso si riconnetta all’ufficio già prestato. La disposizione de qua, infatti, non richiede, necessariamente, l’attualità dell’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio, e cioè che l’agente sia titolare dei poteri o della qualità di cui abusa nell’immanenza della condotta criminosa, ma stabilisce, in linea con la concezione oggettivo-funzionale delle qualità e dei poteri correlati alle figure tipicamente modulate dagli artt. 357-358 cod. pen. a seguito delle modifiche introdotte dalla novella legislativa del 1990, un peculiare criterio di collegamento tra la specificità del bene giuridico tutelato dalle relative fattispecie incriminatrici e la concreta capacità offensiva di una condotta la cui realizzazione è in concreto resa possibile proprio dalla natura dell’attività precedentemente esercitata. Siffatta disposizione, dunque, sta ad indicare che una connessione sostanziale tra il fatto commesso e l’ufficio o il servizio in precedenza ricoperto o esercitato può esservi anche nell’ipotesi in cui il potere pubblicistico, ormai, non sia più formalmente esercitabile per l’intervenuta cessazione della relativa qualità “nel momento in cui il reato è commesso”, ma lo stesso sia stato decisivo nel passato.

Occorre tuttavia considerare, precisa la Corte, sotto altro ma connesso profilo, che la norma ex art. 360 cod. pen. costituisce pur sempre un’eccezione alla regola secondo cui le qualifiche soggettive pubblicistiche devono sussistere al momento del fatto, poiché è il possesso di tali qualifiche ad investire il soggetto di quei poteri o doveri il cui abuso o violazione integra il contenuto di disvalore proprio del singolo delitto contro la pubblica amministrazione. Ne consegue, pertanto, l’inapplicabilità di tale previsione normativa nei casi di condotte anteriori all’acquisto della qualifica, ossia quando quest’ultima non sussista ancora al tempo della condotta, ma il fatto commesso si riferisca ad un ufficio o servizio che il soggetto attivo venga ad esercitare in un momento successivo: l’ultrattività della qualifica personale si basa su un collegamento di natura funzionale con il fatto che il legislatore ha in via eccezionale considerato rilevante, ma la tassatività della relativa sequenza temporale impone pur sempre di ritenere che il fatto deve seguire la perdita della qualità, non precederne l’assunzione.

 

 

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE , SENTENZA 4 luglio 2016, n. 27392 – Pres. Conti – est. De Amicis

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 15 settembre 2015 la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza in data 10 luglio 2014, ha assolto B.U. dal reato di violenza privata di cui al capo sub C) e ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine al reato di concussione di cui al capo sub B), previa derubricazione in quello di violenza privata, essendo estinto per l’intervenuto decorso del termine prescrizionale.

Con la medesima pronuncia, inoltre, la Corte d’appello ha confermato nel resto la sentenza impugnata e rideterminato in anni due e mesi otto di reclusione la pena irrogata per il reato di concussione continuata di cui al capo sub A), commesso dall’imputato nella sua qualità di Sindaco del Comune di (omissis) nei primi giorni di luglio 2007, per avere costretto D.B.I. , amministratore unico della società che gestiva la casa di riposo “(omissis) “, ad assumere alle dipendenze di quella società F.A., con le mansioni di custode, e D.L.S. con quelle di assistente sociale, minacciandolo, in caso contrario, che lo avrebbe estromesso dalla gestione della struttura ed avrebbe fatto in modo che il Comune ritardasse l’emissione dei mandati di pagamento relativi alle spettanze periodicamente vantate da quella società per la gestione della casa di riposo.

2. Il difensore di fiducia del B. ha proposto ricorso per cassazione avverso la su indicata decisione, deducendo quattro motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.

