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Contro il declino della Corte Suprema di Cassazione

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di Massimo Krogh

Il nostro ordinamento prevede tre gradi di giudizio ordinario, due di merito, uno di legittimità. Quello di legittimità, attraverso l’istituto dell’annullamento con rinvio per difetto di motivazione, potrebbe dar luogo ad una ripetizione prolungata del processo in modo teoricamente indefinito. Nel sistema dei gravami ordinari, s’innestano poi gli eventuali ricorsi di natura incidentale, riguardanti ad es. i provvedimenti coercitivi.

In effetti, insieme ad altre, questa è una delle cause dell’incredibile durata del processo che mortifica la giustizia italiana all’interno del Paese, ma anche davanti al mondo. La riflessione sul pericolo di un declino della Cassazione non può ovviamente ignorare che già vi è un declino in atto della giustizia, della quale la Cassazione è il rappresentante più alto e più sovraesposto. Un declino, quello della giustizia penale, che forse non ha precedenti.

Questi gravami a prima vista eccessivi, in quanto causa d’insopportabili ritardi, corrispondono ad una strutturazione verticistica del processo più consona al processo inquisitorio, che peraltro l’Italia ha abbandonato, che a quello accusatorio oggi vigente. A questo proposito non posso fare a meno di recitare un “mea culpa”. Nel 1988, come tutti gli avvocati, fui favorevole all’introduzione del rito accusatorio, tipico dell’area anglosassone e concettualmente più avanzato. Ma in questo fervore per il nuovo trascurammo che il c.d. “giusto processo” fu istituito nel mondo anglosassone con la Magna Charta nel 1215, cioè lo stesso anno in cui il IV Concilio Lateranenze istituiva come legittima l’Inquisizione. Noi pensammo, ingenuamente, che otto secoli di cultura dei diritti potessero colmarsi con un codice nuovo. Ed è qui l’incongruenza, mi spiego.

Nel processo penale vigente, l’ufficio d’accusa ha una forza obiettiva rispetto alla difesa, nel senso che domina la fase delle indagini con i poteri funzionali nascenti dalla legge ed i maggiori mezzi di cui il pubblico ministero dispone rispetto agli studi dei difensori. Nella fase delle indagini si crea l’impianto del processo, che poi – spesso dopo anni – non è agevole contrastare. E nella fase delle indagini la difesa è pressoché assente. Nel nostro squilibrato sistema, la parità accusa-difesa si realizza solo al dibattimento, dunque molto tardi.

Questo crea una situazione di debolezza dell’imputato, cui occorre rimediare. E lo si fa attraverso l’abbondanza dei gravami, che peraltro allungano in modo esagerato il processo, fra l’altro con grave nocumento per gli innocenti messi sotto accusa, che non sono pochi. Nel vero rito accusatorio, non quello virtuale che c’è da noi, questo problema non esiste, poiché la reale parità delle parti sin dalle prime battute consente una diversa e ben più rapida gestione del giudizio. Quando vi fosse un’effettiva parità fra le parti dall’inizio, l’imputato non arriverebbe al processo con la presunzione d’innocenza talvolta capovolta in presunzione di colpevolezza, sicché non vi sarebbe bisogno di tanti reclami e gravami. Soprattutto, l’oralità sarebbe immediata, e così l’acquisizione delle prove. Dunque, alla carenza di garanzie orizzontali – parità, oralità, immediatezza, quali verrebbero da un’eguaglianza di poteri istituita sin dall’inizio del processo – si rimedia con una concezione garantistica di tipo verticale, che per il numero d’impugnative possibili, allunga nel modo che sappiamo la definizione del giudizio, spesso portando alla prescrizione anche reati molto gravi. Questo sistema verticistico ricade pesantemente sul giudizio di legittimità. Tutto arriva in Cassazione. L’amplificazione della prescrizione, ha indotto, a me pare, la Cassazione all’amplificazione applicativa dell’inammissibilità, troppo spesso dichiarata proprio per evitare la prescrizione, anche quando il ricorrente non la meriterebbe. Ciò può essere in qualche modo comprensibile, ma non so quanto aderente alla funzione di legittimità.

