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Anche le minacce e le molestie reiterate nei confronti di un conoscente e suoi familiari possono rappresentare “stalking”.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Anche le minacce e le molestie reiterate nei confronti di un conoscente e suoi familiari possono rappresentare “stalking”.

E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione nella recente sentenza n.38233/2016 del 14 settembre, valutando la condotta di chi, rivolgendo gravi minacce di morte e violenza ad un uomo, sua moglie e sua sorella, seguendoli negli spostamenti e avvicinandoli armato in ore notturne, ha generato in questi un perdurante stato di ansia.

La Corte ha preliminarmente osservato come il legislatore, nell’introdurre il reato di cui all’art. 612bis c.p., <<ha voluto colmare un vuoto di tutela ritenuto inaccettabile rispetto a condotte che, ancorché non violente, recano un apprezzabile turbamento nella vittima.>>

La norma quindi ha la funzione di tutelare anticipatamente la libertà personale e l’incolumità psico-fisica con l’incriminazione di quelle condotte, gli atti persecutori appunto, apparentemente inoffensivi ma potenzialmente lesivi del bene tutelato dalla norma; difatti, il legislatore, non ha lasciato spazio alla occasionalità della condotta bensì questa necessariamente deve colorarsi del carattere dell’abitualità.

L’essenza dell’incriminazione, spiega in sentenza la Corte, si trova proprio nella reiterazione degli atti persecutori, <<è dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è per l’appunto alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità.>>

E’ evidente quindi che l’evento deve necessariamente essere conseguenza di una condotta abituale e reiterata tale da generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio tale da scaturire poi, a causa della ripetizione degli atti, in perdurante e grave stato di ansia o di paura per l’incolumità propria o di altre persone legate da una relazione affettiva, come descritto nella norma incriminatrice (612 bis c.p.), alterando le abitudini di vita della vittima.

Infine la Corte ribadisce anche il concetto di “cambiamento di abitudini di vita”, sottolineando come, per la sua individuazione, bisogna guardare alle modalità con cui gli atti persecutori hanno inciso sulla vita della vittima e dunque le conseguenze emotive che questa subisce e non a valutare semplicemente la quantità delle variazione apportate.

Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 25-08-2016) 14-09-2016, n. 38233

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE FERIALE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUMO Maurizio – Presidente –

Dott. SAVINO M. G. – Consigliere –

Dott. MICCOLI Grazia – rel. Consigliere –

Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere –

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.E., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 23/09/2015 della CORTE APPELLO di LECCE;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/08/2016, la relazione svolta dal Consigliere GRAZIA MICCOLI;

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. Stefano TOCCI, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Per la parte civile, l’avv. Angelo VALENTE ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità ovvero il rigetto del ricorso e ha depositato nota spese;

Per l’imputato, l’avv. Roberto Aldo BRAY ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

  1. Con sentenza del 23 settembre 2015 la Corte d’appello di Lecce ha confermato la pronunzia di primo grado con la quale G.E. era stato riconosciuto colpevole del reato di atti persecutori, per aver reiteratamente minacciato e molestato N.S., sua moglie D.M.G. e la sorella D.M.S., seguendoli negli spostamenti, recandosi anche armato presso la rivendita di tabacchi della famiglia N. – D.M. e rivolgendo loro gravi minacce di morte ed ingiurie, nonchè sostando nei pressi delle rispettive abitazioni, anche in ore notturne, per provocare nei predetti un perdurante stato di ansia.

Sono state confermate anche le statuizioni civili della sentenza di primo grado e l’imputato è stato condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile.

  1. Con atto sottoscritto dal suo difensore ha proposto ricorso l’imputato, deducendo i seguenti motivi.

2.1. Con il primo il ricorrente denunzia vizi motivazionali in ordine alla valutazione delle prove, con specifico riferimento al giudizio di attendibilità e sufficienza delle dichiarazioni delle persone offese, costituite parti civili. In particolare, sostiene il ricorrente che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto del “grave conflitto economico sussistente tra le parti”.

2.2. Con il secondo motivo viene denunziata violazione di legge in relazione all’art. 612 bis c.p..

Il ricorrente sostiene che non sarebbe configurabile la fattispecie degli atti persecutori e che vi sarebbe stata una errata valutazione delle risultanze processuali.

 

Motivi della decisione

 

Il ricorso è inammissibile.

  1. Va detto, in via generale, che tutte le doglianze, oltre ad essere ripetitive e senza alcuna effettiva correlazione con la motivazione della sentenza impugnata, reiterano in buona parte i motivi già dedotti con l’appello e che la Corte territoriale ha specificamente valutato.

Va in proposito rammentato il principio di diritto secondo il quale la mancanza di specificità del motivo deve essere apprezzata1non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, che comporta, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c) l’inammissibilità (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 4, 18.9.1997 – 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Sez. 5, 27.1.2005 – 25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Sez. 5, 12.12.1996, n. 3608, p.m. in proc. Tizzani e altri, rv. 207389).