2.1. Con il primo motivo si deducono violazioni di legge in relazione agli artt. 317, 360 cod. pen., 530, 533 cod. proc. pen., per avere la Corte d’appello riconosciuto la responsabilità dell’imputato in relazione a condotte tenute in un periodo in cui egli non possedeva la qualifica giuridica richiesta dalla norma incriminatrice. Le asserite frasi minacciose (ossia, la possibile estromissione del D.B. dalla gestione della casa di riposo, ovvero il fatto di impedirgli una “gestione tranquilla”, ed infine il prospettato ritardo nell’emissione dei mandati di pagamento da parte del Comune) sarebbero state rivolte al D.B. quando era in corso la campagna elettorale per le elezioni amministrative, ossia in epoca anteriore all’acquisizione della qualifica soggettiva pubblicistica, in un momento in cui il B. non era ancora sindaco e non poteva dunque abusare di alcuna qualità o potere pubblico. La Corte d’appello, peraltro, ha apoditticamente ritenuto “plausibile” il fatto che alcune richieste siano state avanzate dal B. al D.B. anche dopo le elezioni, ossia una volta ottenuta l’elezione a sindaco, in assenza di qualsivoglia supporto probatorio o indiziario emergente dagli atti, violando in tal modo il criterio decisorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

2.2. Con il secondo motivo si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento all’interpretazione degli artt. 317 e 319-quater cod. pen., là dove è stata riconosciuta la responsabilità dell’imputato per il delitto di concussione (capo sub A), senza considerare l’applicabilità della fattispecie di induzione indebita a dare o a promettere utilità.

Sebbene tale profilo sia stato evidenziato nei motivi d’appello, la Corte distrettuale lo ha ignorato, quando invece dagli atti processuali era univocamente emerso il fatto che il Comune di (OMISSIS) avrebbe avuto tutto il diritto di ritenere inadempiute le obbligazioni assunte dalla Socagen s.a.s. con il contratto di appalto, rifiutando i pagamenti richiesti e agendo anche giudizialmente per la tutela delle proprie ragioni. A fronte delle innumerevoli inadempienze della Socagen – rilevate non solo dal Comune, ma anche dall’ASL e dai Carabinieri dei NAS – l’accondiscendenza del D.B. alle richieste di assunzione avanzate dal Sindaco dovrebbe comunque inquadrarsi nell’ottica di un preciso e specifico tornaconto personale, volto ad evitare che il Comune, proprio in prossimità della scadenza dell’appalto, iniziasse a contestare il puntuale adempimento delle obbligazioni contrattuali e a rifiutare i pagamenti richiesti.

2.3. Con il terzo motivo si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento all’interpretazione dell’art. 192 cod. proc. pen., là dove è stata riconosciuta l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, senza considerare gli elementi di prova – diretta e indiretta – in insanabile contrasto con la ricostruzione dei fatti ritenuta in sentenza in relazione al reato di cui al capo sub A).

Riguardo alla circostanza centrale su cui è basata la condanna, ossia l’aver richiesto l’assunzione del F. – avvenuta con mansioni di guardiano notturno il 3 luglio 2007 – mediante minacce di ritorsioni in caso di mancato accoglimento della richiesta, si deduce, in particolare, che il F. ha sempre negato qualsiasi interessamento specifico dell’imputato per favorirne l’assunzione: sebbene il Comune avesse deciso, già nella seduta del 28 settembre 2007, di tornare alla gestione diretta della casa di riposo alla scadenza del contratto nel gennaio 2008, il D.B. – circostanza, questa, non valutata dalla Corte di merito – non soltanto rinnovò il contratto al F. (per la cui assunzione aveva denunziato il Sindaco), ma addirittura gli assicurò una posizione lavorativa più appetibile, trasformando il rapporto di lavoro da determinato a tempo indeterminato.

La versione dei fatti prospettata dalla persona offesa, peraltro, è stata ritenuta lineare, sebbene l’unico elemento a sostegno delle accuse fosse ravvisabile nel racconto di R.A. – costituitosi parte civile per il reato di violenza privata di cui al capo sub C), dichiarato insussistente dalla Corte d’appello – che in merito alla formulazione di minacce idonee a coartare la volontà della persona offesa ha riferito esclusivamente di una pregressa discussione avvenuta durante la campagna elettorale, nel corso della quale l’imputato avrebbe genericamente richiesto di avere “voce in capitolo” nelle assunzioni, senza mai fare riferimento, pertanto, a specifici soggetti da assumere. Anche il teste P.T. , del resto, ha fornito una descrizione dei fatti radicalmente diversa da quella della persona offesa in merito alle indebite pressioni che sarebbero state esercitate con riguardo all’aspetto del ritardo nella emissione dei mandati di pagamento.