La funzione nomofilattica della Cassazione è soprattutto quella di assicurare la certezza del diritto attraverso l’uniformità dell’interpretazione normativa, che a livello di Sezioni Unite dovrebbe essere diritto vivente. Uso il condizionale non a caso, perché non è sempre così. Quando vi è una violazione di legge, è prevista la possibilità del c.d. ricorso per saltum, cioè si può andare direttamente in Cassazione, senza passare per il giudizio di appello. L’art. 65 dell’Ord. Giudiziario del 1941 già sanciva tale funzione garantistica dell’uniformità dell’applicazione del diritto da ottenere fornendo gli indirizzi interpretativi perché l’uniformità si realizzi. L’uniformità della giurisprudenza è in coerenza al principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Principio che resta turbato dai contrasti giurisprudenziali. Ovviamente la libertà di giudizio riservata al giudice italiano, anche culturalmente influenzata dal principio del libero convincimento, crea problemi rispetto al problema della nomofilachia. La storia dei contrasti nei percorsi giurisprudenziali è impressionante. Nel 1990 (Moneta) uscì un saggio sui contrasti, riguardava quelli civili ma la cosa non cambia granché, che avvilisce. Naturalmente, alla base di ciò è anche il numero ingovernabile dei ricorsi e la diversità delle fattispecie che può rompere l’uniformità degli indirizzi. Io penso che il rischio di declino della Cassazione sia legato al numero eccessivo di ricorsi che è costretta a esaminare. Gli avvocati sono tendenzialmente contrari ad ogni riduzione della possibilità di ricorrere, ma non credo che lo sarebbero se la riduzione fosse non già punitiva ma capace di razionalizzare il sistema. Ad es. potrebbe abolirsi il ricorso per saltum o il ricorso immediato per le ipotesi contravvenzionali minori per alcune delle quali sarebbe forse ragionevole abolire proprio il gravame di legittimità.

Prima che nel 1988 s’introducesse il principio dell’immanenza del vizio nello stesso testo della sentenza, molti ricorsi denunciavano la mancanza o illogicità della motivazione sotto il profilo che il giudice di merito avrebbe travisato i fatti.

Dottrina e giurisprudenza intervennero con un lungo e travagliato dibattito nel senso che l’esame del travisamento dei fatti imponeva al giudice di legittimità un ingresso nel merito che non gli era consentito. Sicché, si arrivò alla riforma del 1988 secondo cui il vizio di motivazione doveva risultare dal testo della sentenza.

Peraltro, qui si aprì un altro dibattito, che poi portò alla riforma Pecorella. In quanto, inibendosi ogni riferimento ai fatti risultanti dagli atti del processo, diveniva molto difficile per il ricorrente dimostrare eventuali vizi di carenza e contraddittorietà che fossero realmente esistenti. Di qui, la modifica del 2006, per la quale il vizio di motivazione può essere dedotto anche per un’incompatibilità della decisione con atti del processo. Ed ha fatto nuovamente capolino il profilo del travisamento di fatto, che però la giurisprudenza della Cassazione ha rimosso introducendo il concetto del “travisamento della prova”.

Sulla riforma Pecorella torna opportuno richiamare i principi base fissati dalla Cassazione, fissati nelle seguenti tre sentenze: Cass. pen., sez. VI, 24/03/2006; Cass. pen., sez. V. 12/04/2006; Cass. pen., sez. II 07/06/2006.

Da queste tre sentenze emerge in modo chiarissimo che non può toccarsi il fatto e che l’incompatibilità della decisione con “altri atti del processo” dev’essere tale da disarticolare l’intero ragionamento su cui si fonda la sentenza impugnata, la cui motivazione va sempre valutata in una visione unitaria e globale dei singoli atti; che gli “altri atti del processo” devono essere tali che rispetto ad essi risulti violato, da parte del giudice, un obbligo di pronuncia, per essere stati ignorati benché dedotti; che infine l’indicazione degli “altri atti del processo” può essere soddisfatta nei modi più diversi, senza però che la Cassazione sia costretta ad una rilettura dell’intero processo divenendo un giudice di merito.

Un aspetto che va specificamente osservato è quello che riguarda il vizio della “contraddittorietà” della motivazione. A me sembra, stando al significato letterale della parola “contraddittorietà”, che questo vizio non può che risultare dalla stessa sentenza, cioè da argomenti che nell’iter argomentativo del giudice risultino fra loro incoerenti, però questa sarebbe illogicità. Dunque, posto che il termine “contraddittorietà” è stato aggiunto con la riforma del 2006, in una più larga visione interpretativa, anche l’incoerenza fra un argomento della sentenza e una risultanza del processo dovrebbe rientrare nel concetto di “contraddittorietà”. Ma questo, francamente, potrebbe comportare delicati problemi d’interpretazione, connessi ai limiti del giudizio di Cassazione. In sostanza, a me pare, che se una risultanza relativa ad un atto del processo specificamente indicato nel ricorso non sia stato valutato dal giudice di merito, ciò può rientrare nel vizio di mancanza della motivazione. Mentre, apprezzare la coerenza di tale motivazione non attraverso il testo della sentenza stessa ma attraverso una diversa valutazione della prova rispetto a quella effettuata dal giudice di merito, significa dare alla Cassazione un potere piuttosto estraneo rispetto al compito che le è affidato, comportando necessariamente una valutazione di fatto. Per eludere questo problema, la Suprema Corte ha elaborato il concetto di travisamento della prova nei termini che abbiamo detto.