  1. Una serie di censure mosse dal ricorrente in entrambi i motivi implicano valutazioni di fatto, che non possono essere sottoposte a questa Corte, neppure alla luce del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., lett. e); la modifica normativa di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 lascia inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo pii legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito (Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567).

Peraltro, l’esame del provvedimento consente di apprezzare come la motivazione del giudice d’appello sia congrua ed improntata a criteri di logicità e coerenza.

Nè può trascurarsi che la sentenza impugnata ha confermato quella di primo grado, sicchè vanno ribaditi anche i principi secondo i quali, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi a una “doppia pronuncia conforme” l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi e altro, Rv. 258438).

  1. Va detto inoltre che i giudici di merito non hanno affatto trascurato gli argomenti della difesa, ma hanno anche evidenziato che sussistono prove sufficienti a fondare un giudizio di responsabilità per le condotte persecutorie realizzate dall’imputato ed indicate nel capo di imputazione, che fa specifico riferimento ad una serie di episodi verificatisi dall'(OMISSIS).
  2. In via generale si rileva chetcon l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., il legislatore ha voluto, prendendo spunto dalla disciplina di altri ordinamenti, colmare un vuoto di tutela ritenuto inaccettabile rispetto a condotte che, ancorchè non violente, recano un apprezzabile turbamento nella vittima.

Il legislatore ha preso atto però che la violenza (declinata nelle diverse forme delle percosse, della violenza privata, delle lesioni personali, della violenza sessuale) spesso è l’esito di una pregressa condotta persecutoria; pertanto, mediante l’incriminazione degli atti persecutori,si è inteso in qualche modo anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisio-psichica attraverso l’incriminazione di condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie per così dire minori, quali la minaccia o la molestia alle persone.

E’ peraltro utile ricordare come, per il consolidato insegnamento di questa Corte, integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte tra quelle descritte dall’art. 612 bis c.p., come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 46331 del 5 giugno 2013, D. V., Rv. 257560). Invece, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato d’ansia e di paura che è indicato come l’evento naturalistico del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma in esame, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi: e ciò in aderenza alla volontà del legislatore il quale, infatti, non ha lasciato spazio alla configurazione di una fattispecie solo “eventualmente” abituale (Sez. 5, n. 48391 del 24/09/2014, C, Rv. 261024).

Il delitto, inoltre, è configurabile anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 33563 del 16/06/2015, B, Rv. 264356).

Trattandosi di reato abituale è la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza ed in tal senso l’essenza dell’incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo. E’ dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è per l’appunto alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato. In tale ottica il fatto che tale evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui repressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacchè alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’art. 612 bis c.p..

Indubbiamente l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T, Rv. 262636).

Va detto, peraltro, che, ai fini della individuazione dell’evento cambiamento delle abitudini di vita, occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate. (Sez. 5, n. 24021 del 29/04/2014, G, Rv. 260580).

  1. Alla luce di quanto precisato, appare del tutto infondato l’assunto della difesa del ricorrente in ordine alla insussistenza degli elementi costitutivi del reato di atti persecutori.

La Corte territoriale e il giudice di primo grado hanno ricostruito in maniera puntuale i fatti che hanno dato luogo all’imputazione ex art. 612 bis c.p., evidenziando l’attendibilità delle dichiarazioni rese dalle persone offese, le quali hanno raccontato dei plurimi episodi persecutori, di cui era stata vittima pure la minore Giovanna D.M., figlia della coppia N. – D.M. (si veda la ricostruzione dei fatti come puntualmente operata nella sentenza di primo grado e richiamata in quella di appello).

I giudici di merito si sono peraltro adeguatamente posti il problema della valutazione dell’attendibilità delle persone offese e della necessità di sottoporre le loro dichiarazioni ad una disamina particolarmente approfondita e penetrante. E’ il caso, infatti, di rimarcare che le dichiarazioni della persona offesa – cui non si applicano le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, – possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, solo più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214; tra le più recenti, Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104).

Della suddetta verifica anche la Corte di appello ha dato conto, evidenziando la correttezza delle valutazioni fatte dal Tribunale ed indicando i riscontri alle dichiarazioni delle persone offese (pag. 2 e 3 della sentenza).

La persone offese hanno anche riferito dello stato di paura e tormento cui erano state sottoposte, nonchè degli incisivi condizionamenti sulla loro vita privata provocati dalla condotta persecutoria dell’imputato.

Peraltro non ci sono dubbi anche sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato. In proposito, va detto che, trattandosi di reato abituale di evento, il dolo è da ritenersi senz’altro unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la Condotta tipica; ma ciò non significa affatto che l’agente debba rappresentarsi e volere fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi, ben potendo il dolo realizzarsi in modo graduale e avere ad oggetto la continuità nel complesso delle singole parti della condotta.

Si tratta, peraltro, di dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, e che, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C e altro, Rv. 260411).

  1. La declaratoria di inammissibilità del ricorso comporta la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e (ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità) di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile nella misura qui di seguito indicata in dispositivo. Il reato contestato impone l’oscuramento dei dati.

 

P.Q.M.

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonchè al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in complessivi 2000,00 Euro oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto per legge.

Così deciso in Roma, il 25 agosto 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2016