Né, infine, la Corte d’appello ha tenuto conto del fatto: a) che l’affermata esclusione di ogni interesse della persona offesa alla riconferma nella gestione della casa di riposo è contraddetta dalla testimonianza del fratello, D.B.F., che ha invece fatto riferimento all’interesse di D.B.I. a partecipare alla gara d’appalto per il nuovo affidamento della gestione; b) che, in un’ottica più generale, appare singolare ritenere che l’imputato abbia esercitato minacce e pressioni volte ad influire sulle assunzioni presso la Socagen, quando a distanza di pochissimi mesi la gestione della casa di riposo sarebbe tornata ad essere prerogativa diretta del Comune, con il risultato di rendere più agevoli eventuali condotte di tipo “clientelare”.

2.4. Con il quarto motivo si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento all’interpretazione degli artt. 192 e 530 cod. proc. pen., là dove è stata riconosciuta l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, senza considerare gli elementi di prova – diretta e indiretta – in insanabile contrasto con la ricostruzione dei fatti ritenuta in sentenza in relazione alle circostanze attinenti al licenziamento di A.M. (capo sub B), fatto derubricato in violenza privata, con relativa estinzione del reato per prescrizione, in luogo dell’originaria accusa di concussione). Sebbene tale profilo sia stato evidenziato nei motivi d’appello, la Corte distrettuale non lo ha adeguatamente considerato sulla base dei dati emersi in dibattimento, atteso che lo stesso A.M. – peraltro neanche residente nel Comune di (OMISSIS) – non ha mai ricollegato il suo licenziamento del 2007 ad eventuali contrasti politici o personali con il Sindaco, che anzi ha ripetutamente escluso.

La tesi fatta propria dalla Corte d’appello, secondo cui il licenziamento sarebbe dipeso dal fatto che l’Annunziato aveva politicamente sostenuto alle elezioni amministrative del 2007 l’avversario del B. , non solo non è sostenuta da alcun elemento di prova, ma entra in palese contrasto con le emergenze dibattimentali, che hanno posto in evidenza, invece, i rapporti problematici dell’Annunziato con il D.B. , comprovati sia dai continui licenziamenti, seguiti da altrettante assunzioni da parte della Socagen, sia dal dato processualmente pacifico della condanna del A.M. per il reato di minacce e intimidazioni telefoniche in danno dello stesso D.B. , proprio nel corso del 2007.

La Corte d’appello, al riguardo, ha seguito un’ipotesi ricostruttiva diversa tanto dalla contestazione quanto dalla soluzione fatta propria dal Tribunale ed ha inoltre omesso di confrontarsi con la spiegazione alternativa proposta dalla difesa, secondo cui è ragionevole ipotizzare che la decisione di assumere nuovamente l’A. , in data 3 dicembre 2007, era in realtà dovuta ad un ritrovato equilibrio nei rapporti fra i due, a seguito della cessazione degli atti intimidatori in danno del D.B. .

Erano presenti, in definitiva, numerosi dubbi circa l’effettiva riconducibilità del licenziamento, pur sussunto nella diversa fattispecie di cui all’art. 610 cod. pen., ad una richiesta avanzata dall’imputato nei confronti del D.B. .

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è parzialmente fondato e va pertanto accolto nei limiti e per gli effetti qui di seguito esposti e precisati.

2. In ordine al primo ed al terzo motivo di doglianza devono richiamarsi le linee interpretative da questa Suprema Corte ormai da tempo tracciate riguardo all’ambito di applicazione della disposizione normativa dettata nell’art. 360 cod. pen., secondo cui la tutela penale apprestata dall’ordinamento in relazione alla qualità di pubblico ufficiale (o d’incaricato di un pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità) è disposta nel pubblico interesse, il quale può essere leso o posto in pericolo non solo durante il tempo in cui il pubblico ufficiale esercita le sue mansioni, ma anche dopo, quando il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica, sempre che il reato dallo stesso commesso si riconnetta all’ufficio già prestato (Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, Baglivo, Rv. 256596; Sez. 6, n. 20558 del 11/05/2010, Pepoli, Rv. 247394; Sez. 6, n. 134 del 14/07/1981, dep. 1982, Mingacci, Rv. 151500; Sez. 6, n. 9661 del 21/12/1976, dep. 1977, Buonocore, Rv. 136544; Sez. 6, n. 815 del 09/04/1969, Munitello, Rv. 111807; v., inoltre, Sez. 5, n. 22203 del 26/02/2008, Boccassini, Rv. 240439).