Fermiamoci sull’area del sindacato di legittimità. Abbiamo accennato, in via generale, al controllo sugli errori in iudicando e sugli errori in procedendo. Costituiscono poi specifica ragione di ricorso, la mancata assunzione di una prova decisiva, di cui la parte abbia fatto richiesta nel dibattimento, limitatamente ai casi di cui all’art. 495 co. 2, vale a dire relativamente al diritto dell’imputato all’ammissione delle prove a discarico; nonché, come s’è detto, la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame. Come anticipato, il vizio di motivazione, oltre che dal testo della sentenza, può emergere da atti del processo che siano stati specificamente indicati dal ricorrente.

Qui si pone il problema del fatto, vale a dire la barriera che separa il giudizio di merito dal giudizio di legittimità. Non può mai essere introdotto, pena l’inammissibilità del ricorso, davanti la Corte di Cassazione. Peraltro non può nemmeno essere totalmente ignorato, visto che sarebbe impossibile per il giudice di cassazione valutare la congruità e la coerenza della motivazione ignorando completamente la vicenda materiale che sta a monte del giudizio. E pertanto il ricorso, in una corretta strategia di legittimità, dev’essere redatto in modo tale da fornire al giudice di legittimità la conoscenza della vicenda senza però mai pretendere, con il contrabbandando della critica logica, una nuova verifica sul merito dei fatti. In altri termini, il fatto dev’essere rappresentato, non per essere valutato dalla Corte di Cassazione, ma per essere conosciuto nei limiti in cui lo stesso è rappresentato nelle sentenze di merito; ai fini di operare il giudizio sulla motivazione. Evidentemente, il confine è sottilissimo ma non impossibile da rispettare. Sul punto, anche il giudice di legittimità dev’essere molto attento, per evitare di confondere la denuncia di legittimità con una critica di merito e di dichiarare pertanto inammissibile un ricorso che non è tale. La critica in punto di logica del ragionamento del giudice di merito, quando colpisce in radice questo ragionamento, non può essere sempre considerata una critica di fatto e come tale non consentita in cassazione. Una critica che non ammette soluzioni alternative, che cioè sia tale da rimuovere e non solo da contrastare l’argomentazione utilizzata in sentenza, non mi sembra che possa intendersi come censura di fatto. Formulo un esempio: in una truffa contrattuale, dove risulti che il denunciante, presunto truffato, sia stato assistito da eccellenti esperti nella stipulazione del contratto, ed essendo a sua volta esperto nel campo, il ricorso del presunto truffatore con cui si deduce come assolutamente illogica la condanna, stante tale situazione di fatto, non mi parrebbe integrare una critica logica, di fatto, ma piuttosto una denunzia di vizio di legittimità. Traggo questo esempio da una decisione della Cassazione che invece ha ritenuto l’inammissibilità. A me sembra che l’eccessiva amplificazione del concetto di fatto tenda a svuotare di senso, impropriamente, il vizio di motivazione.

In verità, l’eccesso del garantismo verticistico presente nel nostro sistema giudiziario penale costringe talvolta i giudici ad adottare strategie di moderazione che non sempre procedono sul filo del diritto, ma che tendono a rimediare gli effetti negativi di tale eccesso. Se le cose non funzionano, si provvede a rimediarle con strategie processuali. Un po’ come avviene con la custodia personale preliminare, molto spesso applicata impropriamente, per rimediare all’impossibilità di rendere operanti le pene.

Non credo che questo sia un buon metodo per reagire ai vizi del sistema, anche perché in questo modo c’è il rischio che i vizi non vengano mai rimossi alla base. Forse, meglio sarebbe che questi vizi fossero portati ed espressi alle estreme conseguenze, per segnalare alla società, ed al legislatore che in qualche modo la rappresenta, le reali esigenze di riforma.

