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Immigrazione – Diritto dello straniero pregiudicato al rilascio del permesso di soggiorno, al fine da accudire il figlio minore

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Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 15750 del 12 giugno 2019, hanno introdotto rilevanti novità in materia di immigrazione, chiarendo, in particolare, le circostanze che legittimerebbero lo straniero, sprovvisto di permesso di soggiorno a causa del suo “status” di pregiudicato, ad ottenere un’autorizzazione a rimanere nel territorio italiano, per accudire i figli minori. La Suprema Corte, con la pronuncia “de qua“, ha affermato il principio di diritto in base al quale è da escludersi che il provvedimento di condanna emesso nei confronti dell’immigrato per uno dei reati che il T.U. Immigrazione considera ostativi all’ingresso o al soggiorno dello straniero possa determinare, automaticamente, il rigetto dell’istanza di autorizzazione. La Corte ha, infatti, configurato il diniego quale esito di un “iter” processuale durante il quale sia stato accertato il compimento, da parte del richiedente, di attività concretamente ed oggettivamente lesive dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale. Sostanzialmente, ad avviso delle Sezioni Unite, è compito del giudice effettuare, in opportuna sede, un esame circostanziato del caso di specie, operando un bilanciamento tra l’interesse alla salvaguardia dell’incolumità pubblica con l’interesse del minore, al quale, se in presenza di gravi motivi connessi con il suo sviluppo psicofisico, si attribuisce valore prioritario, ma non assoluto.

Il caso di specie. La Prima Sezione della Corte di Cassazione sottoponeva all’interesse delle Sezioni Unite una questione interpretativa alquanto controversa, in quando la Corte era chiamata a pronunciarsi in ordine alla possibilità di riconoscere il diritto di un padre di origine albanese, sprovvisto di permesso di soggiorno, a permanere nel territorio italiano per accudire, insieme alla moglie, anch’essa di origine albanese, i figli minori, presenti in Italia.  Sul richiedente incombevano diverse pronunce di condanna per reato di traffico di sostanze stupefacenti e di estorsione, circostanza, questa, ritenuta, dapprima dal Tribunale dei Minorenni dell’Aquila ed, in seguito, dalla Corte di Appello di Abruzzo, incompatibile, nonché ostativa, della sua permanenza in Italia. I giudici di prime cure, inoltre, avevano giustificato il rigetto dell’istanza di autorizzazione, promossa da i due coniugi, con la considerazione che nel caso oggetto d’esame non erano state ravvisate, né sufficientemente provate, delle condizioni di emergenza che ponevano in grave pericolo l’evoluzione normale della personalità del minore e che potevano, in un certo qual modo, avallare l’applicazione del disposto di cui all’art. 31, co 3 T.U. Immigrazione.

Il “decisum”. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto di dover prendere in considerazione, quale punto di partenza per la soluzione della controversa questione, il dato letterale del citato art. 31, comma 3, T.U. Immigrazione, il quale così dispone: ” il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni contenute nella stessa normativa.“ La Suprema Corte ha sostenuto, nello specifico, che, alla luce della suddetta norma, il giudice competente sulla richiesta di autorizzazione all’ingresso o alla permanenza del familiare, è tenuto, in primo luogo, ad accertare la sussistenza di gravi motivi incidenti sullo sviluppo psichico e/o fisico del minore che si trova in Italia. Dunque, l’allontanamento della figura paterna deve costituire un evento intriso da una gravità suscettibile di ingenerare una vera e propria alterazione dello stato emotivo del minorenne e comprometterne la crescita: tale circostanza costituisce il presupposto ai fini del rilascio del permesso di soggiorno. La Cassazione ha osservato, poi, che se il richiedente è un “pregiudicato”, titolare di comportamenti incompatibili con la sua permanenza o il suo ingresso in Italia, in quanto concretamente contrastanti con l’ordine pubblico, al giudice adito spetta il compito di esaminare le condotte imputate all’istante, intese nel loro complesso, sulla base di un bilanciamento di contrapposti interessi; se egli, una volta effettuato l’esame, perviene alla conclusione che l’attività tenuta dal medesimo costituisce una grave minaccia per l’incolumità pubblica, può decidere di rigettare l’istanza di autorizzazione a soggiornare nel nostro Stato. Sul punto, le Sezioni Unite hanno precisato che l’intento del legislatore di privilegiare ed al contempo tutelare l’interesse del minore deve fronteggiare l’esigenza di tutelare la sicurezza nazionale e di evitare che possa essere compromessa. L’interesse del minore a non essere privato della figura genitoriale fino ad allora presente nella sua vita di relazione, infatti, non ha carattere assoluto: è prioritario ma non al punto tale da sacrificare l’ordine pubblico e la sicurezza del nostro Stato. Conformemente alle considerazioni “de quibus”, le Sezioni Unite hanno deciso, infine, di accogliere il primo motivo di ricorso, convenendo sull’impossibilità di far dipendere automaticamente il diniego del permesso da sentenze di condanna per uno dei reati che il T.U. Immigrazione unico qualifica come ostativi all’ingresso o al soggiorno dello straniero nel nostro territorio. Tuttavia, secondo la Suprema Corte, i provvedimenti di condanna emessi nei confronti dell’immigrato richiedente possono avallare una pronuncia di rigetto dell’istanza di autorizzazione quando, nel corso di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore, si accerta che le attività facenti capo all’immigrato costituiscono una minaccia grave per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale.