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I presupposti per la configurabilità del mobbing

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

I presupposti per la configurabilità del mobbing

La Corte di Cassazione si pronuncia ancora una volta sulla questione del mobbing lavorativo, con l’intento di delineare in maniera analitica i presupposti affinché questo possa configurarsi. A tal fine vengono individuati una serie di comportamenti idonei a qualificare la condotta come persecutoria. Nello specifico è necessario che siano stati posti in essere nei confronti del lavoratore comportamenti di carattere persecutorio protratti nel tempo, che ci sia un evento lesivo, che questo sia stato causato dalle vessazione continue e che sia presente l’elemento soggettivo.

La Cassazione, nella sentenza in esame, rileva che il  mobbing è una figura complessa che designa un fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. In particolare, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte ed il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. Tali principi, già enunciati dal giudice di legittimità, sono stati ribaditi in una recente decisione.

 

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-09-2014, n. 20230

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12604/2013 proposto da:

*****************************************************;

– ricorrente –

contro

*****************************************************;

– controricorrente –

Svolgimento del processo

 

1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 9 maggio 2012) respinge l’appello di N.P.M. avverso la sentenza del Tribunale di Frosinone n. 1535/2008 che ha dichiarato prescritto il diritto del ricorrente a chiedere l’annullamento del licenziamento intimatogli da CONI Servizi s.p.a. l’11 novembre 1999, con le conseguenti pretese economiche ed ha respinto le domande risarcitorie (danno biologico, esistenziale e morale) derivanti da un preteso mobbing subito dal N..

La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:

a) è corretta la dichiarazione del primo giudice di prescrizione dell’azione di annullamento del licenziamento, visto che nel ricorso introduttivo – pacificamente notificato molto dopo lo scadere del quinquennio rispetto alla ricezione della comunicazione del licenziamento -non risulta essere contenuta alcuna allegazione specifica o prova (anche presuntiva) circa la nullità del licenziamento quale culmine di un comportamento vessatorio, pretestuoso e ritorsivo del datore di lavoro;

b) in particolare, pur essendo presenti, nel ricorso introduttivo, allegazioni in fatto di avvenimenti e comportamenti denunciati come persecutori manca del tutto, in quella sede, un collegamento tra la condotta datoriale e il successivo provvedimento espulsivo, in particolare, pur ricostruendosi la suddetta condotta in termini di mobbing non la si collega finalisticamente con l’intento di risolvere il rapporto;

c) solo in appello, per la prima volta, è stato effettuato tale collegamento, del tutto inammissibilmente, visto con esso si introduce un tema nuovo che richiede indagini in fatto differenti rispetto a quelle prospettate in primo grado;

d) quanto al mobbing, va rilevato che le allegazioni del ricorrente e le prove richieste sono inidonee – data la loro genericità – a dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra la pretesa condotta persecutoria e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore che si assume attestato dalla documentazione medica prodotta, dalla quale, peraltro, non risultano gli eventi che hanno dato origine alla situazione di stress psicologico che avrebbero determinato le riscontrate patologie;

e) ne consegue, che mancano i presupposti per dare corso ad un accertamento peritale che, nell’indicata situazione, avrebbe un valore meramente esplorativo e non potrebbe comunque supplire alla carenza probatoria – da parte del N. – in ordine all’esistenza di un nesso eziologico tra condotta datoriale e danno.

2 – Il ricorso di N.P.M. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, CONI Servizi s.p.a..

Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

 

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1.- Il ricorso è articolato in quattro motivi.

1.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., con riguardo alla domanda di nullità del licenziamento correlata al dedotto mobbing. Si ricorda l’indirizzo di questa Corte secondo cui il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato può ritenersi violato solo ove il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto, non compreso, nemmeno implicitamente, nella domanda o nelle richieste delle parti. Mentre non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata ma che debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quella espressamente formulata (Cass. 24 aprile 2013, n. 10009).

Nella specie una attenta lettura del ricorso introduttivo avrebbe dovuto portare i Giudici del merito a considerare implicitamente dedotta la nullità del licenziamento subito sia laddove si sottolineava il carattere abnorme della sanzione sia nella parte in cui ci si riferiva al mobbing, che era diretta a delineare – sia pure per implicito – il carattere vessatorio del comportamento datoriale non soltanto ai fini risarcitoli.

1.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione della L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15, e art. 1345 c.c., in conseguenza della mancata rilevazione d’ufficio della nullità del licenziamento, nonostante la avvenuta deduzione nei fatti del carattere vessatorio del comportamento datoriale.

Si sostiene che – applicando in senso evolutivo l’indirizzo espresso da Cass. SU 4 settembre 2012, n. 14878 – la Corte romana avrebbe dovuto verificare d’ufficio la sussistenza del motivo illecito del licenziamento anzichè limitarsi a valutare la sussistenza o meno del danno da mobbing ai soli fini risarcitori conseguentemente rilevando l’assenza di specifiche allegazioni formulate “circa la nullità del licenziamento, quale culmine di un comportamento vessatorio”.

1.3- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per “omessa valutazione” di fatti decisivi per il giudizio e, in particolare della documentazione prodotta che provava la sussistenza del mobbing e del motivo illecito del licenziamento, a partire dalla mancata accettazione delle dimissioni volontarie del N. cui ha fatto seguito il licenziamento.