Abbiamo visto il ricorso per Cassazione in via generale, vale a dire il ricorso contro le sentenze, vi è poi il ricorso contro le ordinanze camerali, in tema di misure cautelari personali e reali, in tema di esecuzione della sentenza, e via di seguito. I binari di strategia del ricorso e la valutazione dello stesso non si discostano granché dalle linee generali del giudizio di legittimità, adattate peraltro al giudizio camerale.

Le procedure camerali possono essere, a seconda dei casi, partecipate, vale a dire trattate con l’intervento orale del difensore e del pubblico ministero, o non partecipate. In proposito, vedremo poi un problema di rapporti con il diritto europeo.

Forse è opportuno ricordare l’art. 625 bis c.p.p., ove si prevede il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto. Questo ricorso, che si propone entro sei mesi dal deposito della decisione della Cassazione, può essere proposto solo dai condannati. La giurisprudenza sul tema è molto rigorosa, e si ritiene errore di fatto rilevante quello costituente il presupposto stesso della decisione. Ad esempio, se si condanna taluno ritenendo esistente un fatto che non esiste ovvero ritenendo inesistente un fatto che esiste, ed ove ciò costituisca l’unico presupposto della condanna, qui si tratterebbe di un errore di fatto rilevante per gli effetti del ricorso straordinario.

Vorrei ricordare poi il rapporto fra le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo ed il ricorso straordinario. A tali effetti richiamo la nota sentenza CEDU n. 129 del 2008.

La Corte europea dei diritti dell’uomo aveva rilevato una violazione del giusto processo, come configurato dall’art. 6 paragrafo 3 lett. a) e c) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel fatto che la Cassazione, decidendo su un ricorso, avesse modificato la qualificazione giuridica da corruzione impropria in corruzione propria, così impedendo la prescrizione. In seguito alla decisione europea, il condannato propose ricorso straordinario e la Cassazione ha deciso nel senso che il contraddittorio, per l’adeguamento ai principi affermati dalla giurisprudenza europea, «dev’essere garantito anche laddove l’ordinamento – come nel caso italiano – riconosca al giudice il potere di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione ab origine ascritta all’imputato». In altri termini, la Cassazione ha affermato, per conformarsi al diritto europeo, che i poteri del giudice non possono mai essere esercitati se non in aderenza al fondamentale principio del contraddittorio.

A questo riguardo è forse utile ricordare la sentenza n. 93 del 2010 della Consulta, dove si dichiarava «l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27/12/1956 n. 1423… e dell’art. 2 ter della legge 31/5/1965, n. 575…, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al Tribunale e alla Corte d’Appello, nella forma dell’udienza pubblica». Mi sembra che tale decisione debba anche essere posta in relazione con la sentenza Bocellari e Rizza c. Italia, della CEDU in data 13/11/2007, dove si affermava che la procedura camerale «…essendo funzionale all’applicazione della confisca di beni e capitali, mette direttamente e sostanzialmente in discussione la situazione patrimoniale dell’interessato. Difronte a questa prospettiva, non si potrebbe affermare che il controllo non sia una condizione necessaria a garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato». La CEDU, nella specie affermava la violazione dell’art. 6 co. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Sulla materia vi è stato un ampio percorso, che la Cassazione sembra aver concluso nel senso che le procedure camerali non partecipate non contrasterebbero con il diritto europeo, ma in verità tale soluzione non mi sembra possa considerarsi perentoria e mi sembra invece che la materia andrebbe rivisitata. In un ricorso camerale non partecipato, la Procura Generale della Cassazione aveva richiesto che dovesse applicarsi il principio di pubblicità in coerenza con il diritto europeo, come richiesto dal ricorrente, ma la Corte non ha accolto la censura.

Vorrei concludere notando che i ricorsi in Cassazione sono troppi e molto spesso sono soltanto pretestuosi, per tentare di conseguire la prescrizione; il rimedio, peraltro, dovrebbe essere normativo e non il risultato di scelte giurisprudenziali improprie.

Tuttavia la situazione non sembra poter cambiare con la riforma del 3 agosto u.s. (legge 23 giugno 2017 n. 103) che tocca aspetti prevalentemente formali, come i soggetti legittimati a ricorrere, la partecipazione alle trattazioni camerali, l’aumento sulle sanzioni di inammissibilità e via di seguito; una riforma dunque che, così articolata, non può incidere su un sistema viziato nelle fondamenta, vale a dire formatosi in una prospettiva di giustizia fatta e rifatta sulle forme e vuota di sostanza, visto che le sentenze arrivano quando non servono più a nessuno.