Il riparto dell’onere probatorio in tema di consenso informato
In caso di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, mentre il paziente danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, quest’ultimo è tenuto a dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.
In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore (medico e/o struttura sanitaria) dimostrare che tale inadempimento non vi sia stato, ovvero che, pur essendovi stato, lo stesso non sia eziologicamente rilevante.
La Cassazione, come più volte ha affermato nei suoi precedenti, rileva che la violazione, poi, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:
– un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti;
– nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale. Entrambi i principi, più volte affermati dalla Corte regolatrice, sono stati ribaditi in una recente decisione.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata con la quale la corte distrettuale, confermando la pronuncia del giudice di prime cure, aveva respinto la domanda di risarcimento danni avanzata nei confronti di una azienda ospedaliera e di un medico dagli eredi di una paziente deceduta a breve distanza di tempo dall’effettuazione di una serie di interventi sanitari.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 30 settembre 2014, n. 20547
Pres. Segreto Rel. Scrima
Svolgimento del processo
Con atto notificato nel 1999, O.E., A., G., Gi., rispettivamente marito e figli di M.O., convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Brescia, l’Azienda Ospedaliera di Desenzano del Garda nonché
il medico P.W. , chiedendone la condanna al risarcimento dei danni quantificati in L. 1.967.000.000, ovvero nella diversa somma di giustizia, oltre interessi e rivalutazione.
Deducevano gli attori che nel marzo del 1998 la M. era stata sottoposta ad un esame endoscopico, non necessario e senza consenso informato, da parte del Dott. P. , a seguito del quale si era
verificata un’ampia lacerazione del duodeno che aveva reso necessario un successivo intervento di
suturazione; dopo qualche giorno era sopravvenuta la morte della paziente; nella specie era
configurabile una responsabilità professionale, dovuta ad imperizia, da parte del medico e del
personale sanitario dell’ente convenuto.
I convenuti si costituivano contestando la domanda e chiedendone il rigetto.
In particolare l’Azienda negava ogni responsabilità del personale sanitario in presenza di un quadro
clinico già compromesso per le gravi patologie cardiache che affliggevano la M. e non essendosi
verificata alcuna omissione di cure e di assistenza da parte dei propri dipendenti. Il medico negava
ogni sua responsabilità, mancando in ogni caso il nesso di causalità fra il suo comportamento e il
decesso della paziente.
Il Tribunale adito, con sentenza del 16 gennaio 2008, rigettava le domande attore e compensava tra
le parti le spese di lite.
Avverso tale decisione O.A. , G. e Gi. , in proprio e quali eredi di O.E. , nelle more deceduto,
proponevano appello, cui resistevano entrambi gli appellati.
La Corte di appello di Brescia, con sentenza del 29 settembre 2010, rigettava il gravame e
compensava integralmente tra le parti le spese di lite.
Avverso la sentenza della Corte di merito i soccombenti hanno proposto ricorso per cassazione sulla
base di cinque motivi.
Hanno resistito con distinti controricorsi P.W. e l’Azienda Ospedaliera di Desenzano del Garda.
I ricorrenti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si lamenta “insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e
decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5, c.p.c.)”. I ricorrenti censurano la sentenza impugnata per aver
escluso il nesso di causalità tra la morte e il comportamento dei sanitari – la cui sussistenza gli attori
avrebbero dovuto dimostrare con un criterio necessariamente probabilistico -, affermando, con
richiamo alla c.t.u., l’identico grado di possibilità delle due cause che avrebbero determinato il
decesso della M. , individuate nella tromboembolia polmonare conseguente all’intervento
chirurgico, ovvero nello scompenso cardiaco preesistente al ricovero ed indipendente da esso.
Assumono i ricorrenti che la motivazione sarebbe insufficiente perché la Corte di merito avrebbe
dovuto più esaustivamente verificare la correttezza del decorso post operatorio, con riferimento agli
episodi di vomito e di intossicazione digitale, trascurati dal C.T.U., come pure avrebbe dovuto
esaminare – anche in presenza, in ipotesi, di un corretto decorso post operatorio – la grave incidenza
dei tre fattori (ERCP, di per sé invasivo e non necessario, perforazione del duodeno, intervento
chirurgico con apertura dell’addome) sulle condizioni cardiache della paziente che risultavano
migliorate dopo i primi giorni del suo ricovero ed evidenziano che proprio il C.T.U. ha affermato
nella relazione che la morte in arresto cardiocircolatorio si è verificata il (OMISSIS) ,
inaspettatamente rispetto al precedente iter clinico.