La su indicata disposizione, infatti, non richiede, necessariamente, l’attualità dell’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio, e cioè che l’agente sia titolare dei poteri o della qualità di cui abusa nell’immanenza della condotta criminosa, ma stabilisce, in linea con la concezione oggettivo-funzionale delle qualità e dei poteri correlati alle figure tipicamente modulate dagli artt. 357-358 cod. pen. a seguito delle modifiche introdotte dalla novella legislativa del 1990, un peculiare criterio di collegamento tra la specificità del bene giuridico tutelato dalle relative fattispecie incriminatrici e la concreta capacità offensiva di una condotta la cui realizzazione è in concreto resa possibile proprio dalla natura dell’attività precedentemente esercitata. Siffatta disposizione, dunque, sta ad indicare che una connessione sostanziale tra il fatto commesso e l’ufficio o il servizio in precedenza ricoperto o esercitato può esservi anche nell’ipotesi in cuì il potere pubblicistico, ormai, non sia più formalmente esercitabile per l’intervenuta cessazione della relativa qualità “nel momento in cui il reato è commesso”, ma lo stesso sia stato decisivo nel passato.

Occorre tuttavia considerare, sotto altro ma connesso profilo, che la norma delineata nell’art. 360 cod. pen. costituisce pur sempre un’eccezione alla regola secondo cui le qualifiche soggettive pubblicistiche devono sussistere al momento del fatto, poiché è il possesso di tali qualifiche ad investire il soggetto di quei poteri o doveri il cui abuso o violazione integra il contenuto di disvalore proprio del singolo delitto contro la pubblica amministrazione. Ne consegue, pertanto, l’inapplicabilità di tale previsione normativa nei casi di condotte anteriori all’acquisto della qualifica, ossia quando quest’ultima non sussista ancora al tempo della condotta, ma il fatto commesso si riferisca ad un ufficio o servizio che il soggetto attivo venga ad esercitare in un momento successivo: l’ultrattività della qualifica personale si basa su un collegamento di natura funzionale con il fatto che il legislatore ha in via eccezionale considerato rilevante, ma la tassatività della relativa sequenza temporale impone pur sempre di ritenere, al fine qui considerato, che il fatto deve seguire la perdita della qualità, non precederne l’assunzione.

2.1. Ciò posto, deve ritenersi che nel caso in esame non sia stato fatto buon governo di tale quadro di principii, poiché non emerge con chiarezza dalla motivazione della sentenza impugnata se le diverse manifestazioni di comportamento minaccioso descritte nel tema d’accusa, e dai Giudici di merito ritenute sintomatiche di una condotta concussiva, 1.

Al riguardo, in particolare, la Corte d’appello non si è espressa con certezza sul fondamento giustificativo dell’affermata responsabilità, ma solo in termini di “plausibilità”, per un verso muovendo dall’argomento che le richieste di assunzione del F. e della D.L. (della quale, peraltro, non è chiaro se la società del D.B. abbia effettivamente provveduto ad assumerla alle sue dipendenze) sarebbero state effettuate dal B. già durante la campagna elettorale e poi reiterate, con ben altra efficacia, in epoca successiva alle elezioni amministrative, per altro verso, ed al contempo, omettendo, tuttavia, di precisare tempi, forme e note modali della condotta concussiva all’interno di una congrua ed esaustiva ricostruzione di tale, decisiva, fase temporale.

É noto, del resto, l’insegnamento di questa Suprema Corte (Sez. 1, n. 17921 del 03/03/2010, Giampà, Rv. 247449; Sez. 2, n. 2548 del 19/12/2014, dep. 2015, Segura, Rv. 262280), secondo cui la regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” impone di pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura”, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. All’interno di tale prospettiva ermeneutica, inoltre, la Corte ha precisato che il procedimento logico deve condurre ad una conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale, quindi alla “certezza processuale” che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio.