1.4- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per “omessa valutazione” di fatti decisivi per il giudizio e, in particolare della documentazione prodotta che provava la sussistenza del mobbing e quindi la sua effettiva risarcibilità.

Si rileva che il N. aveva assolto l’onere probatorio a suo carico provando sia i diversi comportamenti datoriali sia le patologie sofferte, in questa situazione il nesso causale tra questi due elementi avrebbe dovuto essere provato soltanto con una CTU, che non è stata mai disposta.

3 – Esame delle censure.

2.- Prima di effettuare l’esame delle censure deve essere precisato che, diversamente da quanto sostenuto dal controricorrente, nella specie non si applica il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la novella si applica ai ricorsi avverso le sentenze depositate dopo il giorno 11 settembre 2012, mentre la sentenza qui impugnata è stata depositata il 9 maggio 2012.

3.- Detto questo, il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

4.- In primo luogo, dal punto di vista del tecnica redazionale del ricorso, va osservato che si tratta di un atto di complessive 59 pagine, che nelle prime 44 pagine contiene una inutile e sovrabbondante riproduzione – oltretutto con un carattere grafico che ne rende impossibile la lettura – degli atti del processo, senza che venga operata alcuna scelta di ciò che serve realmente per l’illustrazione delle censure.

Al riguardo va, innanzi tutto, ricordato che l’illeggibilità del ricorso per cassazione lo rende inammissibile (Cass. 29 gennaio 2004, n. 1666). Poichè, però, nella specie il suddetto inconveniente non si rinviene nella totalità dell’atto – e, in particolare, non impedisce di esaminare le censure, contenute dalla pagina 44 alla fine – in base al principio di utilità che governa i mezzi e le forme processuali, non si ritiene di dichiarare l’inammissibilità dell’intero ricorso per la suddetta ragione.

5.- Comunque,, anche a scopo nomofilattico, appare opportuno ricordare, che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) il rispetto del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. 22 giugno 2006, n. 19100), principalmente in quanto esso collide con l’obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, e in coerenza con l’art. 6 CEDU, nonchè di evitare di gravare sia lo Stato sia le parti di oneri processuali superflui (arg. ex Cass. 4 luglio 2012, n. 11199; Cass. 30 aprile 2014, n. 9488);

b) ne deriva che in tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso (Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698);

c) in particolare, in materia di ricorso per cassazione, la pedissequa riproduzione di atti processuali e documenti, ove si assuma che la sentenza impugnata non ne abbia tenuto conto o li abbia mal interpretati, non soddisfa il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto costituisce onere del ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, al fine di evitare di delegare alla Corte un’attività, consistente nella lettura integrale degli atti assemblati finalizzata alla selezione di ciò che effettivamente rileva ai fini della decisione, che, inerendo al contenuto del ricorso, è di competenza della parte ricorrente e, quindi, del suo difensore (Cass. 2 maggio 2013, n. 10244; Cass. 9 luglio 2013, n. 17002); Cass. 21 novembre 2013, n. 26277).

6.- Passando all’esame dei diversi motivi, si precisa che il primo motivo è inammissibile.

Con esso, infatti – a prescindere dal richiamo all’art. 112 c.p.c., contenuto nella rubrica del motivo stesso – non si denuncia, in realtà, il mancato rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ma si contesta – senza neppure allegare in modo fruibile la parte del ricorso introduttivo rilevante e quindi in contrasto con il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione – l’interpretazione del ricorso introduttivo data dalla Corte territoriale, che risulta, peraltro, esatta in diritto e ben argomentata.

In particolare, non venendo in considerazione alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., la censura risulta diretta a contestare inammissibilmente la qualificazione della domanda giudiziale e della sua ampiezza operata dalla Corte romana – e ben motivata – senza offrire alcun elemento idoneo a portare ad una diversa conclusione.

Tanto più che è jus receptum che il mobbing è una figura complessa che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, designa (essendo stato mutuato da una branca dell’etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003; Cass. 5 novembre 2012, n. 18927).

In particolare, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; e) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;

d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass. 21 maggio 2011, n. 12048; Cass. 26 marzo 2010, n. 7382).

Le delineate complessità e specificità della figura del mobbing confermano l’esattezza della scelta della Corte territoriale di: a) escludere la possibilità di ritenere “implicitamente” dedotto il mobbing nel ricorso introduttivo, come vorrebbe il ricorrente; b) considerare inammissibile tale deduzione effettuata solo in appello, per la prima volta, sull’assunto che con essa si introduceva nel processo una questione nuova, non compresa nell’originario thema decidendum.

7.- Per analoghe ragioni è inammissibile anche il secondo motivo, anch’esso, diretto ad ottenere, in questa sede, una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nella rubrica del motivo e nonostante che lo stesso ricorrente riconosca di aver centrato la domanda sulla ritorsione solo in appello, il che, per quel che si è detto a proposito del primo motivo, conferma la correttezza logico-giuridica della motivazione.

8.- Anche il terzo e il quarto motivo – da trattare insieme, perchè connessi – sono inammissibili.

Infatti, con essi – come risulta dalle relative rubriche, ove si lamenta la omessa “valutazione” di fatti decisivi – si denunciano vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e quindi per esprimere un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello, anzichè sotto il profilo della scorrettezza giuridica e della incoerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito (vedi, tra le tantissime: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37;

Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; A Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

4 – Conclusioni.

9.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 27 maggio 2014. Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2014