2. Con il secondo motivo, rubricato “insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo
per il giudizio (ex art. 360 n. 5 c.p.c.)”, i ricorrenti impugnano la decisione della Corte di appello
per insufficiente motivazione circa la rilevanza del mancato consenso riguardo all’ERCP in ordine
alla morte della M. , essendosi la Corte di merito limitata ad esprimere un mero giudizio apodittico
dubitativo. Ad avviso dei predetti, dimostrato il nesso causale tra l’esecuzione dell’ERCP e la morte
della paziente, come esposto nel primo motivo di ricorso, sarebbe evidente la rilevanza del consenso
informato al fine dell’exitus della stessa e rilevano che la mancanza del consenso informato
costituisce, di per sé ed a prescindere dall’errore del medico, illecito anche penalmente rilevante e
comunque inadempimento del professionista.
3. Con il terzo motivo si lamenta “insufficiente motivazione in ordine alla interpretazione della
domanda degli attori per i danni del mancato consenso e per i danni conseguenti alla lesione del
duodeno ex art. 360 n. 5 c.p.c.”.
I ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la domanda degli
attori non comprendesse il danno da mancato consenso e non si è pronunciata sui danni conseguenti
alla lesione del duodeno, laddove gli attori avevano chiesto tutti i danni subiti e tale istanza era stata
riproposta in appello, sicché la limitazione della domanda nell’interpretazione della Corte di merito
sarebbe in contrasto con il significato letterale dell’espressione adoperata dagli attori e affermata
con motivazione incongrua.
4. Con il quarto motivo si lamenta “insufficiente valutazione in ordine ai presupposti previsti dal
regolamento di polizia mortuaria per l’esecuzione dell’autopsia (art. 360 n. 5 c.p.c.)”.
Precisato che pacificamente nella specie non è stata eseguita l’autopsia sul corpo della M. , i
ricorrenti censurano la decisione impugnata nella parte in cui, con riferimento alla mancata
esecuzione dell’autopsia, la Corte di merito ha affermato che il C.T.U. ha chiarito che spetta al
sanitario valutare se disporla per riscontro diagnostico, in presenza di dubbi sulle cause della morte,
e che é evidente che se il medico che ha constatato il decesso ritenga che non vi siano dubbi sulle
cause naturali della morte ben si può evitare di procedere all’esame necroscopico che non risulta
neppure richiesto dai familiari della donna.
Evidenziano i ricorrenti che, invece, nella consulenza é affermato che, ai sensi del regolamento di
polizia mortuaria, la richiesta di autopsia per riscontro diagnostico “é dovuta quando il medico ha
dubbi sulla causa della morte” e che, nella specie, tale autopsia “avrebbe dovuto essere richiesta,
posto che la diagnosi di morte formulata in base ai dati clinici era ed è insufficiente a chiarire i
meccanismi fisiopatologici che hanno determinato il decesso e che di fatto sussistono ancora dubbi
sulla causa di morte” e tanto é stato pure ribadito in sede di chiarimenti alla c.t.u. resi dall’ausiliare.
Conclusivamente sostengono i ricorrenti che il direttore sanitario avrebbe dovuto – secondo il
C.T.U. – necessariamente disporre l’autopsia che avrebbe consentito di stabilire con certezza la
concreta natura dell’evento cardiocircolatorio che ha prodotto il decesso.
I ricorrenti sottolineano le contraddizioni della sentenza impugnata la quale mentre afferma che è
dubbia la causa della morte – da individuarsi nella tromboembolia polmonare o nello scompenso
cardiaco – ritiene che giustamente non ebbe dubbi sulle cause naturali della morte il sanitario che
non dispose l’autopsia.
5. I primi quattro motivi di ricorso, che per connessione possono essere esaminati congiuntamente,
sono fondati.
Risulta accertato ed è comunque pacifico (come affermato a p. 21 della sentenza impugnata, non
censurata al riguardo) che vi sia stato un inadempimento del medico in merito sia al consenso
informato che alla lacerazione da esame endoscopico e che ciò determinò la necessità del
successivo intervento e che, se la causa della morte fu una tromboembolia, questa fu generata
dall’intervento (v. sentenza p. 18 in cui vengono riportate, in parte, anche le conclusioni
dell’ausiliare del giudice, secondo cui “in base a tale ipotesi il decesso risulterebbe in nesso di
causalità con la perforazione duodenale, in rapporto all’allettamento conseguito all’intervento
chirurgico che ha riparato la lesione duodenale”).