In relazione ai profili ricostruttivi dal ricorrente contestati, e già fatti oggetto di puntuali obiezioni mosse in sede di gravame (v., in narrativa, i parr. 2.1. e 2.3.), non rileva tanto il fatto che le assunzioni siano avvenute in epoca successiva alle elezioni amministrative, come mostra di ritenere la sentenza impugnata, quanto la circostanza che le stesse siano state effettivamente determinate da un comportamento minaccioso che avrebbe condizionato l’agire del D.B. nel periodo in cui il B. aveva già assunto la carica di Sindaco.

Nel richiamare le emergenze probatorie valutate dal Giudice di primo grado, peraltro, la Corte distrettuale ha fatto riferimento, in particolare, a due vicende storico-fattuali (ossia, ad un primo incontro organizzato nell’abitazione di tale Pr.Ro. e ad un secondo incontro avvenuto, su richiesta di tale P.T. , presso l’Hotel (OMISSIS) ), valorizzandone l’incidenza nella prospettiva accusatoria, ma al contempo riconoscendo, in modo del tutto contraddittorio, che le stesse sarebbero temporalmente collocabili nel corso della campagna elettorale del 2007.

Non appare specificamente argomentato, inoltre, anche sotto il necessario profilo dell’inquadramento temporale, il passaggio della motivazione in cui la Corte territoriale mostra di attribuire una connotazione di decisività al riscontro che il teste R.A. avrebbe fornito riguardo alle modalità di assunzione del F. e, più in generale, alla natura dei rapporti esistenti tra l’imputato e il D.B. .

Né, infine, hanno costituito oggetto di un puntuale vaglio critico-argomentativo in sede di appello le ragioni dalla difesa prospettate nel secondo motivo di ricorso (v., in narrativa, il par. 2.2.), a sostegno dell’invocata applicabilità della diversa, e meno grave, fattispecie delittuosa di cui all’art. 319-quater cod. pen..

3. Infondato, di contro, deve ritenersi il quarto motivo di ricorso poiché, alla luce dei principii ormai a tempo stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte (Sez. Un., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275), in presenza di una causa di estinzione del reato non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione o cause di nullità della sentenza impugnata, poiché il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva.

Ne discende che nel giudizio di cassazione, relativo ad una sentenza che ha dichiarato la prescrizione del reato, non sono rilevabili nullità di ordine generale, né vizi di motivazione della decisione impugnata, salvo che l’operatività della causa di estinzione del reato presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, nel qual caso assumerebbe rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio (Sez. 2, n. 2545 del 16/10/2014, dep. 2015, Riotto, Rv. 262277; Sez. 5, n. 588 del 04/10/2013, dep. 2014, Zambonini, Rv. 258670).

I profili di doglianza al riguardo articolati dal ricorrente, invero, non tengono conto del fatto che il proscioglimento nel merito può derivare solo dall’evidenza dell’innocenza dell’imputato, così come richiesto dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., evidenza che il Giudice di merito, di contro, ha escluso con motivazione immune da vizi logico-giuridici ictu oculi percepibili: essi, infatti, si basano su censure che non possono trovare ingresso in questa Sede, poiché la loro formulazione investe pretesi vizi motivazionali in cui sarebbe incorsa la pronuncia impugnata, lamentando carenze di accertamento, ovvero erronee valutazioni degli atti processuali, senza dimostrare affatto che la sentenza avrebbe dovuto prosciogliere nel merito l’imputato secondo il criterio direttivo imposto dalla su indicata disposizione normativa, ma limitandosi a reiterare in questa Sede argomenti e deduzioni già esaminati nei loro profili storico-fattuali, e nelle competenti sedi di giudizio coerentemente disattesi in ordine ai presupposti, alla riferibilità soggettiva ed alle ragioni della condotta oggetto del correlativo tema d’accusa.

4. Sulla base delle su esposte considerazioni, conclusivamente, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo sub A), con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello in dispositivo indicata, rigettandosi nel resto il ricorso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo A) e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro. Rigetta nel resto il ricorso.