Home Diritto e procedura penale La Corte Edu sull’ergastolo ostativo: “Legge da riformare”

La Corte Edu sull’ergastolo ostativo: “Legge da riformare”

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La grande Camera della Corte di Strasburgo, con la recente pronuncia del 9 Ottobre, ha respinto il ricorso promosso dal Governo italiano, palesando un orientamento teso a disconoscere la compatibilità della disciplina nazionale dell’ergastolo ostativo con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

In particolare, la stessa ha ritenuto che il disposto di cui all’art 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, si pone in netto contrasto con il divieto, sancito dall’art 3 Cedu, di trattamenti “inumani e degradanti”.

La legge in questione, secondo la Grand Chambre, andrebbe riveduta, dal momento che lede profondamente la dignità dell’ergastolano, negandogli la possibilità di ottenere sconti di pena o misure alternative, a meno che non decida di collaborare con la giustizia.

La conclusione cui è addivenuta, senza alcun dubbio, alimenta perplessità in chi eleva l’art 4 bis a strumento teso a fronteggiare i frequenti episodi terroristi e/o a stampo mafioso ed a soddisfare, al contempo, le esigenze di tutela della sicurezza nazionale.

Il timore è che la pronuncia della Grande Camera possa avallare ricorsi, contro lo Stato, di boss della mafia, nei confronti dei quali, in ragione della particolare gravità dei reati commessi, è stata irrogata la misura denominata, per le sue peculiarità, “fine pena mai”.

Caso di specie. I problemi di compatibilità del citato art 4 bis con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono emersi con riguardo alla vicenda giudiziaria del Boss della ndrangheta Marcello Viola, condannato alla pena dell’ergastolo per i reati di: associazione a delinquere di stampo mafioso; sequestro di persona; omicidio ed, infine, possesso illegale di armi.

In un primo momento, Viola viene sottoposto al regime di carcere duro, ai sensi dell’art 41 bis, successivamente sospeso.

Il condannato chiede che venga lui concessa la libertà convenzionale, ma gli viene negata, in virtù dell’art 4 bis l. 26 luglio 1975 n.354, con la motivazione che, in assenza di collaborazione con la giustizia, non aveva alcun diritto ad accedere ai benefici penitenziari.

Viola, quindi, si rivolge alla Corte EDU, la quale, con sentenza emessa nel Giugno 2019, si pronuncia in suo favore e “condanna” l’ergastolo ostativo, poiché lo reputa contrario all’Art. 3 CEDU, che, come suddetto, sancisce il principio della dignità umana.

Il Governo Italiano, pertanto, presenta ricorso alla Grande Camera della Corte EDU, affinchè venga riconosciuta la compatibilità della norma contestata con la Convenzione, sottolineando, a favore della sua richiesta, che la Corte Costituzionale, nel 2003, aveva dichiarato l’art. 4 bis legittimo costituzionalmente e conforme all’art. 27, 3 co Cost.

Il giudice delle leggi, nella richiamata sede, aveva osservato che l’art. 4 bis non preclude in via assoluta l’accesso a sconti di pena o misure alternative, in quanto pone, come condizione, la scelta del condannato di collaborare con la Giustizia.

Secondo il Governo italiano, la decisione dell’autorità giudiziaria di negare a Viola la libertà condizionale era dipesa da una sua omissione, dalla sua rinuncia a collaborare con la giustizia.

Non sussistevano, dunque, ragioni per ritenere che egli avesse subito un trattamento inumano o degradante.

Il decisum. La grande Camera della Cedu, chiamata ad esprimersi sul punto, ha rigettato il ricorso dell’Italia, invitandola a rivedere la legge in materia di ergastolo ostativo, auspicando un intervento normativo atto a conferire all’autorità giudiziaria il potere di “ammorbidire” il regime sanzionatorio ove si evidenzino progressi del detenuto che non si presentino necessariamente sotto forma di collaborazione di giustizia.

La Grand Chambre, dando conferma di quanto enunciato nella contestata sentenza Cedu del giugno 2019, ha “bocciato” la regola dell’automatismo ostativo, negando la presunzione in base alla quale la mancata collaborazione derivi dall’assenza di progressi dell’ergastolano nel processo di rieducazione.

Nello specifico, ella ha osservato che la legislazione italiana non tiene conto della possibilità che la mancata collaborazione, talvolta, deriva da una motivazione diversa, ossia dal timore di ritorsioni, dalla paura che, collaborando con l’autorità giudiziaria, si possa mettere in serio pericolo la vita dei propri familiari.

Negare al condannato i benefici penitenziari per la sola circostanza rappresentata dalla scelta personale di non “collaborare”, senza indagare sui motivi di tale omissione, equivale a sottoporre il reo ad un trattamento lesivo della sua dignità, contrario alle disposizioni dell’art 3 Cedu.

Stando a tale considerazione, la mancata collaborazione con la giustizia non presume, in via automatica, l’assoluta pericolosità sociale del reo.

E’ compito del giudice verificare, caso per caso, l’andamento del processo rieducativo innestato con il regime sanzionatorio, valutando la sussistenza o meno di progressi che possano giustificare la concessione di trattamenti più favorevoli.

L’indagine del giudice deve spingersi, ove si palesi un rifiuto del reo a collaborare, fino alle cause alla sua base, senza ritenere che l’omissione “de qua” sia indice inequivocabile del mancato ravvedimento del condannato e del suo intento di salvaguardare il proprio legame con l’associazione a delinquere.

Pertanto, alla luce di tali osservazioni, la Grande Camera ha ribadito la necessità che il legislatore italiano riconosca all’ergastolano, attraverso un intervento “ad hoc”, la possibilità di un recupero sociale, ammettendo la concessione di un regime sanzionatorio distensivo, ove ne ricorrano i presupposti.