Gli inadempimenti e il nesso causale sopra richiamati sono proprio quelli allegati dagli attori.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità contrattuale
della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del
riparto dell’onere probatorio, l’attore danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o
il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del
debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore
(medico e/o struttura sanitaria) dimostrare che tale inadempimento non vi sia stato, ovvero che, pur
essendovi stato, lo stesso non sia stato eziologicamente rilevante (Cass., sez. un., 11 gennaio 2008,
n. 577; Cass. 21 luglio 2011, n. 15993; Cass. 12 settembre 2013, n. 20904 e Cass. 12 dicembre
2013, n. 27855). Osserva la Corte che nell’accertamento del fatto il giudice del merito deve ispirarsi
a criteri logico-giuridici corretti.
Orbene, risultando, come sopra evidenziato, nella fattispecie provato l’inadempimento ascritto, che
è astrattamente idoneo a determinare l’evento dannoso, in assenza di prova contraria, che doveva
fornire il debitore, la Corte di appello non hanno fatto corretta applicazione dei richiamati principi
in tema del riparto probatorio e la decisione non è supportata da argomentazioni sufficienti a tale
riguardo, sicché la motivazione della sentenza impugnata risulta viziata sotto il profilo logicogiuridico.
Si evidenzia, peraltro che, nella specie, l’ausiliare del giudice ha assegnato alle due cause
tecnicamente ipotizzabili (tromboembolia polmonare e scompenso cardiaco acuto su basi ischemica
e/o aritmica) un identico grado di possibilità (v. sentenza impugnata p. 23 e 24), con conseguente
stallo, in tema di accertamento di nesso di causalità fra intervento e il decesso, e che ciò va a carico
del debitore, che non ha provato che l’inadempimento non ha causato il decesso.
In questa ottica rileva anche la mancanza di un’autopsia, pur in presenza di un’assunta non certezza
della causa della morte, e la non corretta tenuta della cartella clinica, come risulta agli atti,
richiamandosi, a tale ultimo riguardo il principio già affermato da questa Corte – e che va in questa
sede ribadito – secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad
escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla
patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma
consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere
data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe
potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed
al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per
l’altra parte di offrirla (Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).
La motivazione della sentenza impugnata risulta, inoltre, insufficientemente motivata nella parte in
cui ha ritenuto che non sia stata proposta “una apposita richiesta risarcitoria” in relazione alla
carenza di consenso informato riguardo all’ECRP ed ha comunque escluso, peraltro anche in forma
dubitativa (“non pare aver inciso sull’exitus della paziente”), la rilevanza di tale carenza in ordine
alla decesso della M. .
Va peraltro evidenziato, per completezza, che in tema di consenso informato questa Corte ha
affermato che la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare
due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il
paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di
sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del
diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo,
il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo
caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (Cass. 16 maggio 2013, n.
11950; v. anche Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847).
6. Con il quinto motivo si lamenta “violazione dell’art. 112 c.p.c. per non avere la sentenza
impugnata pronunciato su tutta la domanda in relazione all’omessa pronuncia sul danno per la
perforazione del duodeno (art. 360 n. 3 c.p.c.)”.
Precisano i ricorrenti di aver chiesto con atto di citazione tutti danni connessi “all’azione
endoscopica del dottor P. ” e si dolgono che la Corte di merito, in considerazione dei dubbi sulle
due cause della morte ritenute di identico grado di possibilità e dunque esclusa la prova del nesso
causale del decesso con il comportamento dei sanitari, abbia rigettato la domanda di risarcimento,
omettendo di pronunciarsi sui danni derivanti dalla lesione del duodeno, imputabile certamente a
colpa del Dott. P. . Sostengono i ricorrenti che, a prescindere dall’accoglimento dei precedenti
motivi, non vi sarebbe dubbio che l’erronea esecuzione dell’ERCP con la conseguente lesione del
duodeno ha di per sé determinato gravi danni patrimoniali e non patrimoniali imputabili ai
controricorrenti, il cui risarcimento avrebbe dovuto essere disposto in ogni caso.
6.1. Anche il quinto motivo è fondato.
Infatti in ogni caso la Corte di merito non si è pronunziata in relazione ai danni causati dall’errata
endoscopia con lacerazione e successivo intervento, sicché sussiste la lamentata omessa
motivazione al riguardo.
7. Il ricorso deve essere, pertanto, accolto.
L’impugnata sentenza va cassata, con rinvio – anche per le spese del giudizio di cassazione – alla
Corte di appello di Brescia, in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del
